mercoledì 22 giugno 2016

Colombe d'Oro Prize for Peace Disarmament Archive 2016 - XXXII edition


"There can not be peace without fundamental rights and without Justice"
DISARMAMENT ARCHIVE PRIZE 
GOLDEN DOVES FOR PEACE 2016
founded by Luigi Anderlini
XXXII Edition
Press release June 22, 2016
Colombe d'Oro Prize for Peace Disarmament Archive 2016 - XXXII edition
THE WINNERS OF THIS YEAR
Diego Bianchi "Zoro" (bloggers)
Lucia Capuzzi (Avvenire)
Lorenzo Trombetta (USA Today)
Colomba d'Oro International to Fr. Mussie Zerai - Habeshia and Humanitarian corridors

Back on June 23 Award Disarmament Archive - Colombe d'oro for Peace awarded annually to journalists and international personalities who have most distinguished themselves in promoting the themes of peace, non-violent conflict management and international cooperation. In the course of thirty-one editions the prize was awarded to 61 journalists and 31 international personalities. Among others: Olof Palme, Nelson Mandela, Perez de Cuellar; John Hume, Jesse Jackson, Gino Strada, Hans Blix, Daniel Barenboim.
This year the jury, made up of Fabrizio Battistelli, Dora Iacobelli, Riccardo Iacona, Dacia Maraini, Andrea Riccardi and Tana de Zulueta, will deliver the gold Colombe Thursday, June 23 p.v. For journalists section withdraw the prize:
Diego Bianchi "Zoro", blogger and host of the television program Gazebo, author of the original evidence on metropolitan suburbs of Rome and the Mediterranean. At the news of the Prize, the popular presenter commented: "The conflict has now entered into the house. In reporting recent years, Foreign were a bit 'mistreated, but when they get into the house, not only in Lampedusa but throughout Italy, you have one more reason to speak of Foreign Affairs. As? Going directly to us in places permeated by what we see. Everything is in tell, later, in the most direct way. "
Lorenzo Trombetta, Ansa correspondent for the Middle East, for years with competence and courage explores the complex Syrian issue. He said: "I dedicate this award to Father Paolo Dall'Oglio, an Italian citizen for three years vanished in northern Syria, which is fighting for peace and dialogue between communities."
Lucia Capuzzi of Avvenire, gives an account of the paradoxes produced by poverty, authoritarianism and economic dependence as wounds that mark the Latin American continent. Capuzzi observes: "250,000 people killed, massacred 30 young people every day in El Salvador, 400,000 people a year who attempt the journey-nightmare from Central America to the United States. It is not only structural violence. It is war. "

There are two international Colombe d'oro 2016

Don Moses Zerai President of Habeshia, agency that works for the integration of immigrants, giving them assistance in emergencies, in legal protection, in educational action. He says Don Zerai "There can be no peace without the recognition of fundamental rights by the people. This is my commitment, to protect the fundamental rights of people in movement, giving voice to those who live in conditions of segregation and persecution ".
Humanitarian corridors promoted by the Community of Sant'Egidio, Federation of Evangelical Churches in Italy, the Waldensian Church. A project that in two years will provide a safe and legal asylum to thousands of refugees from Syria and Africa.
Disarmament Archive organizes the Award with the support of the member Cooperatives in LEGACOOP.

COLOMBE D’ORO PER LA PACE 2016 - XXXII edizione

 "Non ci può essere pace senza i Diritti fondamentali e senza una Giustizia"

PREMIO ARCHIVIO DISARMO
COLOMBE D’ORO PER LA PACE 2016
fondato da Luigi Anderlini
XXXII Edizione
Comunicato stampa 22 giugno 2016
Premio Archivio Disarmo Colombe d'Oro per la pace 2016 - XXXII edizione
I PREMIATI DI QUEST'ANNO
Diego Bianchi “Zoro” (blogger)
Lucia Capuzzi (Avvenire)
Lorenzo Trombetta (Ansa)
Colomba d'Oro internazionale a Don Mussie Zerai – Habeshia e Corridoi umanitari

