Profughi schiavi nel Sinai: giovane madre bruciata perché non riesce a pagare il riscatto
Scritto da Emilio Drudi il 15/05/2012.
Sono circa duemila i profughi schiavi, quasi tutti eritrei, somali ed etiopi, nelle mani dei predoni beduini nel Sinai. In fuga da fame, guerra, persecuzioni e catturati durante il loro “cammino della speranza” verso Israele, su ognuno incombe la minaccia di essere sacrificato sul mercato dei trapianti clandestini, se parenti e amici non riescono a trovare il denaro per il riscatto, arrivato ormai a 35 mila dollari. Gli ultimi dati in possesso dell’agenzia Habeshia, che fino a qualche mese fa parlavano di 400 o 500 prigionieri, confermano il bilancio molto più pesante fatto già in passato da Everyone, una organizzazione internazionale che si occupa della difesa dei diritti umani.
Quei disperati sopravvivono in condizioni terribili, oggetto di ogni genere di violenze. Il caso più drammatico segnalato di recente a don Mussie Zerai, il sacerdote eritreo presidente di Habeshia, è forse quello della giovane madre di una bambina di due anni. “La donna – hanno raccontato altri prigionieri – è stata costretta ad assistere inerte alle sofferenze della figlioletta, che stava lentamente morendo di fame. I trafficanti le impedivano di darle da mangiare finché non avesse trovato le migliaia di dollari necessari per pagare la sua libertà. Alla fine si è ribellata e la punizione è stata terribile: le hanno cosparso i capelli di benzina e appiccato il fuoco”. Le ustioni sono state tremende: ora la poveretta versa in gravissime condizioni, abbandonata a se stessa, senza alcuna assistenza. E si dispera anche per la sorte della sua piccina.
“Sono anni – protesta don Zerai – che denunciamo questo mercato di schiavi al macello. I trafficanti hanno trovato nel Sinai una zona franca, una regione senza norme e diritti, dove vige solo la legge dei mercanti di uomini di lontana memoria. Quasi ogni giorno riceviamo segnalazioni di atrocità. Ma le nostre denunce restano inascoltate. Il Sinai è territorio egiziano, eppure il governo del Cairo non fa il minimo sforzo per contrastare questo crimine contro l’umanità. Sono ormai migliaia i giovani e i bambini che mancano all’appello: tutto lascia credere che i loro resti si trovino in una delle tante fosse comuni sparse nel deserto. Nel Sinai si continua a morire, le donne subiscono violenze sessuali e fisiche terrificanti, ma la comunità internazionale resta di fatto indifferente: non bastano semplici contatti diplomatici con il Cairo. Lo dimostra quanto continua ad accadere”.
E l’emergenza si estende intanto ad altri paesi attraversati dai migranti in fuga dal Corno d’Africa. In particolare, Libia, Yemen, Gibuti e Tunisia. “La Libia rivoluzionaria – accusa Habeshia – non sembra tanto diversa da quella di Gheddafi. Le testimonianze e le richieste di aiuto giunte da Bengasi e Kufra parlano di centinaia di profughi tenuti prigionieri in condizioni disumane. A Kufra sono costretti a lavori forzati a servizio dell’esercito, sorvegliati a vista da uomini armati, quasi senza cibo né acqua, pestati di continuo dalle guardie. Chi ha la possibilità di pagare 800 dollari viene accompagnato sotto scorta a Tripoli, alimentando un traffico che sfrutta quei disperati come ai tempi di Gheddafi. A Bengasi la situazione è identica: maltrattamenti, ricatti, mancanza di cibo e acqua potabile, nessuna assistenza medica per malati e feriti, impossibile ogni contatto con gli operatori dell’Alto Commissariato Onu per i rifugiati e degli altri organismi internazionali che si occupano dei diritti umani”.
Nello Yemen sono trattenuti in carcere, dimenticati da tutti, circa 240 eritrei. Una settantina di loro hanno contratto in prigione una malattia che provoca forti emorragie dal naso e dalla bocca. Per evitare il contagio gli agenti di custodia li hanno isolati, abbandonandoli in un cortile circondato da alte mura, esposti alle intemperie e senza alcun intervento medico. A Gibuti si sono rifugiati dall’Eritrea oltre 350 profughi: bloccati dalla polizia, nonostante siano arrivati chiedendo l’asilo politico ed umanitario, vengono trattati come prigionieri comuni. Molti si stanno ammalando di tubercolosi, come è capitato a numerosi compagni, uomini e donne, che li hanno preceduti, fuggendo oltre confine dalla dittatura militare di Isaias Afewerki. Hanno sollecitato l’interessamento del Commissariato Onu, ma non si è visto nessuno: forse i loro appelli non sono stati neanche inoltrati.
