di Emilio Drudi
“Sono disposto ad
accettare un trasferimento da Israele soltanto se coordinato con l’Alto
Commissariato dell’Onu per i rifugiati e la comunità internazionale. Ma ho
sentito che ci vogliono gettare in un paese terzo dove le nostre vite non
sarebbero al sicuro. Si parla di Uganda, Nigeria o Kenya. Sono tutti posti non
sicuri per noi: da lì possono deportarci in Eritrea”: Gabriel, originario di
Asmara, 31 anni, a Tel Aviv da sei, ha espresso al quotidiano Haaretz tutta la
preoccupazione di migliaia di giovani profughi come lui di fronte ai nuovi
provvedimenti del governo Netanyahu. Nei confronti di rifugiati e migranti si
profila infatti una espulsione di massa. Anzi, la stampa progressista come
Haaretz, parla di vera e propria deportazione.
E’ un’angoscia che
investe oltre 60 mila uomini e donne, quasi tutti giovani, talvolta famiglie
intere con i bambini. La metà sono sudanesi. Poi, quasi 20 mila eritrei. Tra
gli altri gruppi prevalgono gli etiopi e i somali. Disperati fuggiti da guerre,
persecuzioni politiche, discriminazioni, fame e carestia. Sono arrivati quasi
tutti attraverso il deserto del Sinai, sfidando le fucilate della polizia di
frontiera egiziana e i controlli dell’esercito israeliano. O i trafficanti di
schiavi che danno la caccia a fuggiaschi come loro, li catturano e chiedono per
liberarli un riscatto che arriva fino a 40 mila dollari a testa: chi non riesce
a pagare rischia di essere venduto sul mercato degli organi per i trapianti
clandestini oppure, le ragazze, nel giro della prostituzione. E’ un massacro
che conta ormai centinaia, migliaia di vittime. Nell’indifferenza della
comunità internazionale. Ma anche per i più fortunati, quelli che sono riusciti
a raggiungerlo, Israele non si è rivelato la “terra promessa” che speravano.
Superato il confine,
ai richiedenti asilo è concesso un visto provvisorio, in genere di tre mesi, e viene
assicurato un alloggio. Non hanno diritto, però, ad altre forme di assistenza o
possibilità di lavoro. Sono concentrati soprattutto nella periferia di Tel Aviv
ma ce ne sono numerosi anche a Elat, Gerusalemme e altre due piccole città,
Hadera e Gadera, scelte dal governo quando si è ritenuto che a Tel Aviv ce ne
fossero troppi. La loro vita non è facile. Non lo è mai stata. Abitano in
piccole case prese in affitto. Sei, otto, persino dieci per stanza. E si
arrangiano come possono, sfruttati spesso come braccia in nero a buon mercato
per l’edilizia, l’agricoltura, servizi di manovalanza. Senza tutele, senza la
possibilità di protestare e guardati in genere con sospetto e ostilità. Non
sono mancati, anzi, episodi di grave intolleranza. Giusto un anno fa,
all’inizio di giugno 2012, a Gerusalemme sono state lanciate bottiglie molotov
contro una casa che ospitava una decine di eritrei: quattro sono finiti in
ospedale per le ustioni o intossicati dal fumo. Il movente di questa autentica
spedizione punitiva è emerso senza possibilità di dubbi dalle scritte tracciate
sul muro dell’edificio: “Andatevene via…”. Attacchi analoghi, come segnala un
servizio giornalistico del Post, si erano registrati nelle settimane precedenti
a Tel Aviv, sempre contro abitazioni, negozi e persino un asilo frequentato da
bambini africani.
Chi non ha il visto
valido