di Emilio Drudi
Li hanno sequestrati
per chiedere un riscatto, dopo averli attirati in Egitto con il miraggio di un
lavoro. Erano in quattordici, tutti profughi eritrei rifugiati in Sudan. Alcuni
hanno ceduto alle minacce. Altri hanno cercato di resistere e i rapitori non avrebbero
esitato a ucciderne tre, “per dare un esempio”. Non si sarebbe saputo nulla di
questa ennesima tragedia se uno dei prigionieri non fosse riuscito a fuggire
dopo quattro mesi di tormenti: una volta al sicuro, ha chiesto aiuto e ha
raccontato tutto all’agenzia Habeshia, rompendo il silenzio a cui si sono
attenuti anche coloro che hanno scelto di pagare per essere rilasciati: 30 mila
dollari a testa.
Può sembrare
l’ultimo capitolo di una storia certamente drammatica ma già vista: la rete dei
sequestri-ricatto che si è sviluppata, a partire dal 2009, soprattutto nel
Sinai e che ha poi trasferito la propria base operativa in Sudan, tra il
confine con l’Eritrea e Kassala, quando la via di fuga dal Corno d’Africa verso
Israele si è chiusa a causa della barriera di cemento e filo spinato costruita
lungo tutti i 250 chilometri della frontiera egiziana nel deserto. Questa
tratta, collegata anche al traffico di organi, è ancora attiva. L’ultimo
sequestro conosciuto risale a circa due mesi fa: ne è rimasta vittima una
ragazzina di appena 15 anni, sorpresa dai banditi poco dopo essere entrata in
Sudan dall’Eritrea. La gestiscono elementi della tribù beduina dei Rashaida,
d’intesa con clan criminali che controllano il “mercato” a livello più alto,
procurando schiavi per i giri di prostituzione, il lavoro coatto, i trapianti
clandestini. Quello dei 14 sequestrati in Egitto, però, è un altro “filone”,
finora totalmente sconosciuto: i Rashaida non c’entrano e si è sviluppato in
tutt’altra zona rispetto al “terreno di caccia” della tribù beduina. Tutto
lascia credere, insomma, che sia sorta un’altra organizzazione di
sequestratori, che hanno base in Egitto, ma operano nel vasto territorio
compreso tra Khartoum e il deserto a sud di Assuan, con complici ed emissari in
quell’autentico serbatoio di vittime potenziali che è diventato il Sudan, dove
continuano ad affluire migliaia di profughi. Complici sudanesi ma anche, anzi
soprattutto, eritrei, etiopi, somali: le stesse nazionalità dei rifugiati, per
vincerne la diffidenza e farli cadere più facilmente in trappola.
Nel mirino della
banda non ci sono soltanto i migranti in transito, che si affidano ai
trafficanti per proseguire la fuga verso nord e raggiungere il Mediterraneo: ci
sono anche i profughi “stanziali”, arrivati in Sudan già da tempo. E’ il caso,
appunto, dei quattordici eritrei di cui si è venuti a conoscenza.
“A farmi cadere nel
tranello – ha raccontato Mebrathom, il profugo che è riuscito a liberarsi,
raggiunto per telefono al Cairo – è stato un eritreo come me, un certo Samuel,
più noto con il soprannome di Mamush. Mi ha prospettato la possibilità di
lavorare, come bracciante agricolo, nell’azienda di un suo amico sudanese, per
un compenso minimo di 500 dollari al mese, a nord di Khartoum. La sera della
partenza, il 28 gennaio, con me c’era anche un altro ragazzo eritreo. Samuel si
è presentato con un certo Ahmed, che era alla guida di un pick-up: ‘Penserà lui
a portarvi a destinazione’, ci ha assicurato. Abbiamo viaggiato tutta la notte
e buona parte della mattinata dopo…”.
Tutte quelle ore di
strada hanno ovviamente insospettito Mebrathon e il suo compagno ma Ahmed
continuava a rassicurarli: “Siamo quasi arrivati”. Poco dopo, in effetti, sono
arrivati a uno snodo della pista dove c’era in attesa un altro pick-up, con due
o tre profughi eritrei a bordo e un autista sudanese: “E’ lui il proprietario
dell’azienda che ha bisogno di braccianti: salite sulla sua macchina e vi
porterà a destinazione insieme agli altri”, ha detto Ahmed, indicando l’uomo in
attesa al volante. Dopo il trasbordo sono ripartiti, sempre in direzione nord.
“Qualche ora più
tardi – ricorda Mebrathom – siamo arrivati in una località isolata. Un posto
semi abbandonato, con alcune casette vuote, semi diroccate. Nei dintorni non
c’era nulla, solo deserto. In lontananza si vedevano alcune basse colline. C’erano
altre due o tre macchine e diversi uomini. Alcuni erano profughi come noi,
altri arabi. Pensavamo, inizialmente, che questi arabi fossero sudanesi, invece
era un gruppo di egiziani. Quel punto d’incontro in mezzo al deserto, infatti,
era in Egitto, parecchio oltre il confine, che il nostro autista aveva attraversato,
seguendo col pick-up una pista poco battuta, senza che noi ce ne accorgessimo.
