lunedì 24 novembre 2014

Migranti: mille pretesti per negare i ricongiungimenti familiari


di Emilio Drudi

“Torna tra dieci giorni”. Così ha detto un funzionario dell’ambasciata italiana in Uganda a Helen, una giovane etiope che aveva appena presentato la richiesta di visto per volare finalmente in Italia a ricomporre famiglia e affetti. A Helen c’erano voluti ben sei mesi di attesa per “conquistarsi” quell’appuntamento all’ufficio consolare di Kampala: già, metà anno solo per essere ricevuta, riempire i moduli per la domanda, pagare le tasse ed esibire il nulla osta rilasciato dal Viminale a suo marito, residente da anni a Roma. Ma… “Pazienza – si è detta – dieci giorni ancora e questa odissea sarà finita.
Passano i dieci giorni ed Helen (il nome è fittizio per evitare eventuali ritorsioni) risale le scale dell’ambasciata. “Mi dispiace – le dice lo stesso funzionario – Devi ritornare tra due settimane”. Lei vorrebbe protestare, ma si sforza di restare calma: “Va bene, tornerò…”. Quindici giorni dopo, quando sono ormai trascorsi 7 mesi dalla prima richiesta di appuntamento, stesso funzionario e stessa storia. L’unica variante è che il nuovo rinvio prevede il raddoppio del tempo di attesa: “Devi ritornare fra trenta giorni”, sono le parole che si sente dire, accompagnate da un sorriso più beffardo che benevolo. Ci sarebbe di che esplodere di rabbia, ma Helen riesce ancora a frenare la frustrazione e il disappunto. Si rifà viva dopo un mese ma neanche stavolta il visto è pronto. Tutto come prima, incluso lo strano sorriso del funzionario, sempre quello. Allora non ce la fa più e prova a farsi dare qualche spiegazione. Con fermezza ma senza perdere il controllo. “Si può sapere almeno – dice – quando sarà pronto il mio visto? Ho già pagato 159 dollari per la pratica e avrete constatato che dall’Italia è arrivato da tempo il certificato per il ricongiungimento”. “Per tutta risposta – riferisce Helen – ho ricevuto il solito, indecifrabile sorriso e una specie di sfogo senza senso. Qualcosa come: non lo so, non sono mica Dio…”.
Questo tira e molla è stato raccontato da Helen e da suo marito a don Mussie Zerai, dell’agenzia Habeshia. Hanno pensato che, dopo otto mesi di umiliazioni, forse la soluzione si sarebbe potuta trovare direttamente in Italia: ad Habeshia hanno chiesto se al ministero degli Esteri o a quello degli Interni, si può almeno trovare qualcuno in grado di fornire una spiegazione plausibile e magari di sbloccare la situazione, visto che il nulla osta per il ricongiungimento familiare è stato firmato da mesi.
Nelle stesse condizioni di Helen ci sono decine e decine di giovani donne, a volte con i bambini piccoli. A Kampala e ancora di più in altri Stati africani. Soprattutto a Khartoum e ad Addis Abeba storie di questo genere si ripetono da anni. Con le motivazioni più assurde. Molto frequente è l’insinuazione che il matrimonio su cui si basa il ricongiungimento familiare potrebbe essere falso o comunque non valido. Senza però addurre prove per un’accusa così pesante. E nonostante il Viminale abbia certificato che tutto è in regola. Le conseguenze, a volte, sono devastanti. Specie in Sudan, dove il visto per i migranti ha in genere una validità di soli sei mesi: alla scadenza o si viene espulsi o si finisce nel lager di Shakarab. Una prospettiva paurosa. Pur di evitarla diverse donne, disperate e stanche di aspettare, finiscono per rivolgersi ai trafficanti: pagano migliaia di dollari e corrono mille rischi per raggiungere in qualche modo la costa libica e da lì attraversare il Mediterraneo su un barcone “a perdere”, insieme a centinaia di altri profughi. Condannate da motivazioni pretestuose a imboccare una via di emigrazione clandestina, nonostante siano perfettamente in regola.
Non sono soltanto giovani donne le vittime di dinieghi e lungaggini basate su crudeli pretesti. Spesso sono prese in questo vortice anche persone anziane, che non hanno né la possibilità né la forza di tentare vie alternative di emigrazione, inclusa quella, al limite, degli scafisti. E’ eloquente la vicenda di una signora somala di oltre 60 anni che suo figlio vorrebbe portare in Italia. Lui vive da tempo a Roma. Ha un permesso di soggiorno regolare, una casa, un lavoro, un reddito dignitoso: tutto quello che richiede la legge per il ricongiungimento familiare, insomma. Manca il visto dell’ambasciata. In Somalia i nostri uffici diplomatici sono stati chiusi 23 anni fa, in seguito alla guerra civile che ha sconquassato il paese. Nell’aprile scorso la Farnesina ha deciso di riaprirli: in giugno l’ambasciatore Fabrizio Marcelli ha ricevuto le credenziali dal presidente Hassan Sheikh Mohamud ed è stato scelto il sito dove costruire la nuova sede, all’interno del compound dell’aeroporto di Mogadiscio, fortificato e presidiato come una trincea. Quella signora ha avviato la sua “pratica” molto prima dello scorso giugno. In mancanza di una nostra ambasciata a Mogadiscio, è stata costretta a rivolgersi alla diplomazia italiana in un altro Stato. I nostri consolati più vicini alla Somalia sono a Nairobi, in Kenya, e ad Addis Abeba, in Etiopia. Ma ai somali non è consentito accedere a questi due uffici per visti, pratiche di emigrazione, ecc. Non è rimasto che andare a Sana’a, nello Yemen, al di là del Mar Rosso. Visto il disagio, il lungo viaggio, le spese ingenti, l’età stessa della “richiedente”, sarebbe stato lecito attendersi attenzione e sollecitudine. Nient’affatto: anche in questo caso ne è nato un tira e molla infinito. E tuttora insoluto.
La Farnesina è al corrente di questa situazione. Storie come quella di Helen, della signora somala o delle ragazze eritree bloccate a Khartoum e ad Addis Abeba, sono state segnalate più volte sia a vari funzionari che, soprattutto, agli stessi ministri e viceministri in carica negli ultimi tempi. Finora non si è fatto nulla di concreto: un mare di promesse e basta. Senza esito anche gli appelli lanciati a parecchi parlamentari: in particolare ad alcuni che fanno parte della Commissione Esteri della Camera. C’è da chiedersi, allora, se non ci sia in realtà una tacita disposizione agli uffici diplomatici per ostacolare in tutti i modi la concessione dei visti di immigrazione, anche in caso di ricongiungimento familiare. Appare per lo meno strano, infatti, che certi incomprensibili comportamenti possano essere casuali, visto che si verificano contemporaneamente e sostanzialmente con le stesse modalità in diverse ambasciate: da Kampala a Khartoum, da Addis Abeba a Sana’a.

