mercoledì 11 gennaio 2017

Già 6 profughi morti nel 2017 ma l’Italia continua ad alzare barriere






di Emilio Drudi

Già sei profughi hanno perso la vita dall’inizio dell’anno. Uno “a terra”: il bambino siriano di 7 anni malato, respinto da ben quattro ospedali ad Antalya, nel sud-est della Turchia. Cinque annegati il quattro gennaio nel naufragio di un gommone poche miglia al largo di Tripoli. Anzi, le vittime potrebbero essere molte di più. La Guardia Costiera libica, oltre alle cinque salme, ha recuperato 65 naufraghi ma, tenendo conto che su ciascun battello vengono in genere costretti a salire dai trafficanti non meno di 100/110 migranti, c’è da temere che ci siano dai 30 ai 40 dispersi.
Un’altra tragedia è stata scongiurata in extremis dalla Aquarius, la nave di Sos Mediterranee e di Medici Senza Frontiere, arrivata appena in tempo a salvare 145 donne e uomini su un altro gommone ormai semi-affondato. Inclusi questi 145 naufraghi, nei primi sette giorni del 2017 sono arrivati in Italia quasi 600 profughi, recuperati, oltre che dalla Aquarius, da unità di soccorso messe in mare da altre Ong: la nave catalana di Proactive Open Arms e la Golfo Azzurro olandese. I flussi dall’Africa verso l’Italia, infatti, non si sono interrotti neanche con il sopraggiungere del maltempo. Lo conferma Yohan Mucherie, il coordinatore dell’equipe di ricerca di Sos Mediterranee: “Tutti contavano che l’inverno avrebbe fatto diminuire le partenze, ma non è stato così. L’anno è appena iniziato, siamo nel pieno dell’inverno e noi di Sos Mediterranee come altre Ong stiamo soccorrendo centinaia di persone lasciate alla deriva in mare, su battelli di fortuna, dopo essere fuggite da condizioni di vita inumane”. “Nel Mediterraneo continua una grave situazione d’emergenza”, ha aggiunto Sophie Beau, direttrice della stessa Ong.
E’ l’ennesimo grido d’allarme, ma la risposta europea resta quella di chiudere gli occhi e alzare barriere, in linea con il Processo di Khartoum e gli accordi di Malta, i trattati sottoscritti con numerosi Stati africani per bloccare i migranti direttamente in Africa e rimandare nei paesi d’origine o di transito quelli espulsi dall’Europa. Va esattamente in questa direzione il programma, annunciato dal ministro dell’Interno Marco Minniti, di moltiplicare gli allontanamenti dei migranti “irregolari”, facendo dei Cie, i Centri di identificazione ed espulsione, uno dei cardini della politica sull’immigrazione. Una nuova politica presentata come una “stagione a tolleranza zero” e che fa temere respingimenti di massa indiscriminati, decisi in base alla nazionalità dei migranti e, peraltro, anticipati nell’agosto scorso dal rimpatrio forzato di 40 ragazzi sudanesi fermati in un centro accoglienza a Ventimiglia. Sulla stessa linea il ministro della difesa Roberta Pinotti la quale, in una intervista televisiva, ha illustrato l’altro aspetto della “strategia”, spiegando che occorre impedire ai battelli dei migranti di lasciare la Libia: “La missione europea di sicurezza marittima deve rimanere – ha dichiarato – ma occorre imprimerle una trasformazione. In accordo con il governo di Tripoli dobbiamo sostenere la guardia costiera perché ci siano dei controlli nelle loro acque. Non possiamo continuare a veder partire migliaia di barconi dalle coste libiche”. Se si aggiungono i patti con vari Stati che la Farnesina e il Viminale hanno già firmato o stanno cercando di firmare, perché i migranti vengano bloccati prima ancora che possano raggiungere la sponda meridionale del Mediterraneo per cercare di imbarcarsi, il quadro è completo.
Come dire: i profughi devono restare in Libia o comunque in Africa. Si sta erigendo una barriera difficile da superare come quella costruita con il Processo di Rabat sulla rotta del Mediterraneo Occidentale, dal Marocco verso la Spagna, che da anni, infatti, fa registrare flussi molto bassi rispetto alle altre: nel 2016 poco più di 8 mila arrivi contro gli oltre 180 mila segnalati in Italia e in Grecia. Solo che barriere di questo genere colpiscono per primi non certo i trafficanti ma gli stessi migranti, bloccati e respinti ad ogni costo, a prescindere dalla sorte che li attende, dalla loro storia, dagli orrori che hanno vissuto, dalla disperazione che li ha indotti a tentare la fuga come ultima speranza.