Torna il 23 giugno il Premio Archivio Disarmo – Colombe d’oro per la pace assegnato ogni anno ai giornalisti e alle personalità internazionali che si sono più distinti nel promuovere i temi della pace, della gestione nonviolenta dei conflitti e della cooperazione internazionale. Nel corso di trentuno edizioni il premio è stato conferito a 61 giornalisti e a 31 personalità internazionali. Tra gli altri: Olof Palme, Nelson Mandela, Perez de Cuellar; John Hume, Jesse Jackson, Gino Strada, Hans Blix, Daniel Barenboim.
Quest’anno la Giuria, formata da Fabrizio Battistelli, Dora Iacobelli, Riccardo Iacona, Dacia Maraini, Andrea Riccardi e Tana de Zulueta, consegnerà le Colombe d’oro giovedì 23 giugno p.v. Per la sezione giornalisti ritireranno il premio:
Diego Bianchi “Zoro”, blogger e conduttore della trasmissione televisiva Gazebo, autore di originali testimonianze sulle periferie metropolitane di Roma e del Mediterraneo. Alla notizia del Premio, il popolare conduttore ha commentato: “Il conflitto è ormai entrato dentro casa. Nell’informazione degli ultimi anni gli Esteri sono stati un po’ bistrattati, ma quando arrivano dentro casa, non solo a Lampedusa ma in tutta l’Italia, si ha un motivo in più per parlare degli Esteri. Come? Andando direttamente nei posti a farci permeare da quello che vediamo. Tutto sta nel raccontarlo, dopo, nella maniera più diretta”.
Lorenzo Trombetta, corrispondente Ansa per il Medio Oriente, da anni con competenza e coraggio approfondisce la complessa questione siriana. Ha dichiarato: “Dedico questo premio a Padre Paolo Dall’Oglio, cittadino italiano da tre anni scomparso nel nulla nel nord della Siria, che si batte per la pace e il dialogo tra le comunità”.
Lucia Capuzzi di Avvenire, dà conto dei paradossi prodotti dalla povertà, dall’autoritarismo e dalla dipendenza economica che segnano come ferite il continente latinoamericano. Osserva Capuzzi: “250 mila persone uccise, 30 giovani massacrati ogni giorno a El Salvador, 400 mila persone all’anno che tentano il viaggio-incubo dal Centro America agli Stati Uniti. Non è solo violenza strutturale. È guerra.”

Sono due le Colombe d’oro internazionali 2016 

Don Mosè Zerai Presidente di Habeshia, agenzia che opera per l’integrazione degli immigrati, dando loro assistenza nelle emergenze, nella tutela legale, nell’azione educativa. Dice don Zerai “Non ci può essere pace senza il riconoscimento dei diritti fondamentali da parte dei popoli. Questo è il mio impegno, tutelare i diritti fondamentali delle persone in movimento, dare voce a quanti vivono in condizione di segregazione e di persecuzione”.
Corridoi umanitari promossi da Comunità di Sant’Egidio, Federazione delle Chiese Evangeliche in Italia, Tavola Valdese. Un progetto che in 2 anni offrirà un asilo sicuro e legale a mille profughi dalla Siria e dall’Africa.
Archivio Disarmo organizza il Premio con il sostegno delle Cooperative aderenti a LEGACOOP.

martedì 21 giugno 2016

XXXII Edizione COLOMBE D’ORO PER LA PACE 2016

PREMIO ARCHIVIO DISARMO
COLOMBE D’ORO PER LA PACE 2016
fondato da Luigi Anderlini
XXXII Edizione
Comunicato stampa
20 giugno 2016
Premio Archivio Disarmo Colombe d'Oro per la pace 2016 - XXXII edizione
I PREMIATI DI QUEST'ANNO
Diego Bianchi “Zoro” (blogger)
Lucia Capuzzi (Avvenire)
Lorenzo Trombetta (Ansa)
Colomba d'Oro internazionale Don Mosè Zerai – Abeshia e Corridoi umanitari

