di Emilio Drudi
La protesta esplosa
nel centro accoglienza di Cona, dopo la morte di una giovane ivoriana, ha di
nuovo scoperchiato la realtà del “sistema Italia” per i migranti. “Di nuovo”
perché la situazione era ormai fin troppo chiara, specie dopo quanto è emerso
con Mafia Capitale, l’indagine
promossa dalla Procura di Roma che ha investito diverse strutture di ospitalità
romane e si è poi estesa a casi analoghi in altre parti del Paese, incluso il
Cara di Mineo, in Sicilia, il più grande d’Europa, dando origine anche a una
commissione parlamentare d’inchiesta. Prima ancora di Mafia Capitale, anzi, a mettere sotto accusa il sistema erano stati
tutta una serie di dossier roventi presentati da Ong come Medici per i Diritti
Umani, Amnesty, Habeshia, l’Asgi, Lasciatecientrare. Roventi ma rimasti
inascoltati. Così come, a ben vedere, è stata di fatto “dimenticata”, dalle
istituzioni e dalla politica, anche la stessa Mafia Capitale: altrimenti non si sarebbe arrivati a una vicenda
come quella di Cona.
Sembra trattarsi
ancora una volta, a Cona, di un “caso di scuola”, con una gestione piena di
ombre dell’accoglienza da parte della Ecofficina Edeco di Padova, leader nel
settore in Veneto. Ombre, in particolare, nel centro dove è maturata la
protesta: 1.500 giovani stipati in una ex base militare, che ne potrebbe
ospitare al massimo, in condizioni dignitose, poche centinaia. C’è da stupirsi,
anzi, che la protesta non sia scoppiata prima. Negli ultimi mesi, infatti la
cooperativa è stata coinvolta in ben tre inchieste, con l’ipotesi di truffa,
falso e maltrattamenti. Non solo. A parte le indagini di carabinieri e
magistratura, la coop (che in breve tempo, secondo quanto riferisce il Fatto Quotidiano, citando fonti di
stampa locali, avrebbe decuplicato il fatturato) lo scorso settembre è stata
allontanata dalla Confcooperative perché faceva “troppo business”. Come dire:
sarebbe venuta meno al modo di agire, al sistema, allo spirito proprio delle
cooperative. A spiegare nei dettagli i motivi del provvedimento al Fatto è stato Ugo Campagnaro, presidente
regionale Confcoop: “Non esiste – ha detto – una legge che impedisce di
ospitare e gestire centinaia di profughi in un’unica struttura. Questo però è
un sistema che non risponde alle logiche della buona accoglienza, della qualità
dell’intervento, dell’integrazione e della relazione. Si tratta invece di un
modello che guarda soprattutto al business. Per tutte queste ragioni vogliamo
prendere le distanze da questo soggetto e dalla maniera in cui opera”.
C’è da chiedersi
come mai la stessa attenzione della Confcooperative non l’abbia manifestata la
Prefettura di Venezia, che si è accordata con la Ecofficina per il centro di
Cona, con ispezioni e controlli sulle condizioni di vita degli ospiti, sugli
alloggi, sui servizi effettivamente prestati, ecc., facendosi magari venire dei
dubbi sulla opportunità della scelta fatta e “richiamando all’ordine” i
responsabili. Specie a fronte, in particolare, dell’indagine sui presunti
maltrattamenti aperta nell’aprile 2016 sulla scia di una segnalazione che
denunciava “cibo di scarsa qualità distribuito agli ospiti delle strutture
gestite dalla coop, angherie, soprusi e nessun corso di alfabetizzazione
organizzato per far studiare l’italiano ai migranti”. Denunciava, cioè, la
pressoché totale inadempienza degli impegni assunti di fronte allo Stato. Senza
esito, del resto, è rimasta anche l’interrogazione parlamentare presentata da
Giovanni Paglia, deputato di Sinistra Italiana, e che ha anticipato ampiamente
quanto è venuto ora alla luce: “Condizioni di alloggio, limitate di fatto a
tende di diverse dimensioni, caratterizzate da sovraffollamento e condizioni
ambientali estremamente disagiate… Difficoltà di garantire assistenza sanitaria
adeguata… Rischio che la situazione possa degenerare in qualsiasi momento”. Non
risulta che l’allora ministro dell’interno Alfano abbia risposto o preso
qualche provvedimento. Ed ora si è arrivati alla sommossa di cui tutti parlano.
