Agenzia Habeshia.
Profughi. Possibili
soluzioni
Le soluzioni
possibili per porre fine alla catastrofe umanitaria costituita dall’esodo di
milioni di profughi in fuga da guerre, dittature, persecuzioni, terrorismo,
carestie, miseria e fame endemica, disastri ambientali, dissoluzione degli
Stati d’origine, nascono dall’analisi delle cause stesse che la provocano.
Il problema va
esaminato sotto due aspetti.
– Quello immediato
(che richiede interventi tempestivi, a brevissimo, breve e medio termine),
costituito dalla marea montante di arrivi e, soprattutto, dalla strage
crescente di uomini e donne provenienti dall’Africa e dal Medio Oriente, i
quali, in mancanza di alternative legali, sono costretti ad affidare la propria
vita ai trafficanti di uomini per affrontare prima il viaggio a terra
attraverso il Sahara fino alla costa nord africana e poi la traversata del
Mediterraneo su rottami di barche da pesca e gommoni. Si tratta, come è noto,
di una escalation di vittime impressionante: 25 mila negli ultimi quindici
anni, circa 3.600 solo lo scorso anno (tra morti in mare e morti a terra, prima
di arrivare alla costa mediterranea), quasi 2.600 quest’anno, dal primo gennaio
a oggi.
– Quello, a lungo
termine, della pacificazione e stabilizzazione dei paesi e delle regioni da cui
arriva la grande maggioranza dei profughi, in modo da eliminare alla radice le
cause che spingono milioni di donne e uomini a lasciare il proprio paese in
quella che si configura a tutti gli effetti come una autentica fuga per la
vita.
Interventi a breve e medio
termine
Il punto
fondamentale, per sottrarre i profughi al ricatto degli scafisti e al traffico
di esseri umani, è organizzare un sistema di immigrazione legale. Si tratta di
agire essenzialmente su quattro punti, strettamente connessi tra di loro e da
attuare insieme. Il progetto non starebbe in piedi in mancanza anche di uno
solo dei quattro: canali umanitari, ambasciate “aperte”, condizioni di vita
dignitose per i profughi nei paesi di transito e prima sosta, un nuovo sistema
di accoglienza in Europa.
– Canali umanitari. Vanno organizzati sistemi di soccorso e
immigrazione legale nel più breve tempo possibile per le situazioni più a
rischio: ponti aerei e navali per trasferire e reinsediare i profughi e i richiedenti
asilo la cui esistenza risulta in pericolo nei paesi in cui si trovano
attualmente. Ad esempio, bambini, donne sole, malati, feriti, perseguitati,
ecc. O anche profughi ospitati attualmente in paesi giunti al limite delle
proprie possibilità: il caso più evidente è quello del Libano che, con meno di
5 milioni di abitanti, ha aperto i propri confini a oltre un milione di
profughi e richiedenti asilo. L’Unhcr insiste da tempo su questo tipo di
intervento: già negli anni passati ha prospettato programmi di reinsediamento
per decine di migliaia di persone, partendo dai “soggetti più deboli” ed ha
ripetuto l’appello anche poche settimane fa. La richiesta – salvo poche,
significative eccezioni – è rimasta finora inascoltata. Si potrebbe partire
come base iniziale proprio da questi programmi Unhcr già in cantiere.
– Ambasciate aperte. L’idea è quella di concedere la possibilità
ai profughi di presentare la richiesta di asilo direttamente presso la rete di
ambasciate degli Stati membri dell’Unione Europea esistenti nei paesi africani
di transito e prima sosta più affidabili e dove ci siano sufficienti condizioni
di sicurezza e rispetto dei diritti umani. Non più, dunque, dopo l’arrivo in
Italia o in Europa ma prima ancora di partire. E’ chiaro che dovrebbero
aderire, se non tutti, quanto meno la grande maggioranza dei governi europei,
in modo da non scaricare il problema solo su pochissimi Stati. Presso ogni
ambasciata o consolato dovrebbe insediarsi a tale scopo una apposita
commissione, d’intesa con l’Unhcr.
– Condizioni dei profughi nei
paesi di transito e prima sosta. Per i profughi che decidono di restare nei paesi di prima sosta e per
quelli in attesa che venga presentata ed esaminata la richiesta di asilo (o di
un’altra qualsiasi forma di protezione internazionale), va garantita una
condizione di vita dignitosa e sicura. Occorre studiare, a questo scopo,
interventi europei a sostegno della politica di asilo e aiuto, d’intesa e con
la collaborazione dei paesi ospitanti, i quali ovviamente non vanno gravati da
soli delle spese di alloggio, logistica, assistenza, ecc., oltre che di
inserimento sociale per coloro che scelgono di restare, anziché puntare verso
l’Europa, che sono in realtà la grande maggioranza. Si potrebbero efficacemente
utilizzare, in questo contesto, i fondi disponibili del sistema di
cooperazione.
