di Emilio Drudi
Sono più di duecento. Tutti
eritrei, per lo più giovani e giovanissimi, qualche donna in stato di
gravidanza, alcuni bambini. Accampati alla meglio sotto i cavalcavia tra la
stazione di Roma Tiburtina, dove fermano le eleganti “frecce” dell’alta
velocità, e il terminal dei bus a lunga percorrenza. Partiti dalla Sicilia,
pensavano di arrivare a Milano in treno. Si sono ritrovati, invece, in questa
semi periferia della Capitale, scaricati da un pullman della linea Sicilia-Roma,
dopo aver pagato 150 euro per un biglietto che ne costa 37. Nessuno parla
l’italiano. Pochi l’inglese, spesso solo qualche parola, il minimo per farsi
capire. Sopravvivono alla meno peggio, dormendo dove capita e aiutati da altri
eritrei della diaspora, che procurano un po’ di cibo e qualche indumento, li
indirizzano alle mense della Caritas, cercano di raccogliere qualche euro.
Duecento non persone. Sono
vittime di una nuova tratta che lucra sulla disperazione e la paura dei
profughi appena sbarcati. L’ultimo capitolo del traffico di esseri umani che
continua ad ampliarsi e che sta vivendo una fase di radicale, rapida
riorganizzazione, in Africa come in Italia e in Europa. Con caratteristiche
sempre più spiccatamente mafiose e spartizione del “territorio” tra clan.
Il filone italiano parte
dalla Sicilia. Se ne è avuta un’avvisaglia mesi fa, quando a Catania sono stati
arrestati alcuni eritrei che tenevano segregati una decina di minorenni, in
attesa, forse, di farli arrivare, a caro prezzo, nel Nord Europa. O forse
peggio. Pare fossero in collegamento diretto anche con un emissario degli
scafisti, a Tripoli. Ora viene fuori una complessa organizzazione che aspetta
al varco i migranti appena sbarcati. A gestirla sarebbero eritrei rinnegati.
Con più basi: in pratica, una in ciascuno dei principali porti siciliani o in
ciascuna città sede di un centro di accoglienza. I 200 profughi del Tiburtino,
arrivati verso la fine di maggio in Italia, erano a Trapani. Hanno raccontato
che, poco dopo lo sbarco, sono stati avvicinati da diversi giovani, eritrei
come loro, che fingendo di volerli aiutare, hanno in realtà moltiplicato le
loro paure, stimolandoli a non farsi identificare e promettendo un rapido
passaggio dalla Sicilia al Nord Italia.
“Ci hanno detto – racconta
un ragazzo sui vent’anni – che una volta fotosegnalati e rilasciate le impronte
digitali, il futuro ci avrebbe riservato solo mesi di sofferenza e incertezza,
chiusi in un campo profughi. Intrappolati per sempre in Italia, senza
prospettive. Senza possibilità di ricostruirci una vita. Noi, hanno aggiunto,
possiamo aiutarvi ad arrivare fino a Milano e da lì potrete tentare di varcare
il confine, in modo da chiedere asilo altrove. Magari in Germania. Per il
viaggio in treno da Trapani a Milano bastano 150 euro, il prezzo del biglietto.
Non c’è voluto altro per convincerci. Oltre tutto, quelli si muovevano tra noi
in piena libertà: nessuno li ha fermati o mandati via. Non c’erano controlli…”.
Parole suadenti, per
nascondere un meccanismo che funziona solo con pagamento in contanti, in modo
da non lasciare tracce. Quasi mai i migranti, appena sbarcati, hanno il denaro
sufficiente, dopo il salasso di 5 o 6 mila dollari versati ai trafficanti per
il viaggio dal Sudan fino in Libia e poi per la traversata del Mediterraneo. Di
sicuro non ce l’hanno le famiglie, quasi sempre giovani coniugi con due, tre
figli piccoli. I “passatori”, allora, chiedono che a pagare siano quei parenti
o amici sui quali i profughi sanno di poter contare e che magari sperano di
poter raggiungere, da qualche parte in Europa. Pagamenti non tramite banca o
sportelli di money transfer, però: un incaricato si reca all’indirizzo
indicato, ritira i contanti e, appena ha i soldi in mano, chiama i complici in
Sicilia.
