di Emilio Drudi
Petrolio,
terrorismo, lotta ai trafficanti di uomini. Sono i punti essenziali dell’intesa
raggiunta dal ministro dell’Interno Marco Minniti a Tripoli. Il più immediato
dei tre appare senza dubbio il terzo: la “lotta ai trafficanti”. Un “titolo”
nel quale la parola “immigrazione” non compare. Eppure sembra proprio questo il
vero obiettivo: il controllo dell’immigrazione attraverso il Mediterraneo. Ma
“controllo” come? Lo stesso Minniti ha fatto riferimento ad una continuità con i
trattati stipulati tra Roma e Tripoli ai tempi di Gheddafi e subito dopo: il
primo nel 2008, con il governo Berlusconi, firmato, come “capo” del Viminale,
dal leghista Roberto Maroni; il secondo nel 2012, governo Monti, con la firma
di Annamaria Cancellieri. “Tenendo conto degli accordi già fatti tra Libia e
Italia – ha spiegato infatti Minniti in una dichiarazione a La Stampa – abbiamo comunemente deciso
di raggiungere un’intesa nei tempi più brevi possibili, che consenta di
combattere insieme gli scafisti”.
Più che un patto per
“combattere insieme gli scafisti”, però, quello di Maroni era un piano di
respingimento, che ha portato l’Italia sul banco degli imputati e poi a una
dura condanna da parte della Commissione Europea per i diritti dell’uomo. L’accordo
prevedeva il pattugliamento misto, con personale e navi italiane e libiche,
delle acque territoriali di Tripoli e del Mediterraneo, con l’obiettivo di
riportare in Africa – come in effetti è avvenuto – tutti i migranti
intercettati, a prescindere dalle loro ragioni e dalle loro storie e negando la
possibilità di presentare una richiesta di asilo. In sostanza, un respingimento
di massa indiscriminato. Poi, una volta ricondotti in Libia, questi migranti sono
finiti in centri di detenzione (in Italia definiti ipocritamente centri di
accoglienza) finanziati da Roma, che si sono rivelati autentici lager, dove gli
“ospiti” sono sottoposti a un trattamento inumano, a ricatti, a ogni genere di
violenze, inclusi stupri sistematici per le donne, come hanno documentato
numerose inchieste giornalistiche e soprattutto i rapporti di Ong come Medici
Senza Frontiere, Amnesty, Human Rights Watch. Senza contare la taglia di almeno
mille dollari pretesa dalle guardie per poter uscire da quell’inferno.
Roma ha sempre preferito
ignorare questa terribile realtà, tanto da rinnovare senza problemi, il 3
aprile 2012, con il governo nato dalla rivolta del 2011, l’accordo sottoscritto
quattro anni prima tra Berlusconi e Gheddafi. Anzi, nel luglio 2013,
l’esecutivo guidato da Enrico Letta, non solo ha ribadito l’accordo Cancellieri
del 2012, ma ai pattugliamenti in mare ha aggiunto l’impegno di fornire a
Tripoli mezzi, logistica e addestramento per blindare il confine terrestre
meridionale della Libia, in modo da bloccare i profughi al di là del Sahara, in
pieno deserto. Non una parola, né con Monti né con Letta, sulle condizioni
disumane dei migranti rinchiusi nei 23 centri di detenzione istituiti nel
frattempo in tutto il territorio libico.
Si era proprio alla
vigilia dell’accordo firmato da Annamaria Cancellieri a Tripoli quando, il 22
febbraio 2012, è arrivata la condanna del “tribunale” di Strasburgo, che ha
contestato all’Italia di aver violato, con i respingimenti indiscriminati in
mare, la Convenzione sui diritti umani: in particolare, l’articolo 3, quello
sui trattamenti degradanti e la tortura. Il giudizio ha preso le mosse dalla
vicenda di 200 profughi, in maggioranza eritrei e somali, che intercettati su
un barcone alla deriva nel Canale di Sicilia, il sei maggio 2009, in acque
internazionali, da una nave della Marina italiana, sono stati presi a bordo e
riportati in Libia, contro la loro volontà, senza essere identificati e senza
verificare se avessero i requisiti per ottenere l’asilo politico o comunque una
forma di protezione. Consegnati alla polizia libica, sono finiti tutti nei
centri di detenzione, dove molti hanno subito maltrattamenti, sevizie, torture.
Ventiquattro di loro, rintracciati dal Consiglio italiano per i rifugiati, una
volta liberi hanno sollevato il caso di fronte alla Corte di Strasburgo. Il
processo, durato due anni, si è concluso con la condanna dell’Italia. Condanna
la quale, anche se mossa dal ricorso di sole 24 persone, ha dato voce in realtà
a tutti i migranti respinti in mare dalla Marina italiana e dalla Guardia
Costiera libica. Ha messo sotto accusa, cioè, il fondamento della politica di
Roma nei confronti dei migranti, sottolineando che veniva sistematicamente
violato il protocollo della Convenzione di Ginevra in base al quale sono
proibiti i respingimenti collettivi.