E’ chiaro che per
attuare un programma di questo genere, occorre però scegliere (come anticipato
al punto due) Stati “affidabili” per il rispetto dei diritti umani e la
sicurezza: non avrebbe senso – come fa invece il Processo di Khartoum –
chiedere la collaborazione, ad esempio,
di Stati di assai dubbia democrazia o addirittura di dittature. Quelle stesse
dittature che costringono i profughi alla “fuga per la vita”. E’ il caso, ad
esempio, del Sudan, il cui presidente, al Bashir, è colpito da un ordine di
cattura internazionale per delitti di lesa umanità e le cui forze di polizia e
militari anche di recente si sono rese protagoniste di razzie, violenze,
persecuzioni contro popolazioni ritenute vicine a forze ribelli. In particolare
nella regione del Darfur. Per non dire delle accuse di complicità con i
trafficanti di uomini più volte formulate da numerosi profughi nei confronti di
esponenti di vario livello dell’apparato di sicurezza del regime. E’ questo il
caso anche dell’Egitto, dove l’ingresso clandestino nel paese è da sempre
considerato un reato punibile con il carcere (seguito dal rimpatrio forzato) e
dove le condizioni sono ulteriormente peggiorate con la dittatura del generale
Al Sisi. Lo stesso vale per Isaias Afewerki, il dittatore dell’Eritrea, il
paese dal quale, in proporzione agli abitanti (5 milioni), in questo momento
fugge il più alto numero di profughi, in
particolare giovanissimi: degli oltre 110 mila migranti arrivati in Italia quest’anno,
circa il 25 per cento sono appunto eritrei, con un trend in crescita di circa
due punti percentuali rispetto allo scorso anno (23 per cento su un totale di
circa 170 mila arrivi).
– Sistema unico di accoglienza
europeo. Occorre arrivare
nel più breve tempo possibile a una sistema unico di accoglienza, condiviso e
attuato da tutti gli Stati dell’Unione Europea, con gli stessi standard di
trattamento e le stesse occasioni e opportunità di inserimento sociale in
ciascun paese, sul modello dei sistemi nazionali attualmente migliori. Si
tratta di creare, in sostanza, condizioni omogenee, stabilendo un meccanismo di
quote per ogni paese, in modo che i flussi risultino equilibrati e controllati,
tenendo conto non solo dell’estensione geografica, della popolazione,
dell’economia, delle possibilità di lavoro, ecc. di ogni paese, ma anche di
eventuali situazioni particolari: ad esempio, presenza di familiari e amici dei
profughi, contatti precedenti (di lavoro, di studio, ecc.) con un certo paese,
richieste di particolari professionalità, ecc. Va studiato anche un sistema di
perequazione e sostegno in favore dei paesi europei meno “appetibili”.
In questo modo il
regolamento Dublino 3 verrebbe
superato automaticamente, ma nelle more dell’attuazione del nuovo sistema di
accoglienza unico, va pensata quanto meno una modifica per eliminarne gli
aspetti più contraddittori e penalizzanti. Appare necessario, inoltre,
procedere subito a una riforma migliorativa dei sistemi di accoglienza
attualmente più inefficienti o addirittura penalizzanti, come quelli italiano e
greco.
A queste quattro
linee guida fondamentali, l’una strettamente connessa all’altra per il
funzionamento stesso del sistema, vanno affiancati interventi collaterali realizzabili
a breve scadenza.
– Attuazione immediata, in tutto il
Mediterraneo, di una operazione di soccorso sul modello di Mare Nostrum, con un sufficiente schieramento di mezzi e uomini,
con le stesse regole d’ingaggio del progetto attuato dal primo novembre 2013 al
primo novembre 2014, con il contributo di tutti gli Stati membri dell’Unione
Europea (o del più alto numero possibile) e sotto l’egida dell’Onu.
– Inversione degli
indirizzi di spesa della politica unitaria e dei singoli Stati per
l’immigrazione. Anche l’ultimo stanziamento dell’Unione per le politiche
migratorie (7 miliardi di euro) è destinato in maggioranza (55 per cento) ad
interventi di sicurezza, controllo dei confini e vigilanza e solo il 45 per
cento all’accoglienza vera e propria. Occorre arrivare quanto prima a ribaltare
questa proporzione.