A volte ci vogliono più
giorni. Ma l’organizzazione ha previsto tutto: promette un minimo di assistenza
nell’attesa. “Decine di profughi – racconta AmrAdem, un ex giornalista di
Asmara che sta indagando su questo traffico – sono stati
condotti da Trapani o da altri porti siciliani fino a Palermo, con l’impegno
che sarebbero stati ospitati in casa della persona che li aveva contattati. Per
pura amicizia. In realtà, li hanno messi in qualche alloggio di fortuna o
semplicemente li hanno portati in un parco, inventando un pretesto all’ultimo
momento. La scusa più frequente è che il padrone di casa italiano ha saputo del
loro arrivo ed ha proibito di accoglierli, minacciando di avvertire la
polizia”. E il timore della polizia, della identificazione forzata, del blocco
in Italia, soffoca ogni volontà di chiedere altre spiegazioni. Figurarsi di
protestare.
Il viaggio non inizia se
dall’emissario inviato a incassare non arriva l’ok. Ma l’ok arriva quasi
sempre: 150 euro vengono considerati un cifra equa per un viaggio
Sicilia-Milano in treno. La prima sorpresa si ha alla partenza. A ciascuno
viene consegnato un biglietto con un nome falso. “Per prudenza”, è la
giustificazione. Poi, però, anziché alla stazione ferroviaria, i profughi
vengono accompagnati a quella dei pullman per Roma. Già, è Roma, non Milano, il
termine della corsa, come è specificato anche nel biglietto, accanto
all’indicazione del prezzo, 37 euro. Ma, a quel punto, non c’è più modo di
opporsi. Anzi, qualcuno si accorge della truffa solo alla fine del viaggio,
quando si scopre al terminal della Tiburtina.
Scesi dal bus, spaesati,
impauriti, senza soldi per proseguire e senza conoscere e una parola
d’italiano, quei giovani è come se si trovassero in pieno deserto: nessuno sa
dove andare, cosa fare, dove alloggiare almeno provvisoriamente, come procurare
il mangiare per i bambini. L’unico aiuto arriva da alcuni eritrei della
diaspora, presenti a Roma già da tempo. Ma non è finita: chi vuole proseguire
per Milano, finisce forzatamente per affidarsi ad altri clan, simili a quelli
attivi in Sicilia ma del tutto autonomi, che offrono “passaggi sicuri” a
pagamento, altri 150 euro a testa. Da Milano, poi, ognuno dovrebbe
organizzarsi, magari rivolgendosi a una terza banda di “passatori”, per superare
il confine, soprattutto al Brennero: non a caso le stazioni di Trento e Bolzano
si riempiono ogni giorno di profughi.
“E’ un nuovo sistema di
sfruttamento – denuncia AmrAdem – che sta mettendo radici profonde. Non mi
meraviglierei se si scoprissero collegamenti con personaggi vicini al regime:
questo ‘giro’ è anche un modo per individuare e controllare chi arriva in
Italia, nonché scoprire magari quali agganci ha in Europa. Ogni tratta del
viaggio viene gestita da un clan e solo da quello. Con una tecnica di tipo
mafioso. Non mi risulta finora che la mafia o la camorra siano entrate
nell’affare. Ma se il problema non viene affrontato al più presto dalle
istituzioni e il giro cresce, c’è da credere che prima o poi la grande
criminalità organizzata vorrà metterci mano: non manca mai di farlo, dovunque ci
sia da far soldi. Quanto sta emergendo dall’inchiesta ‘Mafia Capitale’ è
eloquente…”.
Di sicuro, tutte le
caratteristiche dell’organizzazione mafiosa ha già la gestione del filone
africano della tratta, con tanto di spartizione delle zone di attività,
influenza e interessi. Numerosi indizi portano a credere che il cuore
dell’organizzazione sia a Khartoum la quale, base di partenza della rotta
sahariana verso la Libia e l’Egitto, sarebbe di fatto diventata una delle
“capitali” del traffico di esseri umani, senza che la polizia e le forze di
sicurezza muovano un dito. Già, proprio quella Khartoum che ha dato il nome al
trattato che, firmato il 28 novembre 2014 tra l’Unione Europea e dieci Stati
dell’Africa Orientale, affida la gestione dell’immigrazione proveniente da
tutta questa vasta regione, allo stesso presidente sudanese Al Bashir e ad
altri dittatori come lui: Al Sisi in Egitto, ad esempio, o Isaias Afewerki in
Eritrea.
