di Emilio Drudi
Sono nascosti in una
località segreta. Chi li sta aiutando rifiuta con fermezza di farne parola, nel
timore che anche il più piccolo indizio possa favorire le ricerche dei
miliziani dello Stato Islamico, decisi a fargliela pagare per averli “sfidati”
con la loro evasione: testimoni scomodi da togliere di mezzo. Sono i tre giovani
profughi scappati poche ore dopo essere stati catturati in Libia, insieme a
83 compagni,all’inizio di giugno. Con loro salgono a nove i fuggiaschi a cui
l’Is sta dando la caccia in tutti i villaggi disseminati sulle strade che dal Fezzan
puntano verso Tripoli e, a ovest, fino a ridosso del confine con la Tunisia.
Gli altri sono i cinque sfuggiti al sequestro del 7 marzo e un sesto giovane
eritreo che, a sua volta evaso, si è unito a loro durante la fuga.
Marzo e giugno: due
sequestri fotocopia. Per le modalità, le circostanze, la ferocia. E,
soprattutto, perché sembrano obbedire a una persecuzione contro i cristiani. Il
gruppo bloccato in marzo era di 80 persone: ben 57 di loro (49 eritrei e 8
etiopi) sono stati uccisi nel giro di poche ore, sotto gli occhi dei
superstiti, costretti ad assistere all’esecuzione: 14 decapitati su una
spiaggia, gli altri massacrati in massa nel deserto,con un colpo alla nuca, per
aver rifiutato di convertirsi all’Islam. Gli 86 presi qualche giorno fa sono
eritrei: la maggioranza viene da Adi Keyh, una delle città
dove è più forte e attiva l’opposizione al regime di Asmara. Tutti giovani e
tutti cristiani. Anzi, selezionati dai sequestratori proprio perché cristiani. Li
hanno bloccati la mattina del 3 giugno. Inizialmente non se ne è saputo nulla: nella
situazione totalmente fuori controllo della Libia, dove non ci sono più
istituzioni credibili e in grado di esercitare un minimo di giurisdizione sul
territorio, decine, centinaia di persone possono sparire senza lasciare traccia
e senza che qualcuno se ne preoccupi. La notizia è trapelata soltanto tre
giorni dopo e solo grazie al racconto dei tre ragazzi che sono riusciti a
scappare: vittime e testimoni nello stesso tempo, proprio come è accaduto con
il caso di marzo, rimasto sconosciuto fino a che i cinque evasi non hanno dato
l’allarme.
I particolari della cattura
e dell’evasione sono stati riferiti dai fuggiaschi a Meron Estefanos, una
giornalista di Asmara esule in Svezia, attivista per i diritti umani e
co-fondatrice della Commissione per i rifugiati eritrei a Stoccolma, raggiunta
con un cellulare grazie all’aiuto di una piccola Ong che opera in Libia.
Meron Estefanos ha poi diffuso l’informazione in tutta Europa: quasi un Sos per
la sorte dei sequestrati, tra cui ci sono dodici donne e bambini e che, al
momento, non si sa dove siano finiti né, addirittura, se siano ancora tutti in
vita.
I tre ragazzi e gli altri 83
ostaggi facevano parte di un gruppo molto più grande di migranti: circa 200 tra
eritrei, somali e sudanesi. Viaggiavano su due camion stracarichi, uno dei
tanti convogli organizzati dai trafficanti lungo la “rotta” che dal Sudan,
attraverso il Sahara e la Libia, porta alla costa mediterranea. Erano a buon
punto, con gran parte del deserto e il confine libico ormai alle spalle, quando
sono caduti nell’imboscata dell’Is. I trafficanti, in genere, cercano di
evitare le zone controllate dai fedeli del Califfato. Non c’è, però, una linea
di demarcazione precisa e le milizie fondamentaliste estendono continuamente il
loro raggio d’azione. Di recente hanno conquistato Harawa, un villaggio situato
circa 70 chilometri a est di Sirte, vitale per il controllo delle strade che
conducono ai maggiori terminali petroliferi di AsSidr e Ras Lanuf. Verso ovest
hanno stabilito una solida cellula a Sabratah mentre a sud sono arrivati sino
al distretto di Jufra. Forse proprio da qui veniva la banda dei sequestratori.
Il primo camion è riuscito a
passare, l’altro è stato fermato. Tutti quelli che erano a bordo sono stati
costretti a scendere. Ed è cominciata una selezione atroce: ai prigionieri è
stato imposto una specie di test sul Corano per provare chi era mussulmano e
chi no. Somali e sudanesi, di religione islamica, sono stati lasciati andare.