Il tutto mentre proprio in Africa si moltiplicano le situazioni di crisi estreme, anche se la politica europea e italiana sembrano non accorgersene. Emblematico il caso del Sud Sudan. Dal luglio scorso a oggi la guerra civile che sconvolge il paese dal 2013 è diventata ancora più feroce, assumendo connotazioni etniche sempre più marcate. Gli ultimi rapporti dell’Onu denunciano senza mezzi termini che si è sull’orlo di un genocidio, perché le diverse milizie ormai ammazzano, stuprano, saccheggiano senz’altro motivo che l’etnia delle vittime. Non a caso i profughi, quasi due milioni fino a cinque mesi fa, sono aumentati di almeno 400 mila a fine dicembre. Disperati che si sono riversati nei paesi vicini, soprattutto in Uganda, perché i miliziani non esitano ad assalire anche i centri di accoglienza gestiti dall’Unhcr.
E ce ne sono tantissime altre di queste “situazioni estreme”. Nella Nigeria sconvolta dalla rivolta jihadista di Boko Haram, con circa 20 mila morti e milioni di profughi, un rapporto dell’Unicef ha denunciato che 400 mila bambini sono vittime della carestia: 75 mila rischiano di morire di fame già nei prossimi mesi, al ritmo di 200 al giorno. Il governo ha annunciato come risolutiva, nella lotta contro le milizie fondamentaliste, la distruzione di una delle loro basi principali e la riconquista delle maggiori città del nord est, dove è nata la rivolta. In realtà numerosi osservatori segnalano che Boko Haram controlla ancora larghe zone di territorio sia in Nigeria che negli Stati vicini (Ciad, Niger, Camerun) e nulla lascia prevedere che attentati, stragi, uccisioni, rapimenti, violenze possano cessare. Non nel breve periodo, comunque. In Somalia le milizie di Al Shabaab, legate ad Al Qaeda, sono padrone di gran parte del paese e stanno conquistando, una dopo l’altra, anche le città e i villaggi abbandonati dai reparti dell’esercito etiopico presenti dal 2006 ed ora richiamati in patria. In Mali la guerra scoppiata nel 2012 con la rivolta tuareg non è in realtà mai finita: anzi, proprio il Mali e più in generale il Sahel sono indicati come probabile nuova, principale base per la lotta dell’Isis in Africa, alimentata anche da miliziani provenienti dalla Libia. Non a caso, proprio in questi giorni, nel timore di infiltrazioni di terroristi in fuga dalla regione di Sirte, il Ciad ha chiuso la sua frontiera.
E ancora. In Gambia, la sconfitta elettorale non ha posto fine alla dittatura che ha soffocato con galera, uccisioni, violenze, ogni forma di dissenso: il presidente Yahya Jammeh si è rifiutato di lasciare il potere. Tutto come prima: anzi, è stato costretto a fuggire dal paese anche il presidente della commissione elettorale che ha proclamato la sconfitta di Jammeh. Il Congo è alla soglia della guerra civile perché il presidente Joseph Kabila, insediato nel 2001, vuole restare per un terzo mandato: solo negli ultimi dieci giorni di dicembre ci sono stati quasi cento morti in una serie di scontri e repressioni che hanno investito Kinshasa, la capitale, e le altre principali città. Lo stesso accade nel Burundi dall’aprile 2015, quando il presidente Pierre Nkurunziza, è stato confermato per la terza volta con elezioni viziate da arresti, violenze, morti: dall’indomani del voto ad oggi sono state accertate 348 esecuzioni extragiudiziali e 651 casi di tortura, arresti, detenzioni arbitrarie, ma le vittime potrebbero essere molte di più perché foto satellitari avrebbero individuato numerose fosse comuni. E nell’ultimo anno e mezzo è stata repressa ogni possibilità di opposizione: cento giornalisti sono dovuti fuggire all’estero, tredici Ong sono state chiuse, numerosi avvocati radiati, aboliti i diritti civili.
C’è da chiedersi, allora, che senso abbia adottare una politica che respinge i profughi in situazioni come queste o comunque li blocca in Africa, scaricandoli su paesi di transito spesso allo sbando come la Libia o magari ad alto rischio come il Niger, dove appena pochi mesi fa l’Onu ha dichiarato lo stato di “emergenza umanitaria” in numerose regioni in seguito ad una serie di attacchi jihadisti sferrati sia dalla frontiera con la Nigeria che da quella con il Mali. La realtà è che l’Unione Europea e l’Italia confermano la scelta di esternalizzare i propri confini sulla sponda sud del Mediterraneo o addirittura oltre il Sahara, pagando “altri” perché facciano il lavoro sporco di impedire con ogni mezzo ai migranti di varcarli. E’ questo, in definitiva, che emerge dai programmi del Viminale, della Difesa e della Farnesina, con la “giustificazione” della necessità di gestire l’immigrazione e della lotta ai trafficanti. Non una parola, infatti, sull’istituzione di canali legali di immigrazione, che sono l’unico modo valido per “amministrare” i flussi, combattere davvero i trafficanti, mettere fine alla strage nel Mediterraneo e nei paesi di transito.
 Tratto da: Diritti e Frontiere


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