Torna il 23 giugno il Premio Archivio Disarmo – Colombe d’oro per la pace assegnato ogni anno ai giornalisti e alle personalità internazionali che si sono più distinti nel promuovere i temi della pace, della gestione nonviolenta dei conflitti e della cooperazione internazionale. Nel corso di trentuno edizioni il premio è stato conferito a 61 giornalisti e a 31 personalità internazionali tra cui Olof Palme, Nelson Mandela, Perez de Cuellar; John Hume, Jesse Jackson, Gino Strada, Hans Blix, Daniel Barenboim.
Quest’anno la Giuria, formata da Fabrizio Battistelli, Dora Iacobelli, Riccardo Iacona, Dacia Maraini, Andrea Riccardi e Tana de Zulueta, consegnerà le Colombe d’oro giovedì 23 giugno p.v. Per la sezione giornalisti ritireranno il premio:
Diego Bianchi “Zoro”, blogger e conduttore della trasmissione televisiva Gazebo, autore di originali testimonianze sulle periferie metropolitane, che toccano anche i drammi dell’immigrazione;
Lucia Capuzzi di Avvenire, che attraverso i suoi scritti dà conto dei paradossi prodotti dalla povertà, dall’autoritarismo e dalla dipendenza economica che segnano come ferite il continente latinoamericano;
Lorenzo Trombetta, corrispondente Ansa per il Medio Oriente, che da anni, con competenza e coraggio, approfondisce la complessa questione siriana.
Colomba d’oro internazionale 2016
Don Mosè Zerai Presidente di Habeshia, Agenzia che opera per favorire l’integrazione degli immigrati, dando loro assistenza legale ed educativa;
Corridoi umanitari promossi da Comunità di Sant’Egidio, Federazione delle Chiese Evangeliche in Italia, Tavola Valdese.

Archivio Disarmo organizza il Premio con il sostegno delle Cooperative aderenti a LEGACOOP.

Premio Colombe d'oro 2016 Archivio Disarmo

20 giu 2016

Torna il 23 giugno il Premio Archivio Disarmo – Colombe d’oro per la pace assegnato ogni anno ai giornalisti e alle personalità internazionali che si sono più distinti nel promuovere i temi della pace, della gestione nonviolenta dei conflitti e della cooperazione internazionale. Nel corso di trentuno edizioni il premio è stato conferito a 61 giornalisti e a 31 personalità internazionali tra cui Olof Palme, Nelson Mandela, Perez de Cuellar; John Hume, Jesse Jackson, Gino Strada, Hans Blix, Daniel Barenboim. 
Quest’anno la Giuria, formata da Fabrizio Battistelli, Dora Iacobelli, Riccardo Iacona, Dacia Maraini, Andrea Riccardi e Tana de Zulueta, consegnerà le Colombe d’oro giovedì 23 giugno p.v. 

Per la sezione giornalisti ritireranno il premio: 
Diego Bianchi “Zoro”, blogger e conduttore della trasmissione televisiva Gazebo, autore di originali testimonianze sulle periferie metropolitane, che toccano anche i drammi dell’immigrazione; 
Lucia Capuzzi di Avvenire, che attraverso i suoi scritti dà conto dei paradossi prodotti dalla povertà, dall’autoritarismo e dalla dipendenza economica che segnano come ferite il continente latinoamericano; 
Lorenzo Trombetta, corrispondente Ansa per il Medio Oriente, che da anni, con competenza e coraggio,  approfondisce la complessa questione siriana.  
Colomba d’oro internazionale 2016 
Don Mosè Zerai Presidente di Habeshia, Agenzia che opera per favorire l’integrazione degli immigrati, dando loro assistenza legale ed educativa; 
Corridoi umanitari promossi da Comunità di Sant’Egidio, Federazione delle Chiese Evangeliche in Italia, Tavola Valdese.

Archivio Disarmo organizza il Premio con il sostegno delle Cooperative aderenti a Legacoop. 

domenica 19 giugno 2016

Appeal for peace between Eritrea and Ethiopia

 Habeshia Agency

Appeal for peace between Eritrea and Ethiopia
 
Between Saturday 11 and Monday, June 13 it exploded a hard, bloody battle around the Zalambessa / Tsorona city, straddling the border between Ethiopia and Eritrea, near Badme, the village at the center of the dispute that triggered the terrible war fought from 1998 2000. a devastating conflict that has caused tens of thousands of victims, suffering enormous destruction and that, despite the ceasefire signed in Algiers in December 2000, it was never formally concluded as giving rise to a situation of "neither war or peace "that has dragged on for sixteen years and that causes periodic clashes and border incidents between the two countries.

The three-day battle between the 11 and June 13 are, in fact, the last of these clashes. Indeed - for admission of both sides - the most serious accident by the truce of Algiers, with a still unknown number, but certainly very high, dead, missing, injured. Probably hundreds. Hundreds of victims are in addition to the tens of thousands of 1998/2000 and the many fallen in occasional clashes that have taken place over the years, until now. In addition, in the case of Eritrea, a calculation must be thousands of victims among the refugees who have fled and continue to flee to escape the total militarization of the country, which has stifled all forms of freedom. Not to mention the enormous impact on the economic and social level: military spending - in both countries, but particularly in Eritrea - huge waste, valuable resources that could instead be intended to resolve, or at least alleviate, the serious situation of poverty and needs of the most vulnerable population. And while you continue to fill the arsenals instead of the barns - a reality, however, shocked again, after that of 2010 (just six years ago), another heavy famine - the fire broke out between 11 and 13 June is likely to trigger a huge fire, as it leaves fear the growing concentration of military units on both sides of the border.

