di Emilio Drudi
“C’è un lager a
Burshada, in Libia, con la targa dell’Unione Europea e dell’Oim,
l’Organizzazione intergovernativa per l’emigrazione. Nell’indifferenza
generale. Del governo di Tripoli come delle cancellerie europee”. E’ l’ennesima
accusa di don Mussie Zerai, portavoce dell’agenzia Habeshia. Un’accusa pesante,
ma il sacerdote eritreo, da anni in prima linea per la difesa dei diritti dei
profughi e dei migranti, si dice pronto a confermarla di fronte a chiunque e in
qualsiasi sede, politica o giudiziaria che sia. Citando testimonianze,
segnalazioni e presentando una serie di foto impressionanti. La stessa
documentazione, con immagini altrettanto agghiaccianti, è disponibile per altri
due lager: Bursan e Sabha.
A Burshada, a circa
150 chilometri da Tripoli, c’è un folto gruppo di prigionieri di origine
eritrea: 54 giovani fuggiti dalle persecuzioni e dalle guerre del dittatore
Isaias Afewerki ma intercettati dai miliziani o dalla polizia poco dopo aver
varcato il confine libico, in pieno Sahara, mentre tentavano di puntare a nord,
verso la costa. Più a nord ci sono arrivati, ma in catene. Ora vivono ammassati
in un capannone sul quale – secondo quanto hanno raccontato in una serie di
telefonate fatte eludendo la sorveglianza dei militari di guardia – compaiono
le insegne della Comunità Europea e dell’Oim, la più importante istituzione internazionale
per i rifugiati che, fondata nel 1951, oggi conta 149 stati membri e 12
osservatori, con 460 uffici sparsi nel mondo e quasi 6.700 operatori.
“Quei disperati che
sono riusciti a contattarmi, esponendosi a rischi enormi di ritorsioni, a
pestaggi e anche peggio – racconta don Zerai – mi hanno segnalato che quasi
certamente si trovano in una struttura costruita con fondi europei. Altrimenti
non si spiegherebbero i cartelli affissi all’ingresso. E’ di tutta evidenza che
né la Commissione europea né l’Oim sono direttamente responsabili dei
maltrattamenti quotidiani che subiscono i detenuti. Anzi, certamente non ne
saranno neanche al corrente in modo diretto. Ma queste denunce dovrebbero far
aprire gli occhi: indurre cioè l’Unione Europea e l’Oim a rivedere la loro
politica di assistenza, pretendendo precise garanzie su come vengono investiti
i loro contributi alla Libia e su come sono gestiti i centri che portano le
loro insegne. Come, a quanto pare, anche Burshada”.
La situazione
descritta per telefono a Burshada, in effetti, è da girone dantesco. I 54
eritrei detenuti, tutti di fede cristiana, hanno raccontato a don Zerai di
essere costretti a vivere ammucchiati in uno spazio ristrettissimo, ogni giorno
alla mercé di miliziani ubriachi o drogati, che sparano all’impazzata o si
divertono a scagliare pietre nel mucchio, come a un tiro a segno. Un incubo
narrato anche da eloquenti fotografie “rubate” con un cellulare e fatte
arrivare clandestinamente ad Habeshia. “I contributi europei – denuncia don
Zerai – vengono forse impiegati per costruire lager dove torturare i
prigionieri? Se, come tutto sembra confermare, le denunce di questi 54 giovani
hanno un fondamento, c’è da chiedersi allora in che cosa consista e se si è
riflettuto davvero sul ‘valore’ della cooperazione tra l’Unione Europea e la
Libia per combattere l’emigrazione clandestina”.
Sono dubbi che
acquistano forza ancora maggiore alla luce dalle segnalazioni terribili che giungono
dal campo di Surman, sempre nel nord del paese, dove sono trattenute oltre
cento donne: 95 eritree, 10 etiopi e altre 10 originarie di vari paesi
dell’Africa Occidentale. Una decina sono in stato di gravidanza. Alcune
all’ottavo o addirittura al nono mese. Sono quelle che soffrono di più.
“Nessuna di loro – hanno riferito ad Habeshia – ha mai visto un medico da
quando sono in Libia. Non c’è assistenza né tanto meno controlli preventivi”.
C’è da credere che il parto avverrà nelle condizioni infernali del lager, dove
la situazione igienico-sanitaria è spaventosa e c’è un affollamento soffocante.
L’unico aiuto può venire dalle compagne. Sono tutte terrorizzate. Per sé e per
la sorte che attende i loro piccoli. Senza contare le detenute malate. Sempre
più numerose, visti i maltrattamenti e le condizioni di vita nel campo. Malate
anche gravi: di cuore, all’utero, di asma. E, tutte, “malate di lager”: tra
soprusi, percosse, sevizie, carenza di cibo e persino di acqua da bere, fanno
sempre più fatica a sopravvivere. Con queste giovani ormai allo stremo ci sono
anche una quindicina di bambini in tenerissima età: il più grande ha solo
cinque anni, il più piccolo appena sette mesi. Bambini ai quali viene rubata
giorno per giorno l’infanzia, costretti a vivere da prigionieri insieme alle loro
mamme.
