Si celebra la Giornata mondiale del rifugiato. Don
Zerai: “Troppi ostacoli e troppo egoismo sulla strada dei diritti dei profughi”
di Emilio Drudi
Martedì notte il
Colosseo resterà illuminato per ricordare la Giornata mondiale del rifugiato,
che dal 2001 si celebra ogni anno il 20 giugno, come ha stabilito il 4 dicembre
del 2000 l’Assemblea generale delle Nazioni Unite. L’obiettivo è fermarsi per almeno
un giorno a riflettere e a discutere sulle difficoltà e i drammi di milioni di
persone costrette ad abbandonare il proprio paese, scacciate da guerra e
persecuzioni. Alla veglia simbolica suggerita dalle luci del Colosseo fino
all’alba, si aggiunge una serie di manifestazioni in tutta Italia. A cominciare
dall’incontro convocato a Roma, presso la Casa del Cinema, dall’Alto
Commissariato dell’Onu (Unhcr), per fare il punto sulla situazione e chiedere
un maggior impegno ai governi del Nord del mondo per affrontare e arginare con
più efficacia questa tragedia, che negli ultimi anni ha subito una escalation
impressionante.
Secondo gli ultimi
dati, nel 2011 sono stati ben 42 milioni gli uomini e le donne che hanno dovuto
fuggire per salvarsi da carcere, violenze, torture, la morte stessa. “Uno ogni
8 minuti – fa notare il Commissariato – E nessuno di loro ha scelto di
diventare rifugiato: sono le guerre e le violenze a separarli dai propri cari e
dalla propria terra”. E’ un’emergenza umanitaria che non può passare sotto
silenzio. E che continua a crescere in questi mesi. In questi stessi giorni.
Basti ricordare la tragedia della Siria, che rischia di estendersi ora ai paesi
vicini, come il Libano e l’Iraq. Ma anche la vicenda della Libia, dove anche
dopo la morte di Gheddafi la guerra non è finita: è finito solo, di colpo,
l’interesse dei media, ma la situazione resta esplosiva, con pesanti scontri
tra le milizie irregolari e l’esercito, la caccia spietata ai profughi “neri”
come e più dei tempi del rais, la prospettiva sempre più concreta che in
Cirenaica prevalgano i movimenti separatisti, spaccando in due il paese.
Non a caso lo
slogan, l’elemento cioè su cui riflettere proposto dall’Alto Commissariato,
quest’anno è “Una sola famiglia distrutta dalla guerra è già troppo”. A Roma
sono stati chiamati a discuterne, insieme al delegato Unhcr per il Sud Europa,
Laurens Jolles, il ministro per la cooperazione internazionale Andrea Riccardi,
e Oliviero Forti, in rappresentanza del Tavola Nazionale Asilo. E sono stati coinvolti
personaggi noti al grande pubblico come Ermanno Olmi, Emanuele Crialese, Andrea
Segre, Fiorella Mannoia. Iniziative analoghe sono convocate in tutta Europa e
negli Stati Uniti. Ma con quali occhi i rifugiati, la gente del Sud del mondo,
vedono manifestazioni di questo genere? Una risposta può venire da don Mussie
Zerai, il sacerdote eritreo, presidente dell’agenzia Habeshia, che ha scoperto
e denunciato il dramma dei profughi schiavi nel Sinai.