It 'a humanitarian catastrophe in front of which one can not remain indifferent and inert: they can not do the Addis Ababa and Asmara governments; He can not do the African Union; not the European Union; not the United Nations and the entire international community. Each of these subjects, each for its part, has an ethical duty to take steps to get in the shortest time to a peaceful solution between two peoples who, moreover, have ancient, deep historical, cultural, religious, ethnic and often, for single people, even family members.

A decisive step is the resumption of dialogue. We call, then, because it opens as soon as a round table under the auspices of one or more supra-national authorities. We cater for this, first of all, the leaders of Ethiopia Hailemariam Desalegn and Isaias Afewerki and their respective ruling classes because, overcoming mistrust and resentment, agree to set up a frank and open dialogue; but at the same time, we turn to the African Union, European Union and the United Nations, because they exercise all their authority to reach this goal, through mediation and under their supervision, doing everything in their power to start a process that will lead to peace at last. Notwithstanding that must still shed light, in front of the High Court of International Justice, on charges of crimes against humanity that in these days the UN Commission of Inquiry on the violation of human rights has moved against Asmara.

Surely, on this path of dialogue and search for a peaceful resolution of conflicts, the Ethiopian and Eritrean Governments and international institutions will be supported and will find the most concrete cooperation from the highest religious authorities, both "internal" to the two countries that supranational, beginning with the Catholic Church, the Orthodox Church, the Lutheran Community, and by the highest representatives of Islam.

We are deeply convinced that this is the cry of pain and help that rises from the populations most affected by this harsh situation, which continues to cause grief, suffering, destruction and which has already killed any prospects for the future to two generations of young people. We make sure, together, that this cry does not fall once again into the void.

