di Emilio Drudi
Già sei profughi
hanno perso la vita dall’inizio dell’anno. Uno “a terra”: il bambino siriano di
7 anni malato, respinto da ben quattro ospedali ad Antalya, nel sud-est della
Turchia. Cinque annegati il quattro gennaio nel naufragio di un gommone poche
miglia al largo di Tripoli. Anzi, le vittime potrebbero essere molte di più. La
Guardia Costiera libica, oltre alle cinque salme, ha recuperato 65 naufraghi
ma, tenendo conto che su ciascun battello vengono in genere costretti a salire
dai trafficanti non meno di 100/110 migranti, c’è da temere che ci siano dai 30
ai 40 dispersi.
Un’altra tragedia è
stata scongiurata in extremis dalla Aquarius,
la nave di Sos Mediterranee e di Medici Senza Frontiere, arrivata appena in
tempo a salvare 145 donne e uomini su un altro gommone ormai semi-affondato.
Inclusi questi 145 naufraghi, nei primi sette giorni del 2017 sono arrivati in
Italia quasi 600 profughi, recuperati, oltre che dalla Aquarius, da unità di soccorso messe in mare da altre Ong: la nave
catalana di Proactive Open Arms e la Golfo
Azzurro olandese. I flussi dall’Africa verso l’Italia, infatti, non si sono
interrotti neanche con il sopraggiungere del maltempo. Lo conferma Yohan
Mucherie, il coordinatore dell’equipe di ricerca di Sos Mediterranee: “Tutti
contavano che l’inverno avrebbe fatto diminuire le partenze, ma non è stato
così. L’anno è appena iniziato, siamo nel pieno dell’inverno e noi di Sos
Mediterranee come altre Ong stiamo soccorrendo centinaia di persone lasciate
alla deriva in mare, su battelli di fortuna, dopo essere fuggite da condizioni
di vita inumane”. “Nel Mediterraneo continua una grave situazione d’emergenza”,
ha aggiunto Sophie Beau, direttrice della stessa Ong.
E’ l’ennesimo grido
d’allarme, ma la risposta europea resta quella di chiudere gli occhi e alzare
barriere, in linea con il Processo di Khartoum e gli accordi di Malta, i
trattati sottoscritti con numerosi Stati africani per bloccare i migranti direttamente
in Africa e rimandare nei paesi d’origine o di transito quelli espulsi
dall’Europa. Va esattamente in questa direzione il programma, annunciato dal
ministro dell’Interno Marco Minniti, di moltiplicare gli allontanamenti dei
migranti “irregolari”, facendo dei Cie, i Centri di identificazione ed
espulsione, uno dei cardini della politica sull’immigrazione. Una nuova
politica presentata come una “stagione a tolleranza zero” e che fa temere
respingimenti di massa indiscriminati, decisi in base alla nazionalità dei
migranti e, peraltro, anticipati nell’agosto scorso dal rimpatrio forzato di 40
ragazzi sudanesi fermati in un centro accoglienza a Ventimiglia. Sulla stessa
linea il ministro della difesa Roberta Pinotti la quale, in una intervista
televisiva, ha illustrato l’altro aspetto della “strategia”, spiegando che
occorre impedire ai battelli dei migranti di lasciare la Libia: “La missione
europea di sicurezza marittima deve rimanere – ha dichiarato – ma occorre
imprimerle una trasformazione. In accordo con il governo di Tripoli dobbiamo
sostenere la guardia costiera perché ci siano dei controlli nelle loro acque.
Non possiamo continuare a veder partire migliaia di barconi dalle coste
libiche”. Se si aggiungono i patti con vari Stati che la Farnesina e il
Viminale hanno già firmato o stanno cercando di firmare, perché i migranti
vengano bloccati prima ancora che possano raggiungere la sponda meridionale del
Mediterraneo per cercare di imbarcarsi, il quadro è completo.
Come dire: i
profughi devono restare in Libia o comunque in Africa. Si sta erigendo una
barriera difficile da superare come quella costruita con il Processo di Rabat
sulla rotta del Mediterraneo Occidentale, dal Marocco verso la Spagna, che da
anni, infatti, fa registrare flussi molto bassi rispetto alle altre: nel 2016
poco più di 8 mila arrivi contro gli oltre 180 mila segnalati in Italia e in
Grecia. Solo che barriere di questo genere colpiscono per primi non certo i
trafficanti ma gli stessi migranti, bloccati e respinti ad ogni costo, a
prescindere dalla sorte che li attende, dalla loro storia, dagli orrori che
hanno vissuto, dalla disperazione che li ha indotti a tentare la fuga come
ultima speranza.
