di Emilio Drudi e
Abraham Tesfai
Più di mille giovani
eritrei ed etiopi, sequestrati da bande di predoni in prossimità del confine
tra il Sudan e la Libia, sono segregati da oltre sei mesi in una enorme
prigione dei trafficanti a Berk, una località non lontana da Sabha, la capitale
del Fezzan, snodo tra le piste sahariane che arrivano dal Sudan, dal Ciad o dal
Niger e le strade che conducono a nord, verso Tripoli, Homs e la costa del
Mediterraneo. Eludendo la sorveglianza dei miliziani di guardia, alcuni di loro
sono riusciti contattare con un cellulare don Mussie Zerai e l’agenzia
Habeshia, lanciando una disperata richiesta di aiuto. Il racconto che hanno
fatto è la conferma dei tanti dossier pubblicati sui lager libici dalle
commissioni dell’Onu e da numerose Ong: la vita dei prigionieri è scandita,
giorno per giorno, da maltrattamenti, soprusi, torture, violenze di ogni genere,
stupri. Più di qualcuno non resiste: “Negli ultimi mesi – hanno denunciato –
sono morti almeno sei nostri compagni: li hanno uccisi i pestaggi feroci,
sistematici delle guardie, la fame, le ferite infette e le malattie. Il cibo è
scarso e cattivo, poca anche l’acqua da bere. E per chi sta male non c’è alcun
tipo di cura medica…”.
Pur di sottrarsi a
questo calvario, parecchi si sono piegati al ricatto di “comprarsi la libertà”,
pagando migliaia di dollari. Ancora non sono stati rilasciati, ma almeno non
subiscono le torture peggiori e le continue minacce di morte o di essere
venduti come schiavi. Una minaccia tutt’altro che teorica: proprio in una delle
piazze centrali di Sabha si svolgeva il mercato di esseri umani denunciato da
un puntuale rapporto pubblicato dall’Oim nello scorso mese di aprile e
confermato da uno sconvolgente filmato della Cnn che, mandato in onda poche
settimane fa, in novembre, ha documentato, con immagini e sonoro, l’asta
allestita nel cuore stesso della città: si odono distintamente persino le
parole del banditore che vanta le “qualità” dei giovani messi in vendita, per
alzarne la quotazione. Quel servizio Tv, rimbalzato in tutto il mondo, ha destato
un clamore e un’emozione enormi. Ne è seguito, da parte delle maggiori
istituzioni internazionali e anche di varie cancellerie occidentali e africane,
l’impegno a intervenire al più presto, chiamando in causa le responsabilità del
Governo libico ma anche delle politiche migratorie dell’Unione Europea e dei
singoli Stati Ue che, ispirate a chiusura e respingimento, intrappolano
centinaia di migliaia di disperati in un inferno dove ogni diritto umano è
cancellato: dove le persone diventano “res nullius”, merce, oggetti che si
possono sfruttare o cedere per una mazzetta di dollari..
Quell’ondata di
sdegno, tuttavia, sembra già svanita o comunque in calo. Già non se ne parla quasi
più. Anzi, dalla Libia si sono levate voci e proteste contro la Cnn, accusata
di manipolare o quanto meno esagerare la realtà. Non risulta che qualcuno sia
intervenuto a Sabha e tutto procede come prima: lo dimostra il grido d’aiuto
arrivato da quei mille e passa giovani detenuti a Berk. Eppure si sa
praticamente tutto di questo lager. “Si sa persino il nome del trafficante che
ne è a capo – rileva don Zerai – E’ Azi Aziz, un sudanese noto, a quanto pare,
per godere della protezione o comunque della tacita complicità di vari capi
tribali e amministratori locali”. Si tratta sicuramente di un personaggio
“potente”. Il suo nome è pronunciato ancora con timore persino da numerosi
profughi che, passati per la sua prigione, sono poi riusciti a pagarsi il
riscatto. Come Milet, un ragazzo eritreo di 20 anni che, sbarcato in Italia nel
luglio di quest’anno, dopo un viaggio durato circa 18 mesi, è ora ospite di un
centro di accoglienza a Bologna. La sua storia è un po’ la storia di quasi
tutti i giovani finiti nei lager libici, a cominciare dai mille di Berk. Una
storia iniziata alla fine di gennaio del 2016, quando Milet è partito da
Khartoum insieme a una ragazza,
Yowhanna, e ad altri 45 giovani eritrei o somali, ammassati su un camion
allestito da una organizzazione di “passatori”.
“Lasciata Khartoum –
racconta – dovevamo attraversare il Sahara sudanese e poi passare il confine
con la Libia. Un itinerario che generalmente richiede dai tre ai sette giorni.
Il nostro trasporto è stato però intercettato e fermato, in pieno deserto, da
un gruppo di banditi ciadiani., nella zona del Sahara dove in pratica i confini
nazionali tra Sudan, Ciad e Libia sono solo teorici. Una specie di terra di
nessuno. Quei banditi ci hanno sequestrati e presi tutti prigionieri. Doveva
essere un piano prestabilito, perché pochi giorni dopo ci hanno venduto a un
clan di trafficanti di uomini, quello guidato da un eritreo di nome Tewelde il
quale, come abbiamo saputo in seguito, ha pagato ai ciadiani 700 dollari per
ciascuno di noi. Oltre 30 mila dollari in tutto. Siamo rimasti nelle mani di
questa banda per circa quattro mesi. Per liberarci ci hanno chiesto 3.500
dollari a testa, sette volte più di quanto Tewelde ha pagato ai predoni che ci
avevano catturato. Nessuno di noi aveva tutti quei soldi, ma non c’era scampo:
se volevamo essere rilasciati, dovevamo pagare. Stavamo cercando di mettere
insieme la somma, con l’aiuto di familiari e amici in Eritrea e in Europa,
quando Tewelde ci ha venduti a un altro clan di trafficanti. A guidare questo
secondo gruppo era Azi Aziz. Deve aver pagato molto, perché per rilasciarci
pretendeva ben 7.500 dollari, più del doppio di quanto ci aveva chiesto
Tewelde”.