Infine, Sabha, uno
dei campi più grandi della Libia, nella regione centro-meridionale. Secondo le
ultime segnalazioni, vi sono ammassati oltre 1.300 prigionieri, in spazi
ristrettissimi: una condizione del tutto analoga a quella illustrata dalle
immagini fatte uscire clandestinamente da Burshada. Torture, pestaggi, fame,
sete sono la vita quotidiana dietro le sbarre per uomini, donne e bambini. Nessuna
speranza che le cose possano migliorare. Non a breve, comunque: i poliziotti
sono i padroni assoluti del campo. Senza controlli.
“E’ come un tunnel
nero senza fine – protesta don Zerai – Se persone bisognose di protezione
internazionale sono tenute anche in un lager nel quale sono visibili le targhe
dell’Unione Europea e dell’Oim, organismi che dovrebbero rappresentare salvezza
e accoglienza, bisogna chiedersi chi deve tutelare i profughi e i rifugiati.
Allora non posso non lanciare due appelli all’Europa. Il primo, il più
immediato, è quello di rivedere i suoi rapporti con la Libia, per esigere il rispetto
dei diritti umani e porre fine alle sofferenze e alle discriminazioni a cui
sono sottoposti i migranti di religione cristiana e quelli di origine sub
sahariana. Va rivista subito, insomma, tutta la politica sul controllo
dell’emigrazione, a cominciare dai disastrosi patti bilaterali fra Tripoli e
diverse cancellerie europee. Inclusa, in particolare, l’Italia. Poi, una
richiesta di carattere più generale, per cercare di risolvere il problema alla
radice: vanno combattuti i motivi che spingono tanti uomini e donne dell’Africa
Orientale a lasciare la loro terra per cercare un futuro migliore, un posto
dove poter vivere liberi e in pace. Serve, per questo, una seria lotta contro
la fame e la carestia, le guerre e le dittature. L’Unione Europea ha la possibilità
e i mezzi per imboccare questa via rivoluzionaria. Manca la volontà politica.
Ma denunciare le alleanze e la collaborazione con certi regimi, oggi
giustificate da interessi economici, è l’unica via per non diventare complici
di crimini fatti di maltrattamenti inumani, di carceri dove i detenuti vengono massacrati di botte e
uccisi, di traffici di schiavi gestiti spesso da uomini in divisa, oltre che da
predoni fuori legge”.
Il 20 giugno si
celebra la Giornata Mondiale dei rifugiati. Alla luce delle denunce che, al
pari di questa, da anni continuano ad arrivare da parte dell’agenzia Habeshia ma
anche di numerose altre organizzazioni per i diritti umani e l’assistenza ai
profughi – come Everyone, Human Rights Watch, la Commissione per gli emigrati
eritrei in Gran Bretagna, l’israeliana Hotline for Migrant Workers, Physicians
for Human Rights Israel, il Movimento eritreo per la democrazia, l’America Team
per gli sfollati eritrei – si pone l’esigenza di dare una svolta a questo
appuntamento annuale di riflessione e solidarietà. Don Zerai non nasconde la
sua amarezza: “Complice la crisi economica, ma anche sociale e morale, si
registra un forte regresso dei diritti umani in tutta l’Europa, dove avanzano
sempre di più le politiche meno propense all’accoglienza e tendenti alla
chiusura più egoistica, per tutelare i privilegi di pochi. In certi casi si
sono fatte scelte apertamente xenofobe. Si respira un forte senso di
insicurezza, spesso diffusa ad arte amplificando a dismisura le notizie di
cronaca che vedono coinvolti gli extracomunitari e inventando addirittura un
reato inesistente come quello di ‘clandestinità’. Quasi sempre per un
tornaconto elettorale. Ora anche la Svizzera, tradizionalmente più aperta
all’emigrazione, si appresta a celebrare un referendum chiesto da chi vuole
modificare le leggi sul diritto di asilo, con l’obiettivo di chiudere le porte
in faccia a migliaia di profughi. L’Europa nel suo insieme preferisce
finanziare paesi come la Libia, consegnando alle carceri di Tripoli migliaia di
disperati in fuga da Eritrea, Somalia, Etiopia, Sudan. La Giornata dei
rifugiati può diventare l’occasione per un segnale diverso: per chiedere tutti
insieme di invertire la rotta all’Unione Europea e ai governi dei vari Stati
membri. Non c’è nulla da celebrare. Piuttosto da protestare e denunciare. Se
non sarà così, questo appuntamento resterà un involucro vuoto. Che non avrà
senso replicare. E che rischia anzi di diventare un alibi”.
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