Minaccia di precipitare, intanto, anche la situazione nel campo profughi di Shousha, in Tunisia, a pochi chilometri dal confine libico, dove hanno trovato rifugio migliaia di eritrei, somali, etiopi e sudanesi scappati dalla Tripolitania durante la rivoluzione della “primavera araba”. Affollamento e intolleranza stanno creando problemi e situazioni di pericolo in particolare per i cristiani: tempo addietro è stata incendiata la tenda che fungeva da cappella per le preghiere in comune, fuori dal campo vengono segnalate sempre più frequenti aggressioni verbali e fisiche, a diversi missionari la polizia ha impedito di entrare per svolgere opera di assistenza e celebrare le funzioni. “Tutto questo – evidenzia don Zerai – in un campo che è sotto la responsabilità del Commissariato dell’Onu”.
Da qui l’ennesimo appello ai responsabili Onu, all’Unione Europea e a tutti i governi interessati. In particolare, per la Libia, al governo italiano. Anche di recente il Consiglio transitorio di Tripoli ha ribadito di vedere nell’Italia il suo principale partner europeo. E l’Italia, con il gabinetto Monti, ha confermato sostanzialmente l’accordo di amicizia con la Libia firmato a suo tempo da Berlusconi e Gheddafi, incluso il capitolo della “vigilanza” contro l’emigrazione clandestina, ma senza pretendere preventivamente almeno il rispetto dei diritti umani e la garanzia di libero accesso nelle carceri per gli ispettori e il personale dell’Alto Commissariato dell’Onu e degli altri organismi di assistenza internazionali. E’ sicuramente il caso che lo stesso presidente del Consiglio o, quanto meno, i ministri degli esteri Giulio Terzi e dell’interno Anna Maria Cancellieri, chiedano chiarimenti alla Libia e impongano il rispetto delle convenzioni internazionali sulla tutela e sul trattamento dei migranti e dei rifugiati come condizione per dare corso concretamente a quell’accordo. E’ l’unico modo per non essere complici.
Scritto da Emilio Drudi il 15/05/2012.
Sono circa duemila i profughi schiavi, quasi tutti eritrei, somali ed etiopi, nelle mani dei predoni beduini nel Sinai. In fuga da fame, guerra, persecuzioni e catturati durante il loro “cammino della speranza” verso Israele, su ognuno incombe la minaccia di essere sacrificato sul mercato dei trapianti clandestini, se parenti e amici non riescono a trovare il denaro per il riscatto, arrivato ormai a 35 mila dollari. Gli ultimi dati in possesso dell’agenzia Habeshia, che fino a qualche mese fa parlavano di 400 o 500 prigionieri, confermano il bilancio molto più pesante fatto già in passato da Everyone, una organizzazione internazionale che si occupa della difesa dei diritti umani.
Quei disperati sopravvivono in condizioni terribili, oggetto di ogni genere di violenze. Il caso più drammatico segnalato di recente a don Mussie Zerai, il sacerdote eritreo presidente di Habeshia, è forse quello della giovane madre di una bambina di due anni. “La donna – hanno raccontato altri prigionieri – è stata costretta ad assistere inerte alle sofferenze della figlioletta, che stava lentamente morendo di fame. I trafficanti le impedivano di darle da mangiare finché non avesse trovato le migliaia di dollari necessari per pagare la sua libertà. Alla fine si è ribellata e la punizione è stata terribile: le hanno cosparso i capelli di benzina e appiccato il fuoco”. Le ustioni sono state tremende: ora la poveretta versa in gravissime condizioni, abbandonata a se stessa, senza alcuna assistenza. E si dispera anche per la sorte della sua piccina.
“Sono anni – protesta don Zerai – che denunciamo questo mercato di schiavi al macello. I trafficanti hanno trovato nel Sinai una zona franca, una regione senza norme e diritti, dove vige solo la legge dei mercanti di uomini di lontana memoria. Quasi ogni giorno riceviamo segnalazioni di atrocità. Ma le nostre denunce restano inascoltate. Il Sinai è territorio egiziano, eppure il governo del Cairo non fa il minimo sforzo per contrastare questo crimine contro l’umanità. Sono ormai migliaia i giovani e i bambini che mancano all’appello: tutto lascia credere che i loro resti si trovino in una delle tante fosse comuni sparse nel deserto. Nel Sinai si continua a morire, le donne subiscono violenze sessuali e fisiche terrificanti, ma la comunità internazionale resta di fatto indifferente: non bastano semplici contatti diplomatici con il Cairo. Lo dimostra quanto continua ad accadere”.