sabato 18 giugno 2016

Appello per la pace tra Eritrea ed Etiopia

Agenzia Habeshia

Appello per la pace tra Eritrea ed Etiopia
  
Tra sabato 11 e lunedì 13 giugno è esplosa una dura, sanguinosa battaglia intorno alla città Zalambessa/Tsorona, a cavallo del confine tra Etiopia ed Eritrea, non lontano da Badme, il villaggio al centro della controversia che ha scatenato il terribile conflitto combattuto dal 1998 al 2000. Un conflitto devastante, che ha provocato decine di migliaia di vittime, sofferenze, distruzioni enormi e che, nonostante la tregua firmata ad Algeri nel mese di dicembre 2000, non si è mai formalmente concluso, dando origine a una situazione di “né guerra né pace” che si trascina da sedici anni e che provoca periodicamente scontri e incidenti di frontiera tra i due paesi.
I tre giorni di battaglia tra l’11 e il 13 giugno sono, appunto, l’ultimo di questi scontri. Anzi – per ammissione di entrambe le parti – l’incidente più grave dalla tregua di Algeri, con un numero tuttora imprecisato, ma sicuramente molto elevato, di morti, dispersi, feriti. Probabilmente, centinaia. Centinaia di vittime che si vanno ad aggiungere alle decine di migliaia del 1998/2000 e ai tanti caduti negli scontri saltuari che si sono succeduti in tutti questi anni, fino ad oggi. In più, nel caso dell’Eritrea, vanno calcolate le migliaia di vittime tra i profughi che sono fuggiti e continuano a fuggire per sottrarsi alla militarizzazione totale del paese, che ha soffocato ogni forma di libertà. Senza contare le pesantissime conseguenze sul piano economico e sociale: le spese militari – in entrambi i paesi, ma in particolare in Eritrea – sprecano enormi, preziose risorse che potrebbero essere invece destinate a risolvere, o quanto meno ad alleviare, la grave situazione di indigenza e bisogno delle fasce più deboli della popolazione. E mentre si continuano a riempire gli arsenali anziché i granai – in una realtà, peraltro, sconvolta di nuovo, dopo quella del 2010 (appena sei anni fa), da un’altra pesantissima carestia – il fuoco divampato tra l’11 e il 13 giugno rischia di innescare un incendio enorme, come lascia temere il crescente concentramento di reparti militari sui due lati del confine.
E’ una catastrofe umanitaria di fronte alla quale non si può restare indifferenti ed inerti: non possono farlo i governi di Addis Abeba ed Asmara; non può farlo l’Unione Africana; non l’Unione Europea; non le Nazioni Unite e l’intera comunità internazionale. Ognuno di questi soggetti, ciascuno per la sua parte, ha il dovere etico di attivarsi per arrivare nel più breve tempo a una soluzione di pace tra due popoli i quali, oltre tutto, hanno antichi, profondi legami storici, culturali, religiosi, etnici e spesso, per le singole persone, anche familiari.
Un passo decisivo è la ripresa del dialogo. Facciamo appello, allora, perché si apra al più presto un tavolo di confronto, sotto l’egida di una o più autorità sovranazionali. Ci rivolgiamo per questo, innanzi tutto, ai leader dell’Etiopia Haile Mariam Desalegn e dell’Eritrea Isaias Afewerki e alle rispettive classi dirigenti perché, superando diffidenze e risentimenti, accettino di impostare un dialogo franco e aperto; ma, nello stesso tempo, ci rivolgiamo all’Unione Africana, all’Unione Europea e alle Nazioni Unite, perché esercitino tutta la loro autorità per arrivare a questo traguardo, con la loro mediazione e sotto la loro supervisione, facendo tutto quanto è in loro potere per avviare un percorso che porti finalmente alla pace. Fermo restando che occorre comunque far luce, di fronte all’Alta Corte di Giustizia internazionale, sulle accuse di lesa umanità che proprio in questi giorni la Commissione d’inchiesta Onu sulla violazione dei diritti umani ha mosso contro Asmara.
Sicuramente, su questo cammino, di dialogo e ricerca per una soluzione pacifica dei conflitti, i Governi dell’Etiopia e dell’Eritrea e le istituzioni internazionali saranno affiancate e troveranno la più concreta collaborazione da parte delle massime autorità religiose, sia “interne” ai due paesi che sovranazionali, a cominciare dalla Chiesa cattolica, dalla Chiesa ortodossa, la Comunità Luterana e dai massimi rappresentanti dell’Islam.
Siamo profondamente convinti che è questo il grido di dolore e d’aiuto che sale dalle popolazioni più colpite da questa durissima situazione, che continua a provocare lutti, sofferenze, distruzioni e che ha già ucciso ogni prospettiva di futuro a due intere generazioni di giovani. Facciamo in modo, tutti insieme, che questo grido non cada ancora una volta nel vuoto.
  
                                                               don Mussie Zerai

                                                   presidente dell’agenzia Habeshia
  

Ginevra, 17 giugno 2016

lunedì 6 giugno 2016

Situations at risk: memo

Agency Habeshia

– Saudi Arabia
4 Eritrean refugees live totally segregated. Almost 7 months ago a UNHCR representative visited them, but since then no one cares about them anymore. They are currently detained and their personal freedom has been taken away: detainees can leave their cell for no more than 30 minutes a day.

Botswana and Tanzania.
A group of Eritreans faces the risk of being returned to Asmara. They are all sport champions who fled during away games.
Botswana. During August 2015 10 football national team members applied for asylum and refused to return to Eritrea. Since then no one protects them no one and cares about their future. Asmara has strengthened its pressure on them and requires Botswana to expel them.  
Tanzania. Same situation for 3 young people (two of them are previous volleyball players). T. B. T; T. S. H; G. W. M. are currently in Dar Es Salaam. Tanzania rejected their asylum claims. The first claim was issued on April 20th 2015 at 9.30. Tanzania rejected the claims a couple of days ago. UNHCR intervention is needed.
– Egypt.
Besides many refugees trapped after having arrived from Sudan, on May 27th 2016 a group of 14 Eritreans has been kidnapped. The group was in Sudan and the situation remembers some similar cases which happened in Sudan starting from 2009. According to what Mebrathon, one of the victims who managed to flee, said, they were all separately approached in Kharthoum from an Eritrean guy called Samuel (Mamush) who, together with the Sudanese colleague Ahmed, persuaded them to go to Egypt assuring them to be able to get a job. They left Kharthoum on January 28th and soon after crossing the border they were detained in an unknown region. The Kidnappers demanded 30.000 dollars for their release and tortured them to make them pay. Someone paid, but 2/3 have been killed because they refused to. After 5 months Mebrathom managed to flee and reached Assuan. Then he went on to Cairo and gave the alarm at Habeshia. He does not know where the exact spot where he was detained is, but he thinks that it should be between the Sudanese border and Assuan.