“Negli ultimi tre
anni – dice don Zerai – abbiamo assistito al peggioramento, anzi, allo
smantellamento della protezione per i rifugiati. I paesi industrializzati si
preoccupano, in primo luogo, di tutelare il loro tenore di vita e la loro
economia, che spesso però si regge sulle spalle dei nuovi schiavi. Così il
mondo più ricco finanzia i paesi in via di sviluppo per tenere a bada i poveri,
i perseguitati che vorrebbero bussare alle porte dell’Europa, degli Stati
Uniti, del Canada, dell’Australia. Sempre più spesso, cioè, questi paesi sono
disposti a pagare le nazioni dalle quali transitano migliaia di disperati per
bloccarli laggiù, anche a costo di calpestare i loro diritti fondamentali. Lo
abbiamo visto nel vicino Nord Africa dove, nonostante le rivoluzioni, le
condizioni per i migranti sono peggiori di prima. Allora, cosa andiamo a
celebrare: forse il mancato rispetto delle convenzioni internazionali? Gli
esempi sono sempre più numerosi. In Israele, terminale dei profughi che fuggono
attraverso il Sinai, viene negato il diritto di asilo a circa 60 mila profughi
eritrei e sudanesi. E ci sono stati di recente soprusi, arresti, aggressioni,
incendi in danno di migranti africani. Eppure il mondo tace. Nello Yemen i
profughi sono migliaia: vivono in condizioni di totale abbandono. Molti sono
rinchiusi in carcere come fossero criminali, senza cure mediche e privati di
ogni diritto, in una condizione degradante per la dignità umana. In Sudan
migliaia di rifugiati eritrei, somali, etiopi sono in balia dei trafficanti di
esseri umani che, talvolta con la collaborazione di poliziotti corrotti, ne
rapiscono a centinaia nei campi di raccolta per venderli a bande di predoni nel
deserto del Sinai, estorcere loro denaro o ucciderli per venderne gli organi
sul mercato clandestino dei trapianti. Da più di due anni denunciamo questo
traffico, questo crimine contro l’umanità nel Sinai. E abbiamo assistito a
continue tragedia nel Mediterraneo, con centinaia, migliaia di profughi morti in
mare mentre cercavano di raggiungere l’Europa per chiedere asilo. Più di 1500
vittime solo nel 2011: tantissime a causa dei mancati soccorsi. Allora, alla
luce di tutto questo, una giornata mondiale per i rifugiati ci deve far
riflettere, innanzi tutto, sul fatto che milioni di disperati sono messi in
condizione di pericolo proprio là dove speravano di poter trovare una
protezione”.
Che senso dare, o
meglio, che cosa “chiedere”, a questo punto, alla Giornata mondiale del
rifugiato? Don Zerai non ha dubbi: “Per dare valore concreto a questa
manifestazione, la comunità internazionale deve impegnarsi seriamente a
rimuovere tutti gli ostacoli, incluse le risorse finanziarie, che impediscono
di funzionare agli strumenti legislativi già esistenti per tutelare i diritti
dei profughi. E occorre impegnarsi a superare il forte senso di egoismo che
negli ultimi anni ha prodotto una serie di leggi restrittive che hanno messo in
pericolo molte vite umane e arricchito, in compenso, i trafficanti di uomini e
donne. Questa giornata, in definitiva, ci deve spingere tutti a chiedere più
rispetto per chi è costretto a lasciare la propria terra in cerca di asilo.
Basta respingimenti di massa in mare come in terra, dunque. Basta detenzione di
profughi criminalizzati senza alcuna colpa. Facciamo in modo che i rifugiati
non arrivino più non perché hanno trovato le porte chiuse, ma perché finalmente
possono vivere in pace nella loro terra”.
Ecco il punto, dunque. La “Giornata” avrà senso solo se, al di là delle
parole e delle promesse di sempre, i governi, le istituzioni, chi ha le leve
del potere, vorranno promuovere politiche concrete per affrontare questa
tragedia. E se nel cuore e nella testa della gente si farà strada la
convinzione che questa dei rifugiati è una priorità che ci tocca tutti da
vicino: che difendere i diritti di quei disperati equivale a combattere anche
le ingiustizie e le violenze che si manifestano nella nostra stessa società europea
ed “occidentale”. E’ una delle grandi
sfide del futuro per l’intero Occidente. Anzi, forse “la sfida” numero uno.
Perché probabilmente non si uscirà mai dalla crisi globale esplosa in questi
anni se non si riuscirà a individuare un sistema in cui i diritti di tutti
siano rispetti, nel Nord come nel Sud del mondo. Se, in una parola, non si comincerà
a guardare ai problemi con gli occhi degli ultimi.
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