E l’emergenza si estende intanto ad altri paesi attraversati dai migranti in fuga dal Corno d’Africa. In particolare, Libia, Yemen, Gibuti e Tunisia. “La Libia rivoluzionaria – accusa Habeshia – non sembra tanto diversa da quella di Gheddafi. Le testimonianze e le richieste di aiuto giunte da Bengasi e Kufra parlano di centinaia di profughi tenuti prigionieri in condizioni disumane. A Kufra sono costretti a lavori forzati a servizio dell’esercito, sorvegliati a vista da uomini armati, quasi senza cibo né acqua, pestati di continuo dalle guardie. Chi ha la possibilità di pagare 800 dollari viene accompagnato sotto scorta a Tripoli, alimentando un traffico che sfrutta quei disperati come ai tempi di Gheddafi. A Bengasi la situazione è identica: maltrattamenti, ricatti, mancanza di cibo e acqua potabile, nessuna assistenza medica per malati e feriti, impossibile ogni contatto con gli operatori dell’Alto Commissariato Onu per i rifugiati e degli altri organismi internazionali che si occupano dei diritti umani”.
Nello Yemen sono trattenuti in carcere, dimenticati da tutti, circa 240 eritrei. Una settantina di loro hanno contratto in prigione una malattia che provoca forti emorragie dal naso e dalla bocca. Per evitare il contagio gli agenti di custodia li hanno isolati, abbandonandoli in un cortile circondato da alte mura, esposti alle intemperie e senza alcun intervento medico. A Gibuti si sono rifugiati dall’Eritrea oltre 350 profughi: bloccati dalla polizia, nonostante siano arrivati chiedendo l’asilo politico ed umanitario, vengono trattati come prigionieri comuni. Molti si stanno ammalando di tubercolosi, come è capitato a numerosi compagni, uomini e donne, che li hanno preceduti, fuggendo oltre confine dalla dittatura militare di Isaias Afewerki. Hanno sollecitato l’interessamento del Commissariato Onu, ma non si è visto nessuno: forse i loro appelli non sono stati neanche inoltrati.
Minaccia di precipitare, intanto, anche la situazione nel campo profughi di Shousha, in Tunisia, a pochi chilometri dal confine libico, dove hanno trovato rifugio migliaia di eritrei, somali, etiopi e sudanesi scappati dalla Tripolitania durante la rivoluzione della “primavera araba”. Affollamento e intolleranza stanno creando problemi e situazioni di pericolo in particolare per i cristiani: tempo addietro è stata incendiata la tenda che fungeva da cappella per le preghiere in comune, fuori dal campo vengono segnalate sempre più frequenti aggressioni verbali e fisiche, a diversi missionari la polizia ha impedito di entrare per svolgere opera di assistenza e celebrare le funzioni. “Tutto questo – evidenzia don Zerai – in un campo che è sotto la responsabilità del Commissariato dell’Onu”.
Da qui l’ennesimo appello ai responsabili Onu, all’Unione Europea e a tutti i governi interessati. In particolare, per la Libia, al governo italiano. Anche di recente il Consiglio transitorio di Tripoli ha ribadito di vedere nell’Italia il suo principale partner europeo. E l’Italia, con il gabinetto Monti, ha confermato sostanzialmente l’accordo di amicizia con la Libia firmato a suo tempo da Berlusconi e Gheddafi, incluso il capitolo della “vigilanza” contro l’emigrazione clandestina, ma senza pretendere preventivamente almeno il rispetto dei diritti umani e la garanzia di libero accesso nelle carceri per gli ispettori e il personale dell’Alto Commissariato dell’Onu e degli altri organismi di assistenza internazionali. E’ sicuramente il caso che lo stesso presidente del Consiglio o, quanto meno, i ministri degli esteri Giulio Terzi e dell’interno Anna Maria Cancellieri, chiedano chiarimenti alla Libia e impongano il rispetto delle convenzioni internazionali sulla tutela e sul trattamento dei migranti e dei rifugiati come condizione per dare corso concretamente a quell’accordo. E’ l’unico modo per non essere complici.
Nessun commento:
Posta un commento