Ora sta per essere inviata l’ennesima segnalazione, questa volta indirizzata a Paolo Gentiloni, che dal 31 ottobre ha sostituito Federica Mogherini al vertice degli Esteri. Cambierà finalmente qualcosa?

lunedì 17 novembre 2014

Appello alle autorità Sudanesi. Fermate il Traffico di esseri Umani.



Sos per 15 profughi rapiti

I mercanti di morte controllano la frontiera tra Sudan ed Eritrea


Individuare, combattere, assicurare alla giustizia i trafficanti di uomini che controllano la frontiera tra l’Eritrea e il Sudan e tutto il vasto hinterland lungo le vie di fuga verso i campi profughi sudanesi.

E’ un appello che lanciamo con forza innanzitutto al Governo del Sudan ma, con la stessa determinazione, a tutta la comunità internazionale. In particolare all’Italia, all’Unione Europea, all’Unione Africana e agli Stati del Corno d’Africa che, su iniziativa del viceministro degli esteri italiano Lapo Pistelli, si apprestano a riunirsi a Roma in un confronto sul “Processo di Khartoum”, il protocollo d’intesa che vede al primo punto proprio il problema dell’emigrazione e che non può dunque ignorare il lucroso mercato di morte costruito sulla sofferenza e la disperazione di migliaia e migliaia di uomini e donne, spesso giovanissimi.

I trafficanti che operano lungo centinaia di chilometri della frontiera Sudan-Eritreaappartengono alle stesse bande di predoni, legate a organizzazioni internazionali del crimine, che per anni, nel Sinai, hanno sequestrato, ricattato, torturato e non di rado portato alla morte migliaia di migranti che, costretti a fuggire dai loro paesi nel Corno d’Africa o dell’Africa sub sahariana, tentavano di raggiungere e varcare il confine tra Egitto ed Israele. La loro presenza ai margini del confine settentrionale eritreo è ora la prosecuzione dello stesso business mafioso, giocato sulla vita di chi non ha altra alternativa che la fuga dal proprio paese per sottrarsi a guerre, persecuzioni, galera, torture. L’unica differenza è che adesso le basi operative delle varie bande sono in Sudan e non più nel deserto del Sinai. E che alle vecchie bande di predoni si sono aggiunti probabilmente gruppi di terroristi che fanno del traffico di uomini una lucrosa fonte di finanziamento.