Né il Governo Monti
né il Governo Letta hanno tenuto conto di questa pesante sentenza, che è stata
anzi quasi “silenziata”. Pur ponendo fine ai respingimenti in mare, infatti,
nelle intese successive con Tripoli si è continuato sostanzialmente a procedere
sulla linea di chiusura tracciata da Maroni. Ora c’è da chiedersi che cosa
abbia in mente il Viminale con il patto annunciato da Minniti. Non è pensabile
che si voglia tornare ai respingimenti dei profughi sui barconi da parte direttamente
della nostra Marina. A giudicare dal programma di addestramento affidato alcuni
mesi fa proprio all’Italia dall’Unione Europea, questo compito verrà con ogni
probabilità svolto dalla Guardia Costiera libica, con un raggio d’azione che si
potrebbe spingere fino a 80 miglia dalla riva africana, ben oltre le acque
territoriali. Già adesso le barche cariche di migranti intercettate sotto costa
vengono costrette dalle motovedette di Tripoli a ritornare in Libia: con
l’entrata in vigore del nuovo piano, quando la Marina libica svolgerà il suo
compito di gendarme fino alle soglie delle acque europee, appare evidente che
avverrà lo stesso con i battelli fermati nel Canale di Sicilia.
C’è da sospettare,
insomma, che si stiano preparando di nuovo respingimenti di massa
indiscriminati nel Mediterraneo, in contrasto con il diritto internazionale, ma
“appaltati” a terzi. Ovvero, che il “lavoro sporco” di bloccare e riportare in
Libia i battelli dei migranti verrà svolto da Tripoli – che non ha mai
riconosciuto la Convenzione di Ginevra sui diritti dei rifugiati – su incarico
dell’Italia e della Ue, in linea con la scelta dell’Europa, introdotta da
accordi come il Processo di Khartoum o i trattati di Malta, di affidare a
qualcun altro, a pagamento, la vigilanza sui confini di mare e di terra. Illudendosi
così di restare con le “mani nette”.
Il capitolo
successivo è la blindatura della frontiera meridionale, già programmata con
l’accordo firmato nel 2013 dal Governo Letta ma che non si è mai concretizzata
per gli avvenimenti e gli scontri armati che hanno fatto implodere la Libia,
divisa tra due governi contrapposti (Tripoli e Tobruk), dilaniata da rivalità
tribali e conflitti tra miliziani di ogni colore, inclusi i gruppi jihadisti di
Al Qaeda e dell’Isis. Per rilanciare questa blindatura c’è l’impegno specifico,
analogo a quello del 2013, di fornire a Tripoli mezzi e assistenza in grado di
potenziare i controlli lungo tutta la linea di confine del Sahara. Letta
promise autoblindo ed altri mezzi speciali per il deserto e l’addestramento di
5 mila tra poliziotti e militari. E’ probabile che ora sia previsto un
“contributo tecnico/logistico” della stessa portata. Pare sia già disponibile,
però, anche materiale più sofisticato che Roma ha fornito a Tripoli negli
ultimi mesi di potere di Gheddafi: un sistema radar in grado di individuare
tutti i movimenti e le infiltrazioni dal Sahara verso la Libia. In sostanza, una
“barriera elettronica”, fatta di radar e sensori a infrarossi, che consente
alla polizia di frontiera una vigilanza costante e una capacità di intervento
estremamente rapida. Progettato e realizzato da Finmeccanica, l’impianto non è
mai entrato in funzione a causa della caduta di Gheddafi, ma il materiale è
stato regolarmente consegnato. Il costo totale del programma si aggira sui 300
milioni di euro, pagati interamente dall’Italia perché l’Unione Europea,
“all’ultimo momento”, si sarebbe rifiutata di coprire la sua parte di spese,
circa 150 milioni.
A rivelare
l’esistenza di questo programma è stato, in una intervista rilasciata al
quotidiano Il Tempo di Roma nel
settembre 2015, Pierfrancesco Guarguaglini, ex presidente di Finmeccanica,
secondo il quale il sistema, fino a quel momento (poco più di un anno fa), era
ancora a disposizione del governo libico e con tutta probabilità perfettamente
funzionante. “Una delegazione del nuovo governo – ha specificato infatti
Guarguaglini – mi ha detto di aver visto le casse imballate in alcuni depositi.
Il materiale non era distrutto. Forse funziona: il sistema è di quelli ancora
all’avanguardia…”.
Questo “muro”
elettronico appare una palese conferma di come Roma, prima d’intesa con
Gheddafi ma poi anche con i governi libici successivi, abbia sempre perseguito
una politica di chiusura nei confronti dei profughi, preoccupandosi di
esternalizzare la frontiera italiana ed europea il più a sud possibile, fino al
Sahara, senza considerare la tragedia di migliaia di disperati, uomini e donne,
in fuga da situazioni di crisi estreme. In linea con i respingimenti in mare
voluti nel 2008 dal ministro Maroni. Il piano Minniti sembra aver imboccato la
stessa strada: stando a quanto è emerso finora sulla stampa, l’obiettivo guida
è quello di bloccare in Libia o comunque in Africa, al di là del Sahel, i
migranti che puntano verso il Mediterraneo attraverso le piste del deserto, guardando
all’Italia e all’Europa come ultima speranza. Bloccarli a prescindere dalla
sorte che li attende, ignorandone le storie e gli orrori da cui sono scappati o
che incontrano nei paesi di transito e di prima sosta. L’importante è che non
arrivino a bussare alle porte della Fortezza Europa. Non a caso, sia nelle
dichiarazioni di Minniti che nell’intervista resa, il 10 gennaio, al quotidiano
Libya Herald dal nuovo ambasciatore a
Tripoli Giuseppe Perrone, si parla insistentemente di collaborazione per combattere
i trafficanti, prevenire e porre fine agli imbarchi dalle coste libiche, mentre
non c’è neanche un cenno all’eventualità di istituire canali legali di
immigrazione. Che sono l’unico sistema concreto per eliminare l’attuale mercato
di morte e smetterla di fare del Mediterraneo un enorme cimitero.
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