– Ethiopia - Dubai
4 young guys from the army asked UNHCR for help. They applied for asylum after they concluded a military training. They never went back to Eritrea and reached Ethiopia instead, where they applied for asylum.

– Filippins
7 women and some children are currently detained in a “safe-home” for victims of sexual abuse. They are asylum seekers coming from South-East Asia and the Middle East (they are not victims of abuse), and this home happened to be a temporary accommodation. However, they have been living as detainees in this home for many months yet, and they do not have any chance to know about their status. UNHCR assigned them to this house, but since than it does not care about their situation anymore.

– Djibouti.
War prisoners.
At least 19 Eritrean soldiers happen to be war prisoners since 2008, even though the war with Qatar ended in 2010 and prisoners had to be released. They should be detained at the Negad prison, but everyone seems to have forgotten them. They were arrested between June 10th and June 13th 2008. Asmara did not release prisoners and denied having Djibouti detainees, even though the presence of Djibouti citizens in concentration camps in Eritrea had been stated in 2012 thanks to an inquiry by the UN Security Council. As a result Djibouti held some Eritrean prisoners as a bargaining chip. During the last months Asmara decided to release 4 prisoners who have been waiting to be released for 6 years. No Eritrean prisoner has been released though.
Eritrean pilot in exile in prison.
In the Djibouti prison there is also another soldier, a former pilot who fled with his aircraft to apply for asylum. The government welcomed him, but a real “headhunting” has started against him: Eritrea wants him back since he is a betrayer, and Addis Abeba wants his extradition because he has been accused of being involved of indiscriminate bombing of Ethiopian cities between 1998 and 2000. Djibouti arrested the pilot, claiming that this is the best way in order to protect him.

– Greece.
6 Eritreans (most of all women and children) are stuck in a detention centre in one of the Greek islands for months. They ask to be relocated. Their claims have been ignored so far.

– Libya.
Controls have been strengthened, and mass repatriation have been taking place without paying attention to the refugees´ destiny in their homelands. There is evidence that 204 Eritreans have been already expelled. Fleeing is impossible, since the police in the detention centres shots everyone (5 people have already been killed and many have been injured as they attempted to escape Al Nasrm, near Zawia, in April). On May 24th the cost guards and the police captured 800 migrants who had just got on board of the ships. According to media, it was the same traffickers who informed the security forces (maybe because there did not have enough ships available for all the other migrants who already paid for their trip and did not fit in into the ships). 766 more have been intercepted on the 26th in Sabratha (550) and in Zuwara (216), two of the main departure points to Italy. 320 were intercepted on the 27th.

– Sudan.
Many refugees have been deported to Eritrea. They face prison, tortures and death. For some weeks the police has started to carry out strict controls in Khartoum and in other main cities where refugees heading to Libya and Egypt gather. Between May 16th and 18th almost a thousand have been captured in Khartoum: 380 have been sent back within a couple of days and the remaining ones are waiting for the same treatment in a detention centre. The same situation is believed to take place in Ondurman, the last stop in Sudan before starting the trip to the north of Africa.

– Turkey.

In Ankara an Eritrean refugee has been facing the same treatment of the Djibouti pilot. He arrived with a flight willing to apply for asylum, but he was held at the airport. Since then he is segregated in the airport. He cannot continue his trip and he does not want to go back. The Turkish government has been dealing with Asmara in order to find and agreement according to which all Eritrean refugees intercepted on the Turkish territory have to be sent back. Should the agreement be signed, the future of this young guy is already written. 