Gli indizi di questo trasferimento “operativo” sono emersi sempre più numerosi e concreti negli ultimi tempi. Una spinta decisiva è sicuramente arrivata dalla costruzione della barriera pressoché insuperabile e lunga centinaia di chilometri, che ha blindato nel deserto la frontiera israeliana, ma non ha certamente posto fine al flusso crescente di profughi: lo ha solo spostato altrove e i trafficanti hanno seguito questo spostamento. I primi segnali si sono avuti con la presenza sempre piùnumerosa di emissari dei mercanti di morte intorno o addirittura all’interno dei campi profughi in Sudan: personaggi senza scrupoli che si propongono come intermediari per la traversata del Sahara verso la Libia o addirittura rapiscono direttamente nei campi stessi le loro vittime, per venderle poi alle varie bandeorganizzate. Ora si ha la certezza che questo sistema criminale si è insediato e ramificato in tutta la zona intorno ai confini con l’Etiopia e controlla di fatto sia la frontiera che il suo retroterra, intercettando e sequestrando un numero crescente di profughi. Senza che la polizia sudanese ne sappia nulla o che comunque intervenga.

L’ultima conferma viene da un episodio di questi giorni: almeno 15 ragazzi, di età compresa tra i 20 e i 23 anni, sono stati catturati da predoni armati in varie fasi, a pochi chilometri dal confine, mentre tentavano di raggiungere il campo di Shakarabo di proseguire il cammino verso Khartoum. “Almeno 15” perché ci sono forti indiziche altre decine di giovani eritrei siano finiti nelle mani dei predoni, anche se i familiari non hanno ancora potuto o voluto dare l’allarme. Le notizie dei rapimenti, infatti, filtrano sempre attraverso parenti o amici dei giovani sequestrati. E’ accaduto così anche per i 15 presi in questi giorni: la loro sorte è stata segnalata all’agenzia Habeshia dalla famiglia di uno del gruppo, un ventenne che, come i suoi compagni, ha disertato dall’esercito di Isaias Afewerki. Una famiglia poverissima. Il padre è morto combattendo per l’indipendenza dell’Eritrea contro l’Etiopia. La madre è stata costretta a scappare anni fa ed ora è rifugiata in Uganda. Prima di essere arruolato, lui viveva con una zia e alcuni cugini. Ed è stata proprio questa zia a mettersi in contatto con Habeshia. Ha raccontato che il nipote l’ha chiamata con il cellulare che gli hanno messo a disposizione i rapitori per chiedere il riscatto ai familiari: 15 mila dollari. Una cifra enorme che lei non è assolutamente in grado di racimolare, neanche facendo ricorso all’aiuto di altri congiunti. “Piangeva e urlava di dolore – ha raccontato la donna – perché durante la telefonata lo picchiavano e lo torturavano per rendere più ‘convincenti’ le sue parole. Per farmi capire che non esiteranno a ucciderlo…”.
E’ stato lui a raccontare alla zia come lo hanno preso e che erano ormai una quindicina, incatenati l’uno all’altro e chiusi in una piccola casa in muratura, da qualche parte in mezzo al deserto. Se la famiglia non riuscirà a pagare la sua liberazione, i predoni lo venderanno ad un’altra banda e poi magari ad un’altra ancora. E ad ogni passaggio il prezzo del riscatto salirà, con la minaccia finale dimetterlo a disposizione per il traffico di organi per i trapianti clandestini. Un destino analogo si profila per i suoi compagni.

E’ una logica di morte alla quale bisogna porre fine al più presto e con tutti i mezzi, “bonificando” dai trafficanti la fascia di confine con l’Eritrea, il suo hinterland e le zone limitrofe ai campi profughi. Ecco perché chiediamo con forza al Sudan, all’Italia, all’Unione Europea, all’Unione Africana, alla comunità internazionale, di intervenire al più presto per individuare e assicurare alla giustizia queste organizzazioni criminali. E’ già tardi: episodi come questo dei 15 ragazzi rapiti nei giorni scorsi confermano che le bande si sono radicate nel Sudan. Nella riunione convocata alla metà di ottobre a Khartoum tra gli Stati del Corno d’Africa, con il viceministro Lapo Pistelliper discutere di emigrazione, non risulta che si siaparlato di questa nuova catastrofe umanitaria. Eppure già allora i sintomi di quanto sta accadendo erano evidenti. Nei prossimi giorni, del “Processo di Khartoum” si tornerà a dibattere a Roma, sempre sotto l’egida dell’Italia, anche in virtù del semestre di presidenza all’Unione Europea. Occorre che almeno in questa occasione la tragedia dei mercanti di morte che operano al confine tra Sudan ed Eritrea diventi un punto centrale della discussione, individuando subito tutti i possibili interventi – politici, diplomatici, militari, di polizia, di intelligence e giudiziari – da mettere in campo a livello nazionale e internazionale.
E’ un passaggio essenziale: se verrà trascurato o anche solo sottaciuto il “Processo di Khartoum” non avrà alcun senso.


