di Emilio Drudi
“E’ arrivato il
momento di ricominciare. Sono venuto qui a testimoniare la volontà di
rilanciare le relazioni bilaterali e provare a favorire un pieno reinserimento
dell’Eritrea quale attore responsabile e fondamentale della comunità
internazionale nelle dinamiche di stabilizzazione regionale”: è quanto ha
dichiarato il vice ministro agli esteri Lapo Pistelli durante la sua recente
visita ad Asmara al dittatore eritreo Isaias Afewerki. Tre i motivi posti alla
base della sua iniziativa: riportare stabilità e “normalità” in un’area, il
Corno d’Africa, sconvolta da tensioni, conflitti, rivolte, guerre civili,
carestia; bloccare la fuga di centinaia di migliaia di profughi che cercano di
salvarsi da questo disastro; gettare le basi per nuove occasioni di sviluppo:
“L’Unione Europea – ha specificato in particolare Pistelli al quotidiano
L’Avvenire – deve creare in Africa 500 milioni di posti di lavoro con
l’agricoltura sostenibile e l’energia”.
“Ricominciare”,
dunque. Anzi, nell’intervista rilasciata all’Avvenire il viceministro è stato
ancora più categorico: “Dialogare con l’Eritrea – ha ammonito – è
obbligatorio…”. Già, ma “ricominciare” e “dialogare” con chi? In realtà ci sono
due Eritree: quella del dittatore Isaias Afewerki e l’altra, quella della
gente. La gente della diaspora, le migliaia e migliaia di fuoriusciti ed esuli,
e la gente che è segregata in un paese-prigione. Allora, si tratta di
scegliere: con quale Eritrea “ricominciare”? Tutto dipende da questa scelta.
La prima strada, la
più diretta e facile, è quella imboccata dal viceministro Pistelli: dialogare
con Afewerki. Questo significa, però, legittimare la dittatura e ridare forza
proprio a chi ha portato il paese allo sfacelo: “ricominciare”, cioè, con la
causa prima e diretta dei problemi che si vorrebbero risolvere in Eritrea e con
uno dei fattori più evidenti della dolorosa instabilità che travolge l’intero
Corno d’Africa. Per di più, se si percorre questa via, come ha iniziato a fare
l’Italia, bisogna tenere conto di almeno quattro enormi problemi.
Il primo,
fondamentale per qualsiasi principio democratico, è che Afewerki è odiato o
quanto meno mal sopportato dalla maggioranza della popolazione eritrea. Gli
altri tre non sono meno importanti. La Chiesa cattolica nazionale, quasi a dar
voce alla disperazione della gente, ha segnalato la situazione creata dal
regime attraverso la lettera pastorale firmata da tutti i suoi vescovi in
occasione dell’ultima Pasqua. Una denuncia che ha ricevuto proprio in questi
giorni il totale sostegno del Consiglio Mondiale delle Chiese, con una
risoluzione della Commissione Centrale riunita a Ginevra all’inizio di luglio.
Ancora, terzo punto, la dittatura di Asmara è stata sfiduciata ed isolata ormai
da anni da tutte le democrazie e anche dagli altri stati della regione. In una
parola, dall’intera comunità internazionale. In particolare, l’Autorità
intergovernativa per lo sviluppo (Igad nella sigla in inglese), formata dagli
stati del Corno d’Africa, la accusa apertamente di sostenere e armare i ribelli
dell’Ogaden e i gruppi fondamentalisti di Al Shabaab in Somalia. L’Onu conferma
sostanzialmente questa denuncia ed ha istituito una commissione di inchiesta
sulle violazioni dei diritti umani nel paese. La Svezia, stato membro
dell’Unione Europea al pari dell’Italia, infine, proprio in queste settimane ha
inserito Afewerki e alcuni suoi ministri in testa alla lista di personaggi
perseguibili per crimini contro l’umanità in base a una nuova legge che
consente a Stoccolma di aprire procedimenti giudiziari per questo genere di
reati ovunque e contro chiunque si siano verificati.
Per dare corso
all’apertura di credito manifestata da Pistelli nei confronti di Afewerki,
allora, appare chiaro che si dovrebbero in qualche modo eliminare questi
quattro pesantissimi ostacoli. E’ possibile? La risposta non può che essere
negativa, a meno di non volersi tappare occhi, bocca e orecchi. E’ eloquente,
del resto, quanto hanno detto le organizzazioni della diaspora all’indomani del
viaggio del vice ministro ad Asmara: “Nel momento in cui i democratici eritrei
sono in lotta contro la feroce dittatura che, violando ogni diritto umano e
politico, insanguina il suo Paese e costringe il suo popolo alla fuga e alla
morte; nel momento in cui un cerchio di solidarietà si va consolidando contro il
regime della tortura e dello schiavismo; nel momento in cui l’isolamento
politico e diplomatico di quella dittatura risulta la sola strada percorribile
per ostacolare le violenze del dittatore e dei suoi accoliti, la notizia di
questa sorta di apertura di credito da parte dell’Italia arriva come una doccia
fredda…”. Non solo. Il viceministro mostra di ignorare che le cause della
interruzione dei “colloqui” tra Italia ed Eritrea non nascono, come dice, dai
trascorsi coloniali fascisti ma dal massacro dei diritti umani perpetrato dal
regime. La diaspora non manca di ricordarglielo: “Ciò che sorprende di più –
denuncia – è il silenzio di Pistelli e del ministero degli Esteri sulle vere
ragioni umanitarie per le quali dal 1997 nessun rappresentante politico italiano
si è più recato in Eritrea. Il raffreddamento delle relazioni politiche tra
Roma ed Asmara non è dipeso ‘dalle recriminazioni storiche che ormai attengono,
appunto, alla dimensione storica’, come afferma Pistelli nelle sue
dichiarazioni: non dalla memoria di un colonialismo pur feroce terminato nel
1941, ma dalle violazioni continue di ogni diritto umano e politico che in
Eritrea si compiono a danno della sua popolazione, costretta di conseguenza
alla fuga dal paese”.