“Quella di Aziz
credo sia una banda più grande di quella di Tewelde. Quando ci hanno presi,
nella prigione lager dove siamo stati rinchiusi c’erano già numerosi altri prigionieri,
profughi come noi catturati nel deserto. Con Tewelde le condizioni di vita nel
centro di detenzione dove ci tenevano nascosti, sempre in Libia, erano molto
dure. Ma con Aziz è stato un incubo. Alcuni non ce l’hanno fatta più: le
torture e le percosse continue, aggiunte alla disperazione di non riuscire a
trovare il denaro per il riscatto e, dunque, la prospettiva di rimanere in
quell’inferno per chissà quanto tempo, li hanno spinti a suicidarsi. Per le
ragazze era ancora più dura. Yowhanna è stata violentata più volte dai nostri
aguzzini. La prima volta appena ci hanno portato nel lager di Aziz. Ed è
rimasta incinta. La situazione era particolarmente difficile per noi eritrei.
Forse anche per motivi religiosi. Noi eritrei eravamo quasi tutti cristiani
mentre Aziz e i suoi sono musulmani. Così, ad esempio, i somali, musulmani
anche loro, avevano, rispetto a noi, un trattamento meno pesante. Credo anzi
che più di qualcuno tra i somali collaborasse con i trafficanti. Ma, a
proposito di collaboratori, ce n’erano anche di eritrei. E proprio un paio di
eritrei ci hanno teso un tranello. Si sono offerti di fare da mediatori con
Aziz per abbassare la cifra del riscatto. Sono andati avanti per un po’ e poi
ci hanno detto che Aziz si sarebbe ‘accontentato’ di 3.000 dollari a testa. In
molti abbiamo deciso di cercare di raccogliere questa somma, aiutati da amici
che avevamo potuto contattare per telefono. Quando più quote sono state pronte,
abbiamo consegnato il denaro, ma quei mediatori sono spariti. Non si sono fatti
più vedere. Allora abbiamo chiesto spiegazioni a un emissario di Aziz: ci siamo
sentiti rispondere che non sapeva niente di questa mediazione e che, in
sostanza, eravamo stati truffati. A quel punto, però, hanno abbassato il
riscatto: non più 7.500 ma ‘solo’ 4.000 dollari”.
“Intanto – precisa
Milet – erano passati diversi mesi. Tra la fine del 2016 e l’inizio del 2017
Yowhanna ha avuto il bambino nato dallo stupro che aveva subito. Pochi giorni
dopo è morta. L’hanno trovata senza vita in uno dei bagni. Del bimbo si è presa
cura una sua compagna, anche lei eritrea. E un’altra donna è morta, proprio in
quei giorni, in seguito a uno stupro. L’ha violentata un sudanese. Da allora
non è stata più lei: è come impazzita. Come se avesse perso ogni interesse a
vivere. Pure lei è stata trovata morta, forse suicida. Poi finalmente, più di
un anno dopo che la banda di Aziz mi aveva comprato da quella di Tewelde, sono
riuscito a pagare il riscatto e mi hanno lasciato andare. Verso la fine di
luglio mi hanno imbarcato su un gommone. Un paio di giorni dopo siamo stati
intercettati da una nave di soccorso. Sono sbarcato in Italia a un anno e mezzo
di distanza da quando ero partito da Khartoum. E io posso considerarmi
fortunato. Mi hanno raccontato, ad esempio, che la ragazza che si era presa
cura del figlio di Yowhanna è annegata, insieme al bambino che aveva ancora con
sé, nel naufragio del battello con cui era partita dalla Libia, più o meno nel
mio stesso periodo. Non solo. So di altri compagni, prigionieri come me prima
di Tewelde e poi di Aziz, che sono stati intercettati in mare dalla Guardia
Costiera libica e riportati in Libia. Ora sono rinchiusi in qualche centro di
detenzione. In pratica, di nuovo prigionieri…”.
“Vicende come quella
di Milet – rileva don Zerai – evidenziano qual è tuttora la situazione in Libia,
ma anche negli altri paesi di transito. Una situazione che la Fortezza Europa
si ostina a non voler vedere, pur di crearsi un alibi per arroccarsi sempre di
più. Ma le voci dei mille ragazzi sequestrati a Berk e quelle di altri come
loro, a migliaia, non possono restare inascoltate. Le autorità libiche e quelle
europee, quelle italiane in particolare, hanno il dovere di liberarli e
portarli in un luogo sicuro. Non ci sono scusanti: si sa dove sono, si sa cosa
accade in quel lager, si sa qual è l’ammontare del riscatto, si sa chi è il
capo clan che tira le fila. Si sa persino che, in situazioni del genere, ci
sono spesso complici dei trafficanti nelle istituzioni libiche, come ha
ripetutamente denunciato la Missione Onu: nel caso specifico sarebbe un certo
Yousuf. Allora, non intervenire al più presto non solo è assurdo: una scelta e
un fatto incomprensibili. E’ molto di più: è un indizio di complicità palese,
di cui si macchiano l’Italia e l’Europa, per le sofferenze inumane patite da
quei ragazzi. Da quei mille di Berk e da tantissimi altri intrappolati tra il
Sahara e il Mediterraneo”.