Una legge che li considera ‘infiltrati’ e una popolazione ostile. E’ questa la situazione vissuta dai rifugiati africani in cerca di asilo politico in Israele.
Un’ostilità contro gli africani sfociata in proteste e addirittura in progetti criminali a Tel Aviv, uno degli scenari più caldi sul fronte dell’intolleranza. IRIN riporta il racconto di migranti nigeriani che si sono ritrovati bersaglio del lancio di molotov nel loro appartamento.
I migranti che arrivano in Israele (tra i quali anche tanti richiedenti asilo) passano dal confine egiziano e provengono soprattutto dai due Sudan e dall’Eritrea. Per pagare i beduini che gestiscono il traffico di esseri umani nel Sinai spendono da un minimo di 350 a vette di circa 7000 dollari. Lungo la traversata non sono rare le violenze perpetrate dai trafficanti, i quali arrivano anche a sequestrare i migranti chiedendo poi alle famiglie di pagare un riscatto, similmente a quanto accadeva (e accade) in Libia.
Da diverse fonti si sono potuti ricostruire molti aspetti dei viaggi della speranza che possono durare anche più di un mese e che partono da Juba, Khartoum e Asmara. La parte più spaventosa resta quella dell’attraversamento del confine. I trafficanti abbandonano i migranti al loro destino a circa un centinaio di metri dalla frontiera recintata con Israele: da quel momento i migranti diventano bersagli della polizia egiziana che persegue così, in modo brutale, la politica di sicurezza nazionale (è stata documentata l’uccisione in questo modo di almeno 33 migranti dal 2007). Per chi non se la sente, ad attenderlo alle sue spalle c’è la pistola degli stessi trafficanti che non permette ulteriori ripensamenti.
La differenza tra la vita e la morte sta in una corsa sfrenata attraverso le diverse serie di recinzioni che separano i migranti da Israele. I soldati dello Stato ebraico – è stato riportato dai migranti – non sparano ed anzi spesso hanno intimato agli egiziani di cessare il fuoco.
Ma la benevolenza di Israele sembra non andare oltre.
Come dichiarato dal premier Netanyahu, gli “infiltrati minacciano la sicurezza e l’identità dello Stato ebraico”. Questa è la preoccupazione che sta motivando la costruzione del muro al confine con l’Egitto, e il centro di detenzione più grande del mondo nel Negev, in grado di ospitare, si dice, fino a 10000 persone. Secondo un ufficiale della difesa israeliano intervistato a marzo da Haaretz, non si tratterebbe però di una prigione: “I rifugiati (n.d.r.) potranno camminare, hanno uno spazio di 4-5 metri nelle loro stanze. L’ambiente comune è molto grande”
Fatto sta che a gennaio di quest’anno la Knesset ha approvato un emendamento alla legge del 1954 in materia di immigrazione, dal nome emblematico Prevention of Infiltration Law, che autorizza la detenzione fino a tre anni di chiunque si trovi in Israele senza un permesso di soggiorno(che secondo il testo sono appunto gli ‘infiltrati’). Ciò potrebbe spiegare con quale fine si stia allestendo il grande centro del Negev.
Come sottolineato dal report del Feinstein International Centre, la protezione che Israele accorda ai richiedenti asilo si limita alla garanzia di non essere rimpatriati nei Paesi di provenienza, dove la loro incolumità sarebbe minacciata, ma non si declina in nessuna concessione di diritti né in un riconoscimento dello status di rifugiato politico. Quindi una condizione di sostanziale insicurezza e debolezza, unita ad una grande incertezza giuridica: diventa infatti difficile distinguere tra richiedenti asilo in fuga da situazioni di rischio e migranti in fuga dalla povertà.
Per il Primo Ministro israeliano, il 99% degli africani presenti nel Paese sarebbe rappresentato dai migranti in cerca di fortuna e dunque non rifugiati. Dati la cui veridicità è tutta da dimostrare e comunque non verificabile prima di aver accolto i migranti al confine. Un problema che con la terminazione del muro sarà ulteriormente aggirato. A scapito dei rifugiati, naturalmente.
Anche altri esponenti del governo stanno in questi giorni mostrando il pugno duro contro gli africani: è per esempio il caso del ministro degli Interni Eli Yishai, che ha affermato: “perché dovremmo dargli un lavoro? Ne ho abbastanza dei buonisti, inclusi i politici. Il lavoro permetterebbe loro di stabilirsi qui, avranno figli, e questa offerta non farebbe altro che attirarne altre centinaia di migliaia. Il sogno sionista sta morendo”.
Con la complicità del governo, i migranti stanno anche diventando oggetto di accuse per l’incremento della violenza e del senso di insicurezza, soprattutto in seguito ad un caso di stuproa Tel Aviv. La polizia dal canto suo fa invece sapere che il tasso di criminalità è in calo. Secondo Yohanan Danino, capo della polizia, ai migranti dovrebbe essere addirittura permesso di lavorare per scongiurare i rischi della criminalità, dato che ad oggi quasi tutti lavorano irregolarmente.
Nel suo annuale rapporto sui diritti umani, anche il Dipartimento degli Stati Uniti si è occupato della questione, concludendo che Israele nega i diritti umani dei migranti africani, non riconoscendone lo status di rifugiati e quindi privandoli dell’accesso a fondamentali servizi come l’assistenza sanitaria. Il report cita dei numeri significativi per rafforzare il suo caso: delle 4603 richieste d’asilo nel 2011, solo una è stata approvata, mentre 3692 sono state rifiutate e le altre rimangono in sospeso.
Sono circa 60000 i migranti arrivati in Israele negli ultimi anni, e molti di questi sono finiti nella periferia Sud di Tel Aviv, luogo delle recenti aggressioni. Qui vivono ammassati in piccole stanze o, se sono meno fortunati, dormono all’aperto. Ad esempio, sui prati del Levinsky Park.
In questa zona ogni giorno centinaia di migranti aspettano di essere reclutati per lavori che in genere durano pochi giorni e sono retribuiti al di sotto del minimo imposto dalla legge. Ma “ogni giorno, solo uno, due o quattro persone vengono prese” racconta uno di loro. E a partire dalle dieci e mezza di sera il parco si riempie di persone che dormono dove possono, compresi sotto scivoli e altri giochi per bambini.
Ora tra di loro serpeggia la paura: hanno ben stampato in testa il ricordo delle proteste dei giorni scorsi, quando gli israeliani marciavano in strada urlando “Blacks out”.
Di non poche delle tensioni che si stanno vivendo è incolpabile la politica: il Likud fa quadrato attorno al Premier Netanyahu nel denunciare la presenza degli africani come dannosa per l’identità di Israele, appoggiando pienamente le politiche in materia di immigrazione e l’emarginazione sociale.
I risultati di questo muro politico (e non solo) sono stati finora non a caso cori razzisti e bottiglie molotov.
Si diceva che per i rifugiati Israele conservasse la ‘policy of having no policy’. Ora invece sembra averne una: l’intolleranza.
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