La realtà è che per
quel “ricominciare” invocato da Pistelli occorre una pacificazione nazionale.
Ma la pacificazione non può che partire dall’abbattimento della dittatura e
dall’analisi di quanto è accaduto negli ultimi venti anni in Eritrea, con tutto
quello che ne consegue: portare alla luce e denunciare le responsabilità
individuali, istituzionali e politiche; punire almeno simbolicamente i colpevoli
e comunque allontanarli dai posti di potere con una efficace epurazione;
consentire il rientro della diaspora. Tutto ciò è impossibile con Afewerki al
governo. Non resta, allora, che la seconda ipotesi: dialogare e ricominciare
con “l’altra Eritrea”, quella dei fuoriusciti, degli esuli, dei perseguitati.
Della gente. Non è una via facile neanche questa. Per due motivi: le divisioni
che finora hanno impedito di costituire un Comitato di liberazione ufficiale e,
di contro, la “forza” che ancora può vantare il regime.
Quanto alle
“divisioni”, sicuramente ce ne sono ancora, ma appaiono in via di superamento.
Può risultare decisiva, in questo senso, la recente presa di posizione della
Chiesa cattolica: la lettera dei vescovi, nella quale si è riconosciuta gran
parte delle forze di opposizione, sta diventando un punto di riferimento
fondamentale. Potrebbe esserlo, anzi, anche per le cancellerie europee,
offrendo quell’interlocutore “credibile” che la diplomazia occidentale ha detto
finora di non aver trovato, come “alternativa” al regime. Regime – ed è il
secondo punto della questione – che è in realtà molto meno saldo di quanto
vuole apparire. Anzi, Afewerki probabilmente si mostra disponibile al colloquio
aperto da Pistelli proprio perché sente che il suo potere sta franando. Nel
paese si sono creati, infatti, diversi potentati autonomi, il cui unico
collante è la conservazione e la spartizione del potere. Tra questi potentati,
di primo piano è quello che sfrutta una fetta del traffico di esseri umani,
fino al confine con l’Etiopia o con il Sudan: quel traffico di esseri umani che
l’Italia dice di voler bloccare.
C’è, infine, un
altro fattore da non sottovalutare nel momento in cui si decide di scegliere
l’Eritrea di Afewerki piuttosto che quella della diaspora: la credibilità
dell’Italia e dell’Europa di fronte al mondo. Il disastro, le decine di
situazioni di crisi che stanno vivendo l’Africa e in generale il Sud del
pianeta, dipendono in gran parte dalla fiducia e dalla protezione concesse dai
governi occidentali ai vari “dittatori di turno”, calpestando libertà e
diritti, in nome della realpolitik e di mega interessi economici spesso
inconfessabili. Per trovare una soluzione percorribile occorre una inversione
di rotta di 180 gradi, in modo da cominciare ad ascoltare la voce dei popoli
invece di quella dei “colonnelli” che fanno comodo alle strategie di
sottomissione di stampo coloniale attuate dai “potenti della terra” nei
confronti dei paesi poveri ma ricchi di risorse o di grande importanza
strategica: quei “colonnelli” così funzionali all’egemonia globale basata sullo
sfruttamento degli “ultimi”.
Ecco, la scelta di
dare fiducia e credibilità ad Afewerki va esattamente nella direzione opposta
al cambiamento invocato. Non risolve i problemi ed elimina anzi ogni residua
fiducia nell’azione dell’Italia e della stessa Europa. L’Eritrea di Afewerki è
destinata prima o poi ad essere spazzata via da quella della diaspora, quella
che si batte per la libertà. C’è da chiedersi, allora, quando ad Asmara avrà
vinto la democrazia e si comincerà a costruire un paese nuovo, che cosa potrà
mai dire l’Italia e come verrà considerata, se adesso si schiera con il dittatore,
ignorando totalmente le voci della diaspora. Nel migliore dei casi verrà
trattata con sospetto e freddezza. Perché i popoli sanno distinguere bene tra
amici e nemici ed hanno la memoria lunga. Non a caso un vecchio detto popolare
romano dice che a mettersi contro il popolo si finisce sempre per sbatterci il
grugno.
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