            don Mussie Zerai

         presidente dell’agenzia Habeshia

mercoledì 5 novembre 2014

La Corte di Strasburgo: “In Italia diritti umani non garantiti per i profughi”


di Emilio Drudi

Ancora una condanna per l’Italia, da parte della Corte Europea di Strasburgo, dopo quella subita il 21 ottobre scorso per il respingimento di 35 profughi verso la Grecia. Questa volta in forma indiretta, perché il “processo” ha riguardato innanzi tutto la Svizzera. L’argomento però è lo stesso: il trattamento riservato ai richiedenti asilo e l’applicazione del trattato di Dublino, in base al quale i migranti vanno presi in carico dal primo paese in cui arrivano e chiedono protezione. E la Corte ha stabilito, in sostanza, che Roma non garantisce un’accoglienza dignitosa ai rifugiati, nel rispetto dei diritti umani.

Tutto nasce dalla vicenda di una famiglia afghana giunta in Italia nel 2011. Otto persone in tutto: padre, madre, cinque figli nati tra il 1999 e il 2010 e un sesto venuto alla luce già esule, nel 2012. Fuggiti inizialmente in Iran dalla guerra che insanguina l’Afghanistan da anni, i due coniugi e i loro bambini sono sbarcati in Calabria, ma poche settimane dopo hanno preferito trasferirsi in Austria e poi in Svizzera, dove hanno chiesto asilo e vivono attualmente. Richiamandosi al regolamento di Dublino, Berna ha respinto la loro istanza ed ha deciso di espellerli verso l’Italia. Falliti tutti i ricorsi, in un estremo tentativo di annullare il decreto delle autorità elvetiche, moglie e marito si sono rivolti alla Corte di Strasburgo, specificando di aver lasciato la penisola perché, come profughi, non vi avevano trovato condizioni di vita dignitose, specie per i bambini. E i giudici hanno accolto queste ragioni: con la sentenza pronunciata il 4 novembre scorso la Svizzera è stata diffidata – per non incorrere in una condanna formale – dal costringere l’intera famiglia a ritornare in Italia senza prima aver ricevuto da Roma precise informazioni su come e dove verrebbe alloggiata. In mancanza di garanzie in questo senso – dicono i magistrati – sarebbe violato il diritto inalienabile di non essere sottoposti a trattamenti inumani e degradanti.

Ne consegue che, secondo la Corte, il trattato di Dublino non può essere applicato se nel paese di prima accoglienza manca un sistema di reinsediamento accettabile, specie per i minorenni. E l’Italia, secondo i giudici, rientra tra in paesi a rischio. In particolare per il problema della casa, che è il primo, fondamentale passo nel percorso di una concreta inclusione sociale. Prima ancora del lavoro. “Non è infondato ritenere – si legge infatti nella sentenza – che i richiedenti asilo rinviati adesso in Italia da altri Paesi europei, in base al regolamento di Dublino, corrano il pericolo di restare senza un luogo dove abitare o che siano alloggiati in strutture insalubri e dove si verificano episodi di violenza”.

E’ lo stesso principio che il 21 ottobre ha indotto la Corte di Strasburgo a condannare l’Italia per il caso dei 35 profughi, anche loro in gran parte afghani, respinti nel 2009 verso Patrasso dai porti di Ancona, Venezia e Bari. Il verdetto ha contestato infatti a Roma di aver applicato i respingimenti-espulsione, applicando rigidamente i criteri dell’accordo di Dublino, nonostante fosse ben a conoscenza del duro trattamento riservato in Grecia a profughi e migranti e delle pesanti condizioni di vita nei centri di raccolta per stranieri. Atene, a sua volta, è stata condannata appunto per la sua politica nei confronti degli immigrati, inclusa la prospettiva-minaccia di rimpatrio forzato nei paesi d’origine. Non manca, anzi, un precedente ancora più significativo, noto come “caso dei dubliners”: dei rifugiati, cioè, vittime del trattato di Dublino. Nel 2011 ben 41 corti di giustizia tedesche hanno sospeso temporaneamente tutte le espulsioni verso l’Italia dei richiedenti asilo che avevano fatto ricorso contro il decreto. Si tratta di alcuni dei principali tribunali della Germania, tra cui Weimar, Francoforte, Friburgo, Colonia, Darmstad, Hannover, Dresda, Gelsekirchen. Alla base delle varie sentenze è stato posto proprio il trattamento riservato dall’Italia ai rifugiati. Trattamento documentato in un dossier costruito “sul campo” da parte di due avvocati difensori dei dubliners, dopo un viaggio fatto in varie città della penisola per rendersi conto di persona della situazione e raccogliere una lunga serie di testimonianze, tutte concordi nell’asserire che Roma si limita ad assicurare solo formalmente lo status di rifugiato o altre forme di tutela internazionale, perché nel sistema di accoglienza mancano quasi totalmente programmi in grado di condurre a un reale processo di integrazione e reinsediamento.