Su Khartoum si concentrano
quattro filoni di fuga: dalla Siria, dallo Yemen, dall’Eritrea e dalla Somalia
(magari via Etiopia), dall’Africa sub sahariana: alcune regioni del Sudan
stesso (come il tormentatissimo Darfur), il Sud Sudan sconvolto dalla guerra
civile, il Mali, il Ciad. Ogni filone è gestito da un clan diverso. Il
trasferimento fino alla Libia, passando dal Sahara, costa almeno 2 mila
dollari; altri mille e più servono per attraversare il territorio libico, fino
alla costa, con un minimo di sicurezza: senza troppi rischi di incappare, cioè,
in bande di sequestratori, taglieggiatori e poliziotti corrotti, pronti a
pretendere tangenti e “pedaggi”; da 2 a 3 mila dollari, infine, vanno versati
per trovare un posto su un barcone degli scafisti. Una conferma che dietro
questa odissea ci sia un’unica organizzazione viene da diversi testimoni,
sicuri di aver notato intermediari sudanesi nei punti d’imbarco.
Il viaggio dura mesi e mesi.
A volte ce ne vogliono tre, quattro, anche cinque di attesa solo per
imbarcarsi. Un tempo infinito, che i migranti passano stipati in capannoni e
strutture isolate, rigidamente controllate, poco lontano dalla spiaggia. In
condizioni disumane, come emerge dalle foto e da brevi filmati “rubati” e
trasmessi con telefoni cellulari sfuggiti all’ispezione degli aguzzini. Non
solo. Da quando lo Stato Islamico ha esteso le sue mire sulla Libia, le cose si
sono ulteriormente complicate. Gli itinerari sono stati modificati per evitare
le zone controllate dalle milizie fedeli al califfo Al Bagdhadi, ma non c’è una
linea di demarcazione precisa: le bande spostano continuamenteil raggio
d’azione e si può comunque finire nei loro checkpoint, essere catturati,
ricattati, non di rado uccisi. Per chi può pagare, tuttavia, da qualche tempo
ci sarebbero vie più sicure: al costo di 10/11 mila dollari alcuni clan pare
promettano di far arrivare da Khartoum in Italia nel giro di 15 o al massimo 20
giorni, senza troppi pericoli. Una sorta di via di fuga express.
Il giro d’affari è enorme.
Nel 2014 sono arrivati in Europa circa 280 mila profughi. Calcolando un
“ticket” di 5 mila dollari di media a testa, si arriva a 1,4 miliardi. E il
trend continua a crescere. Nei primi cinque mesi di quest’anno, dalla rotta del
Mediterraneo centrale, dalla Libia verso l’Italia, sono sbarcati oltre 46 mila
migranti e richiedenti asilo. Da quella del Mediterraneo orientale, dalla
Turchia verso la Grecia, più di 32 mila. Totale: almeno 78 mila, con un
business variamente ripartito di quasi 400 milioni di dollari. Senza contare
gli arrivi della rotta del Mediterraneo occidentale verso la Spagna, di quella
atlantica fino alle Canarie e di quella balcanica via terra, fino al cuore
stesso dell’Unione Europea.
“E’ un traffico, questo
degli esseri umani – denuncia don Mosè Zerai, presidente dell’agenzia Habeshia
– che rende, ormai, come e più della droga e delle armi. Anzi, spesso serve a
miliziani e gruppi terroristi come lucrosa forma di auto finanziamento proprio
per procurarsi armi di ogni tipo, anche pesanti, e alimentare la guerra. Ma
pensare di riuscire a fermarlo con operazioni militari o esternalizzando i
confini europei, spostandoli sempre più a sud, è soltanto un’illusione. Peggio:
un inganno. L’unica soluzione possibile per stroncare questo mercato è
l’apertura di vie di immigrazione legali: quei ‘canali umanitari’ che da anni
chiedono istituzioni come il Commissariato Onu peri rifugiati (Unhcr),
l’Organizzazione internazionale perle migrazioni (Oim), associazioni di grande
prestigio come Amnesty o Medici senza Frontiere o Medici per i diritti umani.
Chiunque, in una parola, voglia dare risposte a questa catastrofe umanitaria
privilegiando i problemi, la tragedia di quanti sono costretti a fuggire dal
proprio paese. Non l’egoismo, le paure immotivate della Fortezza Europa”.
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