Ed è lì che è scattata definitivamente la trappola: non c’era, ormai era
chiaro, nessuna azienda agricola in cui lavorare. Quegli egiziani ci hanno
riuniti e senza tanti giri di parole hanno detto che eravamo loro prigionieri:
per essere rilasciati avremmo dovuto pagare un riscatto. Noi eravamo in quattordici,
quasi tutti uomini e qualche ragazza. Non abbiamo avuto modo di reagire: quasi
tutti i sequestratori erano armati e hanno fatto capire che non avrebbero
esitato a sparare. Hanno scelto un paio di quelle case abbandonate e ci hanno
rinchiusi. Ci trattavano da cani: poco
cibo, acqua scarsa, minacce continue, pugni e calci ad ogni pretesto. Ogni
tanto arrivavano delle macchine, con uomini armati e ciascuno con almeno due,
tre a volte anche quattro cellulari. Allora prendevano da una delle baracche
qualcuno di noi e facevano pressioni perché chiedesse aiuto a parenti e amici
per pagare il riscatto. Ho notato, quando è toccato a me, che quelle auto erano
tutte senza targa: evidentemente perché noi non potessimo capirne la
provenienza, se dall’Egitto o dal Sudan. Sette di noi hanno accettato di pagare
e sono stati portati via. Noi insistevamo di non avere la possibilità di
mettere insieme i 30 mila dollari pretesi. E allora, a parte le scariche di
botte, ci minacciavano di spostarci in un altro posto, magari per venderci a
un’altra banda. E in effetti a un certo punto, due mesi circa dopo l’inizio del
sequestro, tre di noi sono stati prelevati, due giovani e una ragazza, quelli
che con maggiore decisione insistevano di non voler piegarsi al ricatto o che
comunque non sarebbero stati in grado di trovare i soldi. Da allora sono
spariti. Ma dopo un po’ tutti hanno cominciato a dire che erano stati uccisi.
Lei, la ragazza, si chiamava Abeba…”.
E’ andata avanti
così per quattro mesi. Poi, verso la fine di maggio, Mebrathom è riuscito a
scappare. “In quel villaggetto di costruzioni in rovina eravamo rimasti in
quattro, sprangati in coppia in due delle casette e sorvegliati a vista da un
paio di guardie. Una notte io e un altro ragazzo siamo riusciti ad eludere la
sorveglianza e ci siamo dileguati nel buio. Quando hanno cominciato a cercarci
dovevamo essere ormai abbastanza lontano. Abbiamo marciato su una pista che
andava verso le colline che avevamo visto fin dal primo giorno, in direzione
nord. A un certo punto abbiamo pensato anche di fermarci e nasconderci in una
casa abbandonata lungo il sentiero. Siamo entrati ma la prima cosa che ho notato
sono state delle ossa. Non potrei dirlo con certezza, ma mi sono sembrate ossa
umane. Allora c’è mancato il coraggio di fermarci lì e abbiamo proseguito il
cammino. Il giorno dopo, il mio compagno ha preferito fermarsi in un altro
alloggio di fortuna per riposare. Io sono andato avanti. A un certo punto ho intravisto in lontananza
una strada importante. Intuivo che doveva esserci da qualche parte. Ho avuto
fortuna: un uomo si è fermato e mi ha dato un passaggio in auto, fino ad
arrivare quasi ad Assuan. Ho evitato di rivolgermi alla gendarmeria egiziana,
temendo di essere arrestato come clandestino. Sono riuscito a raggiungere il
Cairo e da lì ho dato l’allarme all’agenzia Habeshia. Non so che fine abbia
fatto il mio compagno. E non saprei indicare con esattezza dove si trova quel
piccolo complesso di case diroccate nel quale ci hanno tenuti prigionieri:
posso dire solo che è sicuramente in Egitto, un bel po’ oltre il confine con il
Sudan e a tre giorni circa di cammino a sud di Assuan”.
Subito dopo l’arrivo
al Cairo, Mebrathom si è rivolto all’ufficio dell’Unhcr,
l’Alto Commissariato dell’Onu per i rifugiati, chiedendone la protezione. Ora
vive il più “defilato” possibile, non solo per evitare di incappare nei
controlli della polizia, ma per timore che la banda di sequestratori possa
rintracciarlo e vendicarsi della sua fuga. E’, insomma, un testimone scomodo,
che sta portando alla luce un nuovo capitolo del traffico esseri umani in
Egitto ma che non si fida delle autorità egiziane, a causa della politica di
repressione e respingimento condotta finora nei confronti dei profughi. La sua
speranza è che l’Unhcr gli procuri un visto per l’Europa.