Cona, però, è
tutt’altro che un episodio isolato. Segnalazioni analoghe, ad esempio,
continuano ad arrivare all’agenzia Habeshia da tutta Italia. Il contenuto delle
denunce è sempre lo stesso: alloggi inadeguati, cibo scadente ma, soprattutto,
la costrizione in un limbo infinito e pieno di incertezza, senza alcuna
informazione sulle procedure da seguire o sullo “stato” delle richieste di
asilo o relocation in un altro Stato
europeo, per la mancanza pressoché sistematica di mediatori culturali e
linguistici in grado di esprimere le esigenze dei profughi ai gestori dei
centri e alle stesse istituzioni, a cominciare dalle prefetture e dalle questure.
Accade a Roma e a Latina nel Lazio; in varie località della Sicilia; a Crotone
e Cosenza in Calabria; a Taranto in Puglia; a Napoli, Caserta e Salerno in
Campania; a Bergamo in Lombardia. O, ancora, a Cagliari, dove si è dovuta
registrare anche la morte di un giovane eritreo in circostanze mai chiarite
sino in fondo: trovato agonizzante ai piedi di un albero, accanto all’edificio
del Cas dove era ospite, secondo i carabinieri è rimasto vittima di un
incidente mentre tentava di rientrare nella sua stanza dalla finestra, dopo
l’orario di chiusura, ma altri profughi sono convinti che si tratti di un
suicidio, provocato dallo stato di depressione in cui il ragazzo era
sprofondato a causa dei lunghi tempi di
attesa per i documenti di esule e per le condizioni di vita nel centro.
E’ l’immagine di un
disastro, perché queste strutture allo sbando, i Cas, centri di assistenza straordinaria,
sono il cardine del sistema di accoglienza italiano. Con quasi 145 mila posti
disponibili (75 mila in più rispetto al dicembre 2015) coprono l’80 per cento
dell’offerta messa in campo dallo Stato. Offerta che sale addirittura all’86
per cento se si aggiungono i Cara (i centri per richiedenti asilo) contro
appena il 14 per cento della rete Sprar organizzata in collaborazione con i
Comuni, che è l’unica a garantire o almeno tentare un percorso adeguato di
inserimento sociale. La spesa, assorbita dalle cooperative e dalle altre
organizzazioni che gestiscono le strutture, è ripartita di conseguenza. Dei 1.162 milioni
di euro stanziati complessivamente nel 2015, 918,5 milioni sono andati appunto
ai Cas e ai Cara mentre 243,5 sono stati destinati allo Sprar. La ripartizione
dei 1.200 milioni investiti nel 2016 (una media di 100 al mese) ricalca
grossomodo la stessa proporzione.
Già queste cifre
evidenziano le falle del sistema Italia. L’accoglienza si basa essenzialmente
su strutture “straordinarie”, cioè temporanee e precarie, adatte al massimo per
un soggiorno di poche settimane, non di mesi e di anni interi. Il compito di
trovarle, nelle varie province, è affidato ai prefetti, senza alcuna
programmazione a monte, con il risultato che viene in pratica utilizzato
qualsiasi tipo di alloggio, purché reperibile rapidamente. “Con i profughi già
sull’uscio”, ha detto sagacemente un operatore volontario. Così nella “mappa” è
finito di tutto: caserme chiuse e in disuso da anni, appartamenti o addirittura
interi edifici sfitti, scuole ed altri edifici pubblici inutilizzati, casolari
di campagna, stanze d’albergo, pensioni, sistemazioni presso affittacamere.