La nuova sentenza della Corte di Strasburgo, rafforzata dai due casi che l’hanno preceduta, appare estremamente significativa anche perché arriva in un momento particolare e molto difficile per i profughi in Europa. In Svizzera, in contrasto con la disponibilità ottenuta finora, ci sono centinaia, migliaia di immigrati, in gran parte eritrei, che vivono nella paura di essere scacciati verso l’Italia. Per 600 è già stato firmato o è in corso di istruttoria il decreto di espulsione. Sono disperati. Uno di loro lo era al punto di decidere di farla finita per sempre piuttosto che essere mandato via: lo hanno trovato impiccato in una sala del centro di detenzione per stranieri di Aarau, nel cantone di Argovia. Ma neanche questa tragedia ha fermato la “caccia agli irregolari”. Si tratta per lo più di giovani, uomini e donne, sbarcati in Italia e che sono poi riusciti in qualche modo a varcare il confine svizzero per presentare a Berna e non a Roma la richiesta di asilo. Appare evidente che si è messa in moto una politica di forte “restringimento” o addirittura di chiusura nei confronti dei profughi. Lo stesso sta accadendo negli Stati membri dell’Unione Europea. Dalla Francia in questi ultimi mesi sono stati rimandati in Italia oltre 3 mila migranti; dall’Austria, dai primi di luglio a metà settembre, almeno 2.100, mentre sono stati intensificati i controlli al Brennero, al Tarvisio, in tutti i valichi di frontiera. Iniziative o comunque scelte analoghe sono annunciate dalla Germania, dove a più riprese e da più fonti si è cominciato a dire che il Paese non può assorbire altri rifugiati. Una chiusura ancora maggiore manifesta il Regno Unito e sintomi di “malessere” cominciano ad avvertirsi anche nell’ospitalissima Svezia.

Forse questa linea dura adottata da gran parte degli Stati europei vuole essere anche un monito contro il governo italiano, quasi a contestargli che alla sua apprezzabile, giusta politica di soccorso in mare nei confronti dei migranti fa poi riscontro una totale indifferenza verso quegli stessi migranti i quali, una volta portati in salvo e sbarcati, vengono abbandonati a se stessi, fingendo tra l’altro di non vedere che moltissimi varcano le Alpi per raggiungere altre nazioni comunitarie. Il più esplicito in proposito è stato il ministro degli interni bavarese Joachim Hermann, il quale ha apertamente accusato l’Italia di ignorare le leggi sui rifugiati per non farsene carico e “permettere loro di chiedere asilo in un altro paese”. Solo che a restare stritolati in questo braccio di ferro sono innanzi tutto i rifugiati. La parte più debole e incolpevole. Si profila così, al di là degli atti formali, una enorme ingiustizia etico-morale e sostanziale: la consegna di migliaia di disperati a un sistema di accoglienza, quello italiano, che di fatto condanna sempre più spesso questi esuli a vivere in una condizione da “invisibili” senza diritti, senza casa, senza lavoro: braccia consegnate ai caporali e allo sfruttamento.