Profughi rapiti tra Sudan ed Egitto: denunciato un nuovo giro di ricatti


di Emilio Drudi

Li hanno sequestrati per chiedere un riscatto, dopo averli attirati in Egitto con il miraggio di un lavoro. Erano in quattordici, tutti profughi eritrei rifugiati in Sudan. Alcuni hanno ceduto alle minacce. Altri hanno cercato di resistere e i rapitori non avrebbero esitato a ucciderne tre, “per dare un esempio”. Non si sarebbe saputo nulla di questa ennesima tragedia se uno dei prigionieri non fosse riuscito a fuggire dopo quattro mesi di tormenti: una volta al sicuro, ha chiesto aiuto e ha raccontato tutto all’agenzia Habeshia, rompendo il silenzio a cui si sono attenuti anche coloro che hanno scelto di pagare per essere rilasciati: 30 mila dollari a testa.
Può sembrare l’ultimo capitolo di una storia certamente drammatica ma già vista: la rete dei sequestri-ricatto che si è sviluppata, a partire dal 2009, soprattutto nel Sinai e che ha poi trasferito la propria base operativa in Sudan, tra il confine con l’Eritrea e Kassala, quando la via di fuga dal Corno d’Africa verso Israele si è chiusa a causa della barriera di cemento e filo spinato costruita lungo tutti i 250 chilometri della frontiera egiziana nel deserto. Questa tratta, collegata anche al traffico di organi, è ancora attiva. L’ultimo sequestro conosciuto risale a circa due mesi fa: ne è rimasta vittima una ragazzina di appena 15 anni, sorpresa dai banditi poco dopo essere entrata in Sudan dall’Eritrea. La gestiscono elementi della tribù beduina dei Rashaida, d’intesa con clan criminali che controllano il “mercato” a livello più alto, procurando schiavi per i giri di prostituzione, il lavoro coatto, i trapianti clandestini. Quello dei 14 sequestrati in Egitto, però, è un altro “filone”, finora totalmente sconosciuto: i Rashaida non c’entrano e si è sviluppato in tutt’altra zona rispetto al “terreno di caccia” della tribù beduina. Tutto lascia credere, insomma, che sia sorta un’altra organizzazione di sequestratori, che hanno base in Egitto, ma operano nel vasto territorio compreso tra Khartoum e il deserto a sud di Assuan, con complici ed emissari in quell’autentico serbatoio di vittime potenziali che è diventato il Sudan, dove continuano ad affluire migliaia di profughi. Complici sudanesi ma anche, anzi soprattutto, eritrei, etiopi, somali: le stesse nazionalità dei rifugiati, per vincerne la diffidenza e farli cadere più facilmente in trappola.
Nel mirino della banda non ci sono soltanto i migranti in transito, che si affidano ai trafficanti per proseguire la fuga verso nord e raggiungere il Mediterraneo: ci sono anche i profughi “stanziali”, arrivati in Sudan già da tempo. E’ il caso, appunto, dei quattordici eritrei di cui si è venuti a conoscenza.
“A farmi cadere nel tranello – ha raccontato Mebrathom, il profugo che è riuscito a liberarsi, raggiunto per telefono al Cairo – è stato un eritreo come me, un certo Samuel, più noto con il soprannome di Mamush. Mi ha prospettato la possibilità di lavorare, come bracciante agricolo, nell’azienda di un suo amico sudanese, per un compenso minimo di 500 dollari al mese, a nord di Khartoum. La sera della partenza, il 28 gennaio, con me c’era anche un altro ragazzo eritreo. Samuel si è presentato con un certo Ahmed, che era alla guida di un pick-up: ‘Penserà lui a portarvi a destinazione’, ci ha assicurato. Abbiamo viaggiato tutta la notte e buona parte della mattinata dopo…”.
Tutte quelle ore di strada hanno ovviamente insospettito Mebrathon e il suo compagno ma Ahmed continuava a rassicurarli: “Siamo quasi arrivati”. Poco dopo, in effetti, sono arrivati a uno snodo della pista dove c’era in attesa un altro pick-up, con due o tre profughi eritrei a bordo e un autista sudanese: “E’ lui il proprietario dell’azienda che ha bisogno di braccianti: salite sulla sua macchina e vi porterà a destinazione insieme agli altri”, ha detto Ahmed, indicando l’uomo in attesa al volante. Dopo il trasbordo sono ripartiti, sempre in direzione nord.