Per gli 86 eritrei, cristiani copti di rito cattolico o ortodosso, non c’è
stato scampo: li hanno raggruppati e portati via. Non si sa dove. E’ stato
durante questo trasferimento che i tre fuggiaschi sono riusciti a eclissarsi:
approfittando di un rallentamento, si sono gettati giù dal camion su cui li
avevano ammassati, anticipando la reazione dei carcerieri. Poi hanno camminato,
corso per ore,fino a trovare rifugio in un villaggio: da qui hanno dato
l’allarme, mettendosi in contatto con la Commissione per i rifugiati eritrei a
Stoccolma.
“Sono nascosti, ma in grave pericolo
– dice Meron Estefanos – Le persone che li ospitano non sanno che sono evasi da
una banda dello Stato Islamico, che ora li sta cercando. C’è da ritenere che,
se lo scopriranno, non vorranno più aiutarli ed anzi li costringeranno ad
andarsene. E’ già accaduto altre volte, per paura di rappresaglie. Ma se li
riprendono, per questi ragazzi, gli unici testimoni di quanto è accaduto, non
c’è scampo. Per questo stiamo cercando un nascondiglio più sicuro. Magari
insieme ai sei protagonisti dell’altra fuga”.
Questi sei, dopo essere
rimasti bloccati per alcuni giorni al confine tra Libia e Tunisia, nella vana
attesa di un visto per superare il posto di frontiera di Ras Ghair, sono stati
trasferiti in un alloggio messo a disposizione provvisoriamente dalle autorità
libiche del governo di Tripoli. Anche in questo caso c’è uno stretto riserbo
sulla località esatta, per motivi di sicurezza. Nel frattempo la Commissione di
Stoccolma, l’agenzia Habeshia di don Mussie Zerai ed altre organizzazioni della
diaspora si sono rivolte al ministero degli esteri italiano, alla Francia e
alla Svizzera per ottenere in loro favore un visto speciale come richiedenti
asilo, d’intesa con il Commissariato dell’Onu per i rifugiati. La richiesta è
stata ora estesa agli ultimi tre fuggiaschi. La speranza è che si aprauna
“porta” prima possibile: ogni giorno che passa è una scommessa con la morte.
“La nostra preoccupazione –
dice don Zerai – è al momento portare in salvo questi nove ragazzi, gli unici
testimoni di quanto è accaduto. Sono stati loro ad avvertirci dei due
rapimenti. Non appena saranno al sicuro, torneremo ad ascoltarli con calma, per
comprendere meglio la situazione di quelli che sono rimasti nelle mani dell’Is.
Il rapporto tra i trafficanti di esseri umani e lo Stato Islamico in Libia è
difficile da descrivere. A volte è di complicità. Altre volte, invece, i
miliziani rapiscono gruppi di migrati che si erano affidati ai trafficanti per
estorcere loro altri soldi. Ci sono, insomma, dei momenti in cui gruppi che si
richiamano all’Is si alleano con altre milizie libiche o con i trafficanti
stessi, chiedendo un pedaggio per far passare i convogli. Nel caso dei
sequestri di marzo e del 3 giugno, invece, hanno bloccato i camion carichi di
profughi forse per un atto dimostrativo, nell’ambito di una strategia di
propaganda anti cristiana. Si tratta di capire perché. I cristiani eritrei ed
etiopici frequentano le comunità copte egiziane. Chissà: magari l’Is li prende
di mira perché li vedono in rapporto con gli egiziani. Di sicuro, dopo la
strage di marzo, l’idea che 83 disperati siano in balia dei miliziani di Al
Baghdati, presi in ostaggio proprio perché cristiani, riempie di inquietudine e
angoscia”.
Un’angoscia moltiplicata dal
fatto che di quei profughi non si sa più nulla da quando sono stati rapiti.
Nulla sul luogo dove sono stati portati. Nulla sulla sorte che stanno vivendo.
Sono spariti e basta. L’Is non ha nemmeno comunicato di averli catturati. Un
silenzio lacerante. Anche il sequestro del 7 marzo è stato tenuto segreto per
oltre un mese, fino a metà aprile, quando sono state diffuse attraverso il web
le immagini atroci dell’esecuzione di massa, con le vittime costrette in
ginocchio davanti ai loro carnefici. Per questo è un silenzio lacerante. Insopportabile.
E’ in gioco il destino di 83 persone: giovani eritrei fuggiti per inseguire un
sogno di libertà che ora rischiano di pagare con la vita. Proprio mentre l’Onu
sta per presentare un rapporto sulla sistematica violazione dei diritti umani contro
il regime che li ha costretti a lasciare il paese, pur sapendo quali gravi
rischi avrebbero dovuto affrontare.
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