A fronte di questa prospettiva si sono levate diverse voci per sollecitare quanto meno una pausa di riflessione. Lo ha già fatto don Mussie Zerai a nome dell’agenzia Habeshia; si accingono a farlo il Comitato “Giustizia per i nuovi desaparecidos”, diverse organizzazioni umanitarie e di assistenza; si stanno muovendo Barbara Spinelli e altri europarlamentari. L’idea guida, nella prospettiva medio-lunga, è quella di arrivare a un sistema unico di accoglienza, accettato e condiviso da tutti i paesi dell’Unione Europea, cancellando al più presto le strettoie del regolamento di Dublino ed eliminando storture come quella del sistema italiano. Nell’immediato, intanto, si chiede di sospendere tutti i procedimenti e le pratiche di espulsione in atto. La sentenza della Corte di Strasburgo dà forza a questa battaglia. Don Zerai ne è convinto: “Abbiamo spiegato più volte che la nostra richiesta di sospensiva delle espulsioni trae fondamento dal fatto che il sistema di accoglienza italiano non garantisce alcun vero processo di inclusione sociale. Dopo aver ottenuto il diritto di asilo, i profughi vengono abbandonati a un destino da disperati. Senza prospettive. Senza futuro. Non a caso tantissimi rifiutano di farsi identificare, non vogliono rilasciare le proprie impronte digitali né farsi fotografare e cercano in tutti i modi di fuggire dall’Italia verso paesi dove i programmi di accoglienza sono più umani e dignitosi. Ora conferma questo stesso quadro anche la Corte di Strasburgo: l’Italia non offre sufficienti garanzie ai richiedenti asilo, nel rispetto dei diritti umani. E’ una sentenza che può risultare decisiva in tutta Europa. Se è vero, infatti, che riguarda un singolo caso sollevato in Svizzera, è altrettanto vero che stabilisce un principio sui diritti umani che tutti gli Stati Europei non potranno ignorare. A meno di non volerli calpestare questi diritti”.

Altrettanto esplicito è Enrico Calamai, portavoce del Comitato Giustizia per i Nuovi Desaparecidos: “L’ultima sentenza della Corte di Strasburgo, come del resto quella precedente del 21 ottobre e quelle di ben 41 tribunali della Germania nel 2011, chiama pesantemente in causa l’Italia, la quale continua a dimostrarsi incapace di rispettare gli obblighi che le derivano dal diritto internazionale e dalla sua stessa Costituzione. I giudici evidenziano infatti che, in determinate condizioni, come appunto quelle italiane, va sospeso o comunque non va applicato rigidamente il trattato di Dublino, che lega i rifugiati al primo paese Schengen al quale rivolgono la richiesta di asilo. Va sospesa, cioè, la ‘legge formale’ perché la sua applicazione si risolverebbe in una somma ingiustizia. E’ fondamentale, allora, che d’ora in poi gli Stati europei si ispirino a questo stesso principio. In nome dell’equità, dell’etica, della vita stessa di migliaia di giovani. E che il nostro Paese capisca finalmente il significato, direi anzi la ‘lezione’, di condanne pesanti come questa”.

Refugees: suspend deportations to Italy from north EU states


Call to Switzerland and all EU states
Should be suspended all deportation orders of asylum seekers to Italy from Switzerland and all EU states.

In recent days, after the suicide in the detention center for foreigners in Aarau, a young Eritrean about to be sent back to Italy, we have already launched an appeal in this regard to the Swiss authorities. Now I renew not only against Bern but of all the EU states that for months they are giving back to Rome thousands of refugees who are suspected to have landed in Sicily or at least the southern coast of the Italian peninsula before reaching other European countries.

To give force to our new appeal is the decision dated November 4, 2014 by the Court of Human Rights in Strasbourg, which involves both Switzerland and Italy. We have already explained many times that our request for suspension of deportation is rooted from the fact that the system of Italian hospitality does not guarantee any genuine process of social inclusion and resettlement for refugees. Who, after having obtained from the State the right to asylum or any other form of international protection are left to themselves, doomed to become "invisible" without rights, without the possibility of finding homes and jobs, almost always doomed to settle in shelters and in fact placed into a huge reservoir of black labor and exploitation. Now this same picture also confirms the Strasbourg Court: Italy does not offer sufficient guarantees for asylum seekers to a concrete path of integration, respect for human rights.

And 'what emerges from the judgment that - otherwise looked forward to a formal condemnation - notice the Swiss government by postponing an Afghan family in Italy for 8 persons (father, mother and six children) landed in Calabria in 2011 and repaired in the Helvetic Republic, where he appealed to the right of asylum. The Swiss authorities have decreed the expulsion, referring to the Treaty of Dublin, by which to take charge of the refugees is to be the first European country in which they arrive. In this case, Italy precisely. But the Strasbourg court has determined that this regulation does not apply if in the host country lacks decent living conditions, especially for children. And Italy, according to the judges, is one of the countries at risk. In particular, for the problem of the house. "There is no evidence - we read in the device of the Court - that asylum seekers returned now in Italy and other European countries, according to the Dublin Regulation, Corrano the danger of being left without a place to live or are accommodated in unhealthy and where you are experiencing violence. "

