di Anna Bono
http://www.ragionpolitica.it/cms/index.php/201109124652/africa/la-siccita-acuisce-il-dramma-del-popolo-eritreo.html |
lunedì 12 settembre 2011 | |
Continua, e si aggrava, la carestia nel Corno d'Africa: si calcola che fino al prossimo raccolto all'inizio del 2012, più di 12 milioni di persone avranno bisogno di assistenza umanitaria. La pietà del mondo si concentra soprattutto sulla Somalia, dove la popolazione, prima della siccità, era già prostrata dalla ventennale guerra civile e dove inoltre al-Shabab, il gruppo antigovernativo legato ad al-Qaeda, impedisce i soccorsi nelle regioni sotto il suo controllo, sostenendo che la crisi alimentare è gonfiata dalle Nazioni Unite per screditarli. Si tenta da settimane di convincere al-Shabab ad aprire dei corridoi umanitari protetti dalla Unisom, la missione di peacekeeping inviata nel 2007 dall'Unione Africana, e nel frattempo dai territori in mano ai ribelli decine di migliaia di persone sono riuscite a fuggire, e altre continuano a farlo, dirigendosi in Kenya e in Etiopia, dove li attendono dei campi profughi attrezzati, oppure a Mogadiscio, dove dalla fine di luglio atterrano aerei carichi di aiuti.
Ma nel Corno d'Africa per cinque milioni di persone non esiste quasi assistenza né possibilità di fuga. Sono gli eritrei che popolano quel carcere a cielo aperto che è diventata l'ex colonia italiana da quando nel 1993, dopo una lunga guerra di secessione, ha ottenuto l'indipendenza dall'Etiopia. È iniziato allora il durissimo regime di Isaias Afewerki, il leader della guerra combattuta in nome della libertà e della dignità umana, acclamato per un momento come esempio di una nuova, migliore generazione di capi africani campioni di democrazia, capaci di trasformare finalmente i loro paesi in stati moderni, saldamente inseriti nel contesto mondiale e avviati verso uno durevole sviluppo.
Invece gli eritrei oggi sono tra i popoli più poveri, oppressi e isolati del pianeta. La misura del loro isolamento è provata ogni anno dalla scarsità dei dati che l'Undp, l'agenzia Onu per lo sviluppo, riesce a raccogliere: troppo pochi per inserire l'Eritrea nell'Indice dello sviluppo umano, abbastanza per capire l'entità del dramma. Il rapporto Undp 2010 sullo stato del mondo rivela che il 66% degli eritrei, anche in tempi normali, soffrono di denutrizione cronica: molti di più persino che in Zimbabwe, ultimo nell'Indice di sviluppo umano, con 39 persone denutrite su 100, e meno soltanto che nella Repubblica Democratica del Congo, dove la denutrizione colpisce il 75% della popolazione.
Repressione e violazioni dei diritti umani sono documentate dalle poche organizzazioni straniere ammesse nel paese e dagli eritrei che trovano il coraggio di tentare la fuga e che sopravvivono alla traversata del deserto, del Golfo di Aden o del Mediterraneo. Il loro è un viaggio senza ritorno perché in patria li attende la giustizia del regime che intanto ne confisca i beni e ne arresta i familiari se, come prevede la legge, non pagano una tassa su quanto guadagnano all'estero. A scegliere l'espatrio sono soprattutto i giovani su cui - maschi e femmine - incombe l'incubo della coscrizione obbligatoria a tempo indeterminato che, al di là di ogni altra considerazione, sottrae al paese il meglio della forza lavoro, limitandone la capacità produttiva, il che basta a capire il delirio di potere che orienta le scelte del presidente Afewerki.
Il caso eritreo, al pari di altri, pone ai governi democratici e agli organismi internazionali il dilemma di come agire dall'esterno nei confronti del regime. Intrattenere rapporti economici può apparire ingiusto, addirittura immorale: non mancano in Italia le proteste rivolte al governo italiano e ai privati che operano nel paese, accusati di complicità o di anteporre gli interessi economici a considerazioni umanitarie. Eppure lo sviluppo economico, oltre che indispensabile al benessere della popolazione, è un fattore necessario per aprire delle falle in un apparato autoritario.
Anche l'isolamento sulla scena internazionale può apparire doveroso, ma in effetti lascia gli eritrei in balia del loro leader. Riabilitare l'Eritrea o isolarla è il dilemma che si pone in questi giorni all'Autorità intergovernativa per lo sviluppo, Igad, l'organismo politico-economico costituito dai paesi del Corno d'Africa da cui l'Eritrea era uscita nel 2007 per protestare contro l'intervento militare dell'Etiopia a sostegno del governo somalo minacciato da movimenti armati legati al terrorismo internazionale e che l'Eritrea è accusata di sostenere. Alla fine di agosto il governo di Asmara ha chiesto di rientrare nell'Igad e attende una risposta.
Intanto, malgrado le rassicurazioni del governo secondo cui l'ultimo raccolto è stato straordinariamente abbondante, sembra che due eritrei su tre soffrano la fame. I pochi che riescono ad attraversare il confine con l'Etiopia strettamente presidiato dall'esercito - non più di 900 al mese - sono emaciati e raccontano di raccolti persi e di famiglie senza più cibo.
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