Il tutto mentre
proprio in Africa si moltiplicano le situazioni di crisi estreme, anche se la
politica europea e italiana sembrano non accorgersene. Emblematico il caso del
Sud Sudan. Dal luglio scorso a oggi la guerra civile che sconvolge il paese dal
2013 è diventata ancora più feroce, assumendo connotazioni etniche sempre più
marcate. Gli ultimi rapporti dell’Onu denunciano senza mezzi termini che si è
sull’orlo di un genocidio, perché le diverse milizie ormai ammazzano, stuprano,
saccheggiano senz’altro motivo che l’etnia delle vittime. Non a caso i
profughi, quasi due milioni fino a cinque mesi fa, sono aumentati di almeno 400
mila a fine dicembre. Disperati che si sono riversati nei paesi vicini,
soprattutto in Uganda, perché i miliziani non esitano ad assalire anche i
centri di accoglienza gestiti dall’Unhcr.
E ce ne sono
tantissime altre di queste “situazioni estreme”. Nella Nigeria sconvolta dalla
rivolta jihadista di Boko Haram, con circa 20 mila morti e milioni di profughi,
un rapporto dell’Unicef ha denunciato che 400 mila bambini sono vittime della
carestia: 75 mila rischiano di morire di fame già nei prossimi mesi, al ritmo
di 200 al giorno. Il governo ha annunciato come risolutiva, nella lotta contro
le milizie fondamentaliste, la distruzione di una delle loro basi principali e
la riconquista delle maggiori città del nord est, dove è nata la rivolta. In
realtà numerosi osservatori segnalano che Boko Haram controlla ancora larghe
zone di territorio sia in Nigeria che negli Stati vicini (Ciad, Niger, Camerun)
e nulla lascia prevedere che attentati, stragi, uccisioni, rapimenti, violenze
possano cessare. Non nel breve periodo, comunque. In Somalia le milizie di Al
Shabaab, legate ad Al Qaeda, sono padrone di gran parte del paese e stanno
conquistando, una dopo l’altra, anche le città e i villaggi abbandonati dai
reparti dell’esercito etiopico presenti dal 2006 ed ora richiamati in patria.
In Mali la guerra scoppiata nel 2012 con la rivolta tuareg non è in realtà mai
finita: anzi, proprio il Mali e più in generale il Sahel sono indicati come
probabile nuova, principale base per la lotta dell’Isis in Africa, alimentata anche
da miliziani provenienti dalla Libia. Non a caso, proprio in questi giorni, nel
timore di infiltrazioni di terroristi in fuga dalla regione di Sirte, il Ciad
ha chiuso la sua frontiera.
E ancora. In Gambia,
la sconfitta elettorale non ha posto fine alla dittatura che ha soffocato con
galera, uccisioni, violenze, ogni forma di dissenso: il presidente Yahya Jammeh
si è rifiutato di lasciare il potere. Tutto come prima: anzi, è stato costretto
a fuggire dal paese anche il presidente della commissione elettorale che ha
proclamato la sconfitta di Jammeh. Il Congo è alla soglia della guerra civile
perché il presidente Joseph Kabila, insediato nel 2001, vuole restare per un
terzo mandato: solo negli ultimi dieci giorni di dicembre ci sono stati quasi
cento morti in una serie di scontri e repressioni che hanno investito Kinshasa,
la capitale, e le altre principali città. Lo stesso accade nel Burundi
dall’aprile 2015, quando il presidente Pierre Nkurunziza, è stato confermato
per la terza volta con elezioni viziate da arresti, violenze, morti:
dall’indomani del voto ad oggi sono state accertate 348 esecuzioni
extragiudiziali e 651 casi di tortura, arresti, detenzioni arbitrarie, ma le
vittime potrebbero essere molte di più perché foto satellitari avrebbero
individuato numerose fosse comuni. E nell’ultimo anno e mezzo è stata repressa
ogni possibilità di opposizione: cento giornalisti sono dovuti fuggire
all’estero, tredici Ong sono state chiuse, numerosi avvocati radiati, aboliti i
diritti civili.
C’è da chiedersi,
allora, che senso abbia adottare una politica che respinge i profughi in
situazioni come queste o comunque li blocca in Africa, scaricandoli su paesi di
transito spesso allo sbando come la Libia o magari ad alto rischio come il
Niger, dove appena pochi mesi fa l’Onu ha dichiarato lo stato di “emergenza
umanitaria” in numerose regioni in seguito ad una serie di attacchi jihadisti sferrati
sia dalla frontiera con la Nigeria che da quella con il Mali. La realtà è che
l’Unione Europea e l’Italia confermano la scelta di esternalizzare i propri
confini sulla sponda sud del Mediterraneo o addirittura oltre il Sahara,
pagando “altri” perché facciano il lavoro sporco di impedire con ogni mezzo ai
migranti di varcarli. E’ questo, in definitiva, che emerge dai programmi del
Viminale, della Difesa e della Farnesina, con la “giustificazione” della
necessità di gestire l’immigrazione e della lotta ai trafficanti. Non una
parola, infatti, sull’istituzione di canali legali di immigrazione, che sono
l’unico modo valido per “amministrare” i flussi, combattere davvero i
trafficanti, mettere fine alla strage nel Mediterraneo e nei paesi di transito.
Tratto da: Diritti e Frontiere
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