Allo sbando i campi dei profughi
eritrei mentre
si registrano 3 morti e si temono 6 mila rimpatri
forzati ad Asmara
La guerra in Tigrai ha investito anche gli eritrei rifugiati nella regione dopo essere fuggiti dalla dittatura di Asmara. Sono tantissimi: circa 96 mila, più della metà degli eritrei che hanno chiesto e trovato aiuto in Etiopia a partire dal 2001. Vivono da anni in quattro grandi centri di raccolta, tutti sotto l’egida dell’Unhcr, situati nell’ordine, da sud a nord, ad Adi Harush, Mai Aini, Hitsats e Shimelba. Non sono mancati i problemi in tutti questi anni e la situazione è ulteriormente peggiorata a causa della pandemia di coronavirus. Ma non è mai venuta meno la tutela internazionale che ha garantito i diritti di queste persone e consentito loro di avviare un nuovo percorso di vita, sia pure tra grosse difficoltà.
Lo sconvolgimento portato dalla guerra rischia adesso di far saltare questo fragile equilibrio e, peggio, anche ogni forma di protezione. I combattimenti fortunatamente non li hanno colpiti direttamente o comunque non in maniera massiccia, anche se non mancano alcune vittime: ad Adi Harush risulta che tre giovani siano stati uccisi da una raffica di schegge durante un pesante bombardamento sull’area limitrofa al campo. Scontri armati a parte, però, nei campi profughi si profilano due minacce non meno drammatiche: il rischio di deportazione forzata in Eritrea e difficoltà di sussistenza enormi a causa della brusca interruzione di tutte le forme di assistenza e rifornimento anche dei beni più indispensabili.
Deportazione. La minaccia riguarda in particolare il campo di
Shimelba, quello più settentrionale e più vicino alla frontiera con l’Eritrea,
distante una trentina di chilometri. Circolano da giorni notizie che circa 6
mila profughi sarebbero stati bloccati all’interno o nei dintorni del centro di
accoglienza e rimpatriati in stato d’arresto da parte di reparti militari
eritrei entrati in territorio tigrino, come alleati dell’esercito federale etiopico.
In sostanza, una vera e propria deportazione di massa, le cui vittime rischiano
di diventare dei “desaparecidos” introvabili, perché tutti i registri
dell’Unhcr sarebbero stati distrutti, in modo da non lasciare traccia degli
ospiti del campo o comunque da rendere estremamente difficili le ricerche.
In una realtà totalmente blindata come quella attuale del Tigrai – dove ogni forma di comunicazione è stata oscurata o interrotta da parte di Addis Abeba e dalla quale i giornalisti e persino le organizzazioni umanitarie sono bandite – non è stato possibile finora verificare se queste notizie abbiano fondamento. Ma se rispondono anche solo in minima parte a verità, sarebbe un fatto gravissimo, che chiama in causa direttamente le responsabilità del premier Abiy Ahmed, del suo governo e del suo esercito, perché neanche la guerra può essere invocata a giustificazione della violazione dei diritti fondamentali degli eventuali deportati: come profughi e come esseri umani. Anzi, proprio perché c’è la guerra, l’Etiopia è tenuta a garantire a maggior ragione l’incolumità e la libertà di quelle persone. Nessuno può ignorare, infatti, che tutti i profughi vengono considerati dal regime di Asmara “traditori” e “disertori”: costringerli a tornare in Eritrea significa esporli a una vera e propria rappresaglia, fatta di galera e di morte. Ovvero, alla rivalsa e alla vendetta di quella dittatura che ogni rifugiato ha messo sotto accusa di fronte al mondo intero con la sua stessa fuga.
Assistenza. E’ un problema di crescente gravità che riguarda tutti i campi profughi. Fino alla guerra, assistenza e rifornimenti sufficienti per la vita quotidiana delle migliaia di profughi sono stati assicurati dal governo del Tigrai e da aiuti umanitari internazionali. Dall’inizio del conflitto le forniture e i servizi si sono rapidamente ridotti fino ad esaurirsi: la situazione peggiore sarebbe sempre quella del campo di Shimelba, dove i militari eritrei arrivati da oltreconfine avrebbero sequestrato anche tutta la scorta di medicinali residua dell’Unhcr. Né si può contare sull’intervento di istituzioni come la stessa Unhcr o varie Ong e associazioni umanitarie, tutte espulse e tagliate fuori dalla regione su disposizione di Addis Abeba. Manca così ogni possibilità di intervento e manca anche ogni possibilità di verificare sul posto le condizioni all’interno dei campi, fornire notizie esatte, segnalare le situazioni più difficili e le eventuali emergenze. Ma dai pochi contatti che i profughi stessi sono riusciti ad attivare, emerge un quadro estremamente preoccupante: uno degli ultimi messaggi ha segnalato che manca da giorni persino l’acqua, perché i rifornimenti, garantiti prima dall’arrivo periodico e regolare di autocisterne, si sono interrotti: “Siamo costretti – si dice nel messaggio – a fare ricorso all’acqua di un vicino ruscello. Anche per bere, pur sapendo bene che si tratta di acqua malsana, perché quel ruscello è usato come una discarica, dove si sversa di tutto”. Il fatto stesso che si siano interrotti anche gli aiuti umanitari, del resto, è di per sé una grave emergenza.
A fronte di tutto questo, l’Agenzia Habeshia chiede con forza interventi urgenti a tutte le principali istituzioni internazionali – in particolare alle Nazioni Unite, all’Unione Africana, all’Unione Europea oltre allo stesso governo di Addis Abeba – con tre obiettivi prioritari:
– Verificare la fondatezza della notizia dei rimpatri forzati in Eritrea di migliaia di profughi e, in caso ci siano state effettivamente delle deportazioni, intervenire con la massima rapidità e risolutezza perché tutti i prigionieri vengano rilasciati e messi nella condizione di andarsene di nuovo dall’Eritrea, senza alcun pregiudizio per sé e per i loro familiari
– Organizzare canali umanitari che consentano il trasferimento verso altri Stati delle migliaia di profughi che si sono trovati loro malgrado coinvolti nella guerra
– Riaprire subito le frontiere del Tigrai agli aiuti umanitari e, per quanto riguarda il Governo di Addis Abeba, riattivare la gestione ordinaria dei campi, sotto il controllo dell’Unhcr, cessata da parte del governo regionale di Macalle con l’inizio della guerra.
Un’ultima nota va
riservata al presidente Abiy Ahmed. Negli ultimi due anni il suo percorso si è
intrecciato sempre più strettamente con quello di Isaias Afewerki, tanto che
non pochi osservatori vedono nel dittatore eritreo il suo principale alleato
nel Corno d’Africa. Neanche questa alleanza – anzi: tantomeno questa alleanza –
giustifica, sempre ovviamente che la notizia abbia fondamento, l’eventuale accondiscendenza
alla deportazione dei profughi eritrei. Se questa deportazione c’è stata e
addirittura è ancora in corso, non è credibile infatti che le autorità e
l’esercito etiopico non se ne siano accorti. Se è vero cioè che si sta
commettendo questo delitto, che è palesemente un crimine di lesa umanità, vuol
dire che Addis Abeba ha preferito voltarsi dall’altra parte.
Attendiamo allora
che Abiy Ahmed, memore di cosa significhi il Premio Nobel per la Pace, fornisca
al più presto, all’intera comunità internazionale, prove credibili e concrete che
non ci sono state, non ci sono e non ci saranno deportazioni di profughi in
Eritrea o, in caso contrario, che si attivi lui stesso per liberarli.
Agenzia Habeshia
Roma, 2 dicembre
2020
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