– Revoca del
Processo di Khartoum, che rischia di risolversi in una ulteriore
esternalizzazione dei confini della Fortezza Europa, spostati addirittura a sud
del Sahara, delegando il controllo dell’immigrazione in tutta l’Africa Orientale
a Stati di assai dubbia democrazia, quando non addirittura a vere e proprie
dittature, senza curarsi della sorte a cui andranno incontro i profughi.
Revoca, di conseguenza, anche dei patti bilaterali tra singoli governi europei
e singoli Stati della sponda sud del Mediterraneo, concepiti con lo stesso
criterio e gli stessi obiettivi del Processo di Khartoum.
– Programma di
indagini e interventi internazionali congiunti contro il traffico di esseri
umani (azioni coordinate tra i vari governi interessati, Interpol, ecc.). In
Italia si è data grande enfasi all’arresto di centinaia di presunti scafisti.
In realtà gli scafisti sono in genere solo l’ultimo anello dell’organizzazione
criminale che gestisce il “mercato”: quasi sempre “manovalanza”. Quasi nulla si
è fatto invece per risalire ai vertici delle organizzazioni dei trafficanti,
con inchieste transnazionali, condotte sia in Europa che nei paesi di transito
e d’origine dei profughi.
Interventi a lungo termine
Nuova politica
generale del Nord del mondo nei confronti del Sud del mondo, tenendo conto,
come principio base, della “parità” e del rispetto dei diritti umani e dei
diritti dei paesi un tempo definiti “sottosviluppati”, quasi sempre ex colonie
delle potenze occidentali.
Buona parte delle numerose
situazioni di crisi che provocano l’emigrazione e la fuga di migliaia di
persone dal proprio paese sono il frutto di interventi e scelte dettate dalla
politica di “soggezione” condotta dall’Europa e, in generale, dal Nord del
mondo. Ciò è particolarmente evidente in Stati totalmente destabilizzati da
guerre e conflitti interni (come Siria, Libia, Iraq, Afghanistan, Mali, ecc.)
ma anche in altre realtà dove la sovranità e la libertà stessa della
popolazione sono messe in discussione e minate dalla politica occidentale, con
la collaborazione di governi poco o addirittura affatto rappresentativi della
volontà popolare e degli interessi collettivi, ma invece sensibili a equilibri
economici e geopolitici “esterni”. Non di rado, insomma, alla base di guerre,
tensioni, regimi poco democratici o addirittura dittature “di comodo”, c’è
proprio una politica dettata da interessi occidentali o comunque da un sistema
di sviluppo che si basa sostanzialmente sul controllo e spesso addirittura
sulla rapina delle materie prime e delle risorse dei paesi più deboli.
Il punto è invertire
questa tendenza, attuando la scelta di “andare verso le periferie” che papa
Francesco ha indicato fin dal suo insediamento, ribadendola subito dopo con la
decisione di recarsi, per il suo primo viaggio pastorale (luglio 2013), sull’isola
di Lampedusa, dove ha lanciato l’appello “ai potenti della terra” ad ascoltare
il grido degli “ultimi della terra”. E’ certamente un discorso di prospettiva,
lungo e difficile, ma si possono fin da ora prendere decisioni che segnino un
punto di svolta, dando credibilità e forza alla volontà di cambiamento. Ne
citiamo quattro, come semplici esempi:
– Inserimento della
clausola del rispetto dei diritti umani e dei diritti dei profughi nei
contratti economici, commerciali, ecc. e nei progetti di collaborazione con i
paesi di provenienza, di accoglienza provvisoria e di transito dei rifugiati.
– Applicazione
rigorosa (con controlli internazionali) dell’embargo sulla fornitura di armi ai
paesi che non rispettano i diritti umani. A proposito dell’Eritrea, un rapporto dell’Onu ha chiamato in causa
pesantemente l’Italia per la fornitura, da parte di varie aziende nazionali, di
armi e di materiale che può essere utilizzato a fini bellici, alla dittatura di
Isaias Afewerki. Oltre a non rispettare l’embargo, l’Italia avrebbe violato la
legge 185 del 1990 che vieta di vendere armi alle nazioni in guerra. Nonostante
il cessate il fuoco, infatti, l’Eritrea è ancora ufficialmente in guerra contro
l’Etiopia, senza contare che Asmara è accusata da più parti di armare e di
alimentare la guerriglia nell’Ogaden e in Somalia.
– Isolamento
internazionale dei regimi che non rispettano le libertà e i diritti
fondamentali.
– Proposte di
interventi di mediazione “super partes”, sotto l’egida dell’Onu, per cercare di
risolvere almeno alcuni dei numerosi conflitti in corso,
che spesso si trascinano da anni senza alcuna prospettiva.