di Emilio Drudi
“Torna tra dieci
giorni”. Così ha detto un funzionario dell’ambasciata italiana in Uganda a Helen,
una giovane etiope che aveva appena presentato la richiesta di visto per volare
finalmente in Italia a ricomporre famiglia e affetti. A Helen c’erano voluti
ben sei mesi di attesa per “conquistarsi” quell’appuntamento all’ufficio
consolare di Kampala: già, metà anno solo per essere ricevuta, riempire i
moduli per la domanda, pagare le tasse ed esibire il nulla osta rilasciato dal
Viminale a suo marito, residente da anni a Roma. Ma… “Pazienza – si è detta –
dieci giorni ancora e questa odissea sarà finita.
Passano i dieci
giorni ed Helen (il nome è fittizio per evitare eventuali ritorsioni) risale le
scale dell’ambasciata. “Mi dispiace – le dice lo stesso funzionario – Devi
ritornare tra due settimane”. Lei vorrebbe protestare, ma si sforza di restare
calma: “Va bene, tornerò…”. Quindici giorni dopo, quando sono ormai trascorsi 7
mesi dalla prima richiesta di appuntamento, stesso funzionario e stessa storia.
L’unica variante è che il nuovo rinvio prevede il raddoppio del tempo di
attesa: “Devi ritornare fra trenta giorni”, sono le parole che si sente dire,
accompagnate da un sorriso più beffardo che benevolo. Ci sarebbe di che
esplodere di rabbia, ma Helen riesce ancora a frenare la frustrazione e il
disappunto. Si rifà viva dopo un mese ma neanche stavolta il visto è pronto.
Tutto come prima, incluso lo strano sorriso del funzionario, sempre quello.
Allora non ce la fa più e prova a farsi dare qualche spiegazione. Con fermezza
ma senza perdere il controllo. “Si può sapere almeno – dice – quando sarà
pronto il mio visto? Ho già pagato 159 dollari per la pratica e avrete constatato
che dall’Italia è arrivato da tempo il certificato per il ricongiungimento”.
“Per tutta risposta – riferisce Helen – ho ricevuto il solito, indecifrabile
sorriso e una specie di sfogo senza senso. Qualcosa come: non lo so, non sono
mica Dio…”.
Questo tira e molla
è stato raccontato da Helen e da suo marito a don Mussie Zerai, dell’agenzia
Habeshia. Hanno pensato che, dopo otto mesi di umiliazioni, forse la soluzione
si sarebbe potuta trovare direttamente in Italia: ad Habeshia hanno chiesto se
al ministero degli Esteri o a quello degli Interni, si può almeno trovare
qualcuno in grado di fornire una spiegazione plausibile e magari di sbloccare
la situazione, visto che il nulla osta per il ricongiungimento familiare è
stato firmato da mesi.
Nelle stesse
condizioni di Helen ci sono decine e decine di giovani donne, a volte con i
bambini piccoli. A Kampala e ancora di più in altri Stati africani. Soprattutto
a Khartoum e ad Addis Abeba storie di questo genere si ripetono da anni. Con le
motivazioni più assurde. Molto frequente è l’insinuazione che il matrimonio su
cui si basa il ricongiungimento familiare potrebbe essere falso o comunque non
valido. Senza però addurre prove per un’accusa così pesante. E nonostante il
Viminale abbia certificato che tutto è in regola. Le conseguenze, a volte, sono
devastanti. Specie in Sudan, dove il visto per i migranti ha in genere una
validità di soli sei mesi: alla scadenza o si viene espulsi o si finisce nel
lager di Shakarab. Una prospettiva paurosa. Pur di evitarla diverse donne,
disperate e stanche di aspettare, finiscono per rivolgersi ai trafficanti:
pagano migliaia di dollari e corrono mille rischi per raggiungere in qualche
modo la costa libica e da lì attraversare il Mediterraneo su un barcone “a
perdere”, insieme a centinaia di altri profughi. Condannate da motivazioni
pretestuose a imboccare una via di emigrazione clandestina, nonostante siano
perfettamente in regola.
Non sono soltanto
giovani donne le vittime di dinieghi e lungaggini basate su crudeli pretesti. Spesso
sono prese in questo vortice anche persone anziane, che non hanno né la
possibilità né la forza di tentare vie alternative di emigrazione, inclusa
quella, al limite, degli scafisti. E’ eloquente la vicenda di una signora
somala di oltre 60 anni che suo figlio vorrebbe portare in Italia. Lui vive da
tempo a Roma. Ha un permesso di soggiorno regolare, una casa, un lavoro, un
reddito dignitoso: tutto quello che richiede la legge per il ricongiungimento
familiare, insomma. Manca il visto dell’ambasciata. In Somalia i nostri uffici
diplomatici sono stati chiusi 23 anni fa, in seguito alla guerra civile che ha
sconquassato il paese. Nell’aprile scorso la Farnesina ha deciso di riaprirli:
in giugno l’ambasciatore Fabrizio Marcelli ha ricevuto le credenziali dal
presidente Hassan Sheikh Mohamud ed è stato scelto il sito dove costruire la nuova
sede, all’interno del compound dell’aeroporto di Mogadiscio, fortificato e
presidiato come una trincea. Quella signora ha avviato la sua “pratica” molto
prima dello scorso giugno. In mancanza di una nostra ambasciata a Mogadiscio, è
stata costretta a rivolgersi alla diplomazia italiana in un altro Stato. I nostri
consolati più vicini alla Somalia sono a Nairobi, in Kenya, e ad Addis Abeba,
in Etiopia. Ma ai somali non è consentito accedere a questi due uffici per
visti, pratiche di emigrazione, ecc. Non è rimasto che andare a Sana’a, nello
Yemen, al di là del Mar Rosso. Visto il disagio, il lungo viaggio, le spese
ingenti, l’età stessa della “richiedente”, sarebbe stato lecito attendersi attenzione
e sollecitudine. Nient’affatto: anche in questo caso ne è nato un tira e molla
infinito. E tuttora insoluto.
La Farnesina è al
corrente di questa situazione. Storie come quella di Helen, della signora
somala o delle ragazze eritree bloccate a Khartoum e ad Addis Abeba, sono state
segnalate più volte sia a vari funzionari che, soprattutto, agli stessi
ministri e viceministri in carica negli ultimi tempi. Finora non si è fatto
nulla di concreto: un mare di promesse e basta. Senza esito anche gli appelli
lanciati a parecchi parlamentari: in particolare ad alcuni che fanno parte
della Commissione Esteri della Camera. C’è da chiedersi, allora, se non ci sia
in realtà una tacita disposizione agli uffici diplomatici per ostacolare in
tutti i modi la concessione dei visti di immigrazione, anche in caso di
ricongiungimento familiare. Appare per lo meno strano, infatti, che certi incomprensibili
comportamenti possano essere casuali, visto che si verificano contemporaneamente
e sostanzialmente con le stesse modalità in diverse ambasciate: da Kampala a
Khartoum, da Addis Abeba a Sana’a.
Ora sta per essere
inviata l’ennesima segnalazione, questa volta indirizzata a Paolo Gentiloni,
che dal 31 ottobre ha sostituito Federica Mogherini al vertice degli Esteri.
Cambierà finalmente qualcosa?