On this basis, we renew the federal authorities and the Swiss cantonal appeal to suspend all proceedings for the expulsion or already defined during the preliminary investigation. And we extend this same appeal to other European Union countries, renewing the reasons we have expressed repeatedly to support this request and now fully confirmed by the Court of Human Rights in Strasbourg. Court, however, in its latest resolution, reiterated in the middle of the ideas already expressed in other important sentences: the sentence imposed on October 21 last year to Italy and Greece for the expulsion decided in 2009 against 35 refugees on board of force to Patras to Ancona, Venice and Bari; the suspension of the expulsion orders and return to Rome for many refugees decreed in 2011 by the 41 courts of Germany. Although it is from time to time to individual cases, in fact, the uniqueness of judgment constitutes a general situation and also a previous legal one is not permitted to disregard.
                                                                Don Mussie Zerai

                                                         President of the agency Habeshia

MARE NOSTRUM NON DEVE CHIUDERE

COMUNICATO STAMPA

“MARE NOSTRUM NON DEVE CHIUDERE”: APPELLO DI AMNESTY INTERNATIONAL ITALIA, ASGI E MEDICI SENZA FRONTIERE AFFINCHÈ L’ITALIA CONTINUI A SALVARE VITE IN MARE
In una lettera aperta pubblicata oggi sul quotidiano “la Repubblica”, i presidenti di Amnesty International Italia, ASGI (Associazione Studi Giuridici sull’Immigrazione) e Medici Senza Frontiere hanno sollecitato il presidente del Consiglio Matteo Renzi a non chiudere l’Operazione Mare Nostrum e a garantire che l’Italia continui le attività di ricerca e soccorso nel mar Mediterraneo per salvare vite in mare.

Nella lettera, le tre associazioni ricordano le recenti assicurazioni del presidente del Consiglio, secondo il quale “Mare Nostrum andrà avanti finché l’Europa non sarà in condizioni di intervenire più e meglio di come abbiamo fatto noi fino ad oggi”: condizioni che al momento non ci sono.

Infatti, l’Operazione Triton dell’Unione Europea, il cui avvio è previsto il 1° novembre, non avrà il mandato di svolgere attività di ricerca e soccorso nel Mediterraneo, ma di pattugliare i confini marittimi e costituirà una risposta soltanto parziale al problema.

“Poiché oggi non ci sono alternative sicure per cercare protezione internazionale in Europa, la via del mare è l’unica opzione per migliaia di persone, vittime di violenza e torture, persone disabili, donne e bambini. Operazioni di ricerca e soccorso limitate alle acque sotto la giurisdizione italiana metteranno a rischio migliaia di vite, se le aree di mare aperto non saranno pattugliate attivamente” – sottolinea l’appello congiunto di Amnesty International Italia, ASGI e Medici Senza Frontiere.

Nei suoi interventi, Lei ha affermato che Mare Nostrum è stata una risposta a un’emergenza umanitaria e non sarebbe servita a nulla se non fosse proseguita” – ricordano le tre associazioni, che tuttavia rilevano come le dichiarazioni ufficiali del governo italiano vadano esattamente nella direzione opposta, mettendo a rischio le vite di molti profughi.

“Il rischio di rivedere tragedie come quelle vissute il 3 ottobre 2013 a Lampedusa è molto alto. 

Non sarà l’arrivo della cattiva stagione a porre fine ai conflitti senza quartiere in Libia, all’instabilità nella regione Saheliana, alla guerra in Siria e alle violenze in Iraq. Non sarà l’inverno a far venir meno il bisogno disperato di fuggire dalla guerra, dalla violenza, dalla persecuzione” – prosegue l’appello congiunto.

“Siamo consapevoli che operazioni come Mare Nostrum non possano essere soluzioni permanenti per i migranti e i rifugiati che si dirigono verso la frontiera marittima europea in cerca di assistenza e protezione. 
Alla continuazione del soccorso in acque internazionali va infatti affiancata l'istituzione di canali di ingresso legali e sicuri che consentano alle persone in fuga dalle aree di conflitto di poter giungere in Europa dove chiedere protezione, evitando pericolosi viaggi in mare a rischio della vita. Ma perché le operazioni di ricerca e soccorso in mare non vengano ridimensionate, perché non ci siano altre migliaia di uomini, donne e bambini fuggiti da guerre per annegare in mare, resta poco tempo” – concludono le tre organizzazioni.

Per questo motivo, Amnesty International Italia, ASGI e Medici Senza Frontiere hanno sollecitato il presidente del Consiglio a concedere un incontro urgente e a fornire rassicurazioni ufficiali sulla prosecuzione dell’Operazione Mare Nostrum.