Catapultando i migranti dove capita e quasi sempre senza neanche preoccuparsi
di informare preventivamente i sindaci e le popolazioni locali, di cui invece è
assolutamente necessario avere la collaborazione e la comprensione. Anche
questo – al di là delle numerose, fin troppe contestazioni strumentali di certe
parti politiche – ha contribuito a suscitare molte proteste e un clima diffuso
di incomprensione o addirittura di rifiuto.
Non solo. Proprio
questa improvvisazione e questo criterio costantemente “precario” di affrontare
il problema hanno impedito controlli e trasparenza, favorendo spesso gravi,
lucrose, inaccettabili speculazioni. Oltre che
un livello medio di trattamento e ospitalità assolutamente
inaccettabile, come ha denunciato fin dal febbraio 2016 una meticolosa indagine
condotta da Cittadinanzattiva, dal gruppo Lasciatecientrare e dall’associazione
Libera, presentata presso la sede della Federazione della Stampa a Roma e
rimasta però pressoché inascoltata: dalla “politica” e dalle istituzioni ma
anche dai principali media.
Non risulta che, da
allora, ci sia stato un cambiamento di rotta. Semmai, come dimostrano Cona e
numerose altre situazioni analoghe, la piaga si è allargata. Il punto è che il
Governo ha sempre affrontato e continua ad affrontare il problema dei migranti
come una “emergenza” e non come un problema strutturale, da risolvere con un
programma organico, basato su punti di riferimento certi e provvedimenti
stabili. Dopo l’arrivo dei 170 mila migranti del 2014, non si può dire in alcun
modo che flussi analoghi non fossero prevedibili per il 2015 e poi per il 2016.
Specialmente per il 2016, dopo l’accordo tra l’Unione Europea e la Turchia che
ha enormemente ridotto il flusso verso la Grecia, crollato dagli 850 mila
arrivi del 2015 ai poco più di 173 mila di quest’anno, trasferendo dall’Egeo al
Mediterraneo Centrale la principale via di fuga dall’Africa e dal Medio
Oriente. Eppure si è continuato a improvvisare. E non sembra destinato a
cambiare molto le cose nemmeno il recente accordo tra il Viminale e l’Anci per
incrementare la rete dello Sprar, con l’impegno di assegnare ai Comuni una quota
di 2,5/3 profughi ogni mille abitanti. Non, almeno, fino a quando l’auspicabile
“accoglienza diffusa” non si baserà su quote obbligatorie, regione per regione
e comune per comune, organizzate con indicazioni “dal basso”, tenendo conto
delle diverse situazioni locali.
C’è da chiedersi
quale sia il motivo di questa inerzia. Viene da pensare che nei piani del
Governo, più che l’intenzione di razionalizzare e migliorare il sistema di
asilo e accoglienza, portandolo al livello dei paesi più avanzati (Germania,
Svezia, Olanda, Norvegia), ci sia quella di rilanciare la scelta del
respingimento adottata ormai da anni e da attuare ora attraverso accordi
internazionali come il Processo di Khartoum, i trattati di Malta e tutti i
patti bilaterali che ne sono seguiti tra l’Italia e vari paesi africani. Patti
spesso di polizia e dunque mantenuti segreti, come è accaduto per quello
firmato il 3 agosto 2016 con il Sudan, del quale si è avuta notizia solo quando
è stato effettuato il primo rimpatrio di massa forzato dall’Italia, nei
confronti di 40 profughi fermati a Ventimiglia. Va esattamente in questa
direzione la prima, importante decisione presa dal ministro dell’interno Marco
Minniti, appena insediato al Viminale, di riaprire i Cie e di moltiplicare i
rimpatri dei migranti “irregolari”, senza specificare quali siano i criteri per
definire “irregolare” un migrante. E non si discosta granché da questa linea
Deborah Serracchiani, vicesegretaria del Pd e presidente del Friuli, la quale,
pur dichiarandosi contraria alla riapertura dei Cie, ha chiesto a sua volta di
incrementare le espulsioni.
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