“Qualche ora più tardi – ricorda Mebrathom – siamo arrivati in una località isolata. Un posto semi abbandonato, con alcune casette vuote, semi diroccate. Nei dintorni non c’era nulla, solo deserto. In lontananza si vedevano alcune basse colline. C’erano altre due o tre macchine e diversi uomini. Alcuni erano profughi come noi, altri arabi. Pensavamo, inizialmente, che questi arabi fossero sudanesi, invece era un gruppo di egiziani. Quel punto d’incontro in mezzo al deserto, infatti, era in Egitto, parecchio oltre il confine, che il nostro autista aveva attraversato, seguendo col pick-up una pista poco battuta, senza che noi ce ne accorgessimo. Ed è lì che è scattata definitivamente la trappola: non c’era, ormai era chiaro, nessuna azienda agricola in cui lavorare. Quegli egiziani ci hanno riuniti e senza tanti giri di parole hanno detto che eravamo loro prigionieri: per essere rilasciati avremmo dovuto pagare un riscatto. Noi eravamo in quattordici, quasi tutti uomini e qualche ragazza. Non abbiamo avuto modo di reagire: quasi tutti i sequestratori erano armati e hanno fatto capire che non avrebbero esitato a sparare. Hanno scelto un paio di quelle case abbandonate e ci hanno rinchiusi.  Ci trattavano da cani: poco cibo, acqua scarsa, minacce continue, pugni e calci ad ogni pretesto. Ogni tanto arrivavano delle macchine, con uomini armati e ciascuno con almeno due, tre a volte anche quattro cellulari. Allora prendevano da una delle baracche qualcuno di noi e facevano pressioni perché chiedesse aiuto a parenti e amici per pagare il riscatto. Ho notato, quando è toccato a me, che quelle auto erano tutte senza targa: evidentemente perché noi non potessimo capirne la provenienza, se dall’Egitto o dal Sudan. Sette di noi hanno accettato di pagare e sono stati portati via. Noi insistevamo di non avere la possibilità di mettere insieme i 30 mila dollari pretesi. E allora, a parte le scariche di botte, ci minacciavano di spostarci in un altro posto, magari per venderci a un’altra banda. E in effetti a un certo punto, due mesi circa dopo l’inizio del sequestro, tre di noi sono stati prelevati, due giovani e una ragazza, quelli che con maggiore decisione insistevano di non voler piegarsi al ricatto o che comunque non sarebbero stati in grado di trovare i soldi. Da allora sono spariti. Ma dopo un po’ tutti hanno cominciato a dire che erano stati uccisi. Lei, la ragazza, si chiamava Abeba…”.
E’ andata avanti così per quattro mesi. Poi, verso la fine di maggio, Mebrathom è riuscito a scappare. “In quel villaggetto di costruzioni in rovina eravamo rimasti in quattro, sprangati in coppia in due delle casette e sorvegliati a vista da un paio di guardie. Una notte io e un altro ragazzo siamo riusciti ad eludere la sorveglianza e ci siamo dileguati nel buio. Quando hanno cominciato a cercarci dovevamo essere ormai abbastanza lontano. Abbiamo marciato su una pista che andava verso le colline che avevamo visto fin dal primo giorno, in direzione nord. A un certo punto abbiamo pensato anche di fermarci e nasconderci in una casa abbandonata lungo il sentiero. Siamo entrati ma la prima cosa che ho notato sono state delle ossa. Non potrei dirlo con certezza, ma mi sono sembrate ossa umane. Allora c’è mancato il coraggio di fermarci lì e abbiamo proseguito il cammino. Il giorno dopo, il mio compagno ha preferito fermarsi in un altro alloggio di fortuna per riposare. Io sono andato avanti. A  un certo punto ho intravisto in lontananza una strada importante. Intuivo che doveva esserci da qualche parte. Ho avuto fortuna: un uomo si è fermato e mi ha dato un passaggio in auto, fino ad arrivare quasi ad Assuan. Ho evitato di rivolgermi alla gendarmeria egiziana, temendo di essere arrestato come clandestino. Sono riuscito a raggiungere il Cairo e da lì ho dato l’allarme all’agenzia Habeshia. Non so che fine abbia fatto il mio compagno. E non saprei indicare con esattezza dove si trova quel piccolo complesso di case diroccate nel quale ci hanno tenuti prigionieri: posso dire solo che è sicuramente in Egitto, un bel po’ oltre il confine con il Sudan e a tre giorni circa di cammino a sud di Assuan”.

Subito dopo l’arrivo al Cairo, Mebrathom si è rivolto all’ufficio dell’Unhcr, l’Alto Commissariato dell’Onu per i rifugiati, chiedendone la protezione. Ora vive il più “defilato” possibile, non solo per evitare di incappare nei controlli della polizia, ma per timore che la banda di sequestratori possa rintracciarlo e vendicarsi della sua fuga. E’, insomma, un testimone scomodo, che sta portando alla luce un nuovo capitolo del traffico esseri umani in Egitto ma che non si fida delle autorità egiziane, a causa della politica di repressione e respingimento condotta finora nei confronti dei profughi. La sua speranza è che l’Unhcr gli procuri un visto per l’Europa.