Roma, 31 ottobre 2014

Per approfondimenti e interviste:
Amnesty International Italia – Ufficio Stampa

Tel. 06 4490224 – cell. 348 6974361, e-mail: press@amnesty.it

ASGI – Ufficio Stampa

Tel. 0432 507115 – cell. 347 0091756, e-mail: info@asgi.it

Medici Senza Frontiere – Ufficio Stampa

Tel. 06 88806240 – cell. 349 8132110, e-mail: francesca.mapelli@rome.msf.org

Profughi: sospendere le espulsioni verso l’Italia

 

Appello alla Svizzera e a tutti gli Stati dell’Unione Europea
Vanno sospesi tutti i decreti di espulsione di richiedenti asilo verso l’Italia dalla Svizzera e da tutti gli Stati dell’Unione Europea.
 
Nei giorni scorsi, dopo il suicidio, nel centro di detenzione per stranieri di Aarau, di un giovane eritreo in procinto di essere rimandato in Italia, abbiamo già lanciato un appello in questo senso alle autorità elvetiche. Ora lo rinnoviamo non solo nei confronti di Berna ma di tutti gli Stati Ue che da mesi stanno riconsegnando a Roma migliaia di profughi che si sospetta siano sbarcati in Sicilia o comunque sulle coste meridionali della penisola italiana, prima di raggiungere altri paesi europei.
 

A dar forza al nostro nuovo appello è la sentenza emessa in data 4 novembre 2014 dalla Corte per i diritti umani di Strasburgo, che chiama in causa sia la Svizzera che l’Italia. Abbiamo già spiegato più volte che la nostra richiesta di sospensiva delle espulsioni trae fondamento dal fatto che il sistema di accoglienza italiano non garantisce alcun vero processo di inclusione sociale e di reinsediamento per i profughi. I quali, dopo aver ottenuto dallo Stato il diritto di asilo o a una qualsiasi altra forma di protezione internazionale, vengono abbandonati a se stessi, condannati a diventare “invisibili” senza diritti, senza possibilità di trovare casa e lavoro, condannati quasi sempre a sistemarsi in alloggi di fortuna e inseriti di fatto in un enorme serbatoio di lavoro nero e sfruttamento. Ora conferma questo stesso quadro anche la Corte di Strasburgo: l’Italia non offre sufficienti garanzie ai richiedenti asilo per un concreto percorso di integrazione, nel rispetto dei diritti umani.
 

E’ quanto emerge dalla sentenza che – prospettando in caso contrario una condanna formale – diffida il Governo svizzero dal rimandare in Italia una famiglia afghana di 8 persone (padre, madre e sei figli) sbarcata in Calabria nel 2011 e poi riparata nella Repubblica Elvetica, dove si è appellata al diritto di asilo. Le autorità svizzere ne hanno decretato l’espulsione, rifacendosi al trattato di Dublino, in base al quale a farsi carico dei rifugiati deve essere il primo paese europeo nel quale arrivano. In questo caso, l’Italia appunto. Ma la Corte di Strasburgo ha stabilito che questo regolamento non può essere applicato se nel paese di accoglienza mancano condizioni di vita accettabili, specie per i bambini. E l’Italia, secondo i giudici, rientra tra i paesi a rischio. In particolare per il problema della casa. “Non è infondato ritenere – si legge infatti nel dispositivo della Corte – che i richiedenti asilo rinviati adesso in Italia da altri Paesi europei, in base al regolamento di Dublino, corrano il pericolo di restare senza un luogo dove abitare o che siano alloggiati in strutture insalubri e dove si verificano episodi di violenza”.
 

Su questa base rinnoviamo alle autorità federali e cantonali svizzere l’appello a sospendere tutti i procedimenti di espulsione già definiti o in corso di istruttoria. Ed estendiamo questo stesso appello agli altri Stati dell’Unione Europea, rinnovando le motivazioni più volte da noi espresse a sostegno di questa richiesta e ora pienamente confermate dalla Corte per i Diritti Umani di Strasburgo. Corte che peraltro, nella sua ultima risoluzione, ha ribadito in pieno i concetti già espressi in altre importanti sentenze: la condanna comminata il 21 ottobre scorso all’Italia e alla Grecia per l’espulsione decisa nel 2009 nei confronti di 35 profughi, imbarcati di forza verso Patrasso da Ancona, Venezia e Bari; la sospensione dei decreti di espulsione e riconsegna a Roma per moltissimi profughi decretata nel 2011 da ben 41 tribunali della Germania. Pur trattandosi di volta in volta di casi singoli, infatti, l’univocità del giudizio configura una situazione generale e un precedente anche giuridico di cui non è lecito non tenere conto.


                        don Mussie Zerai

             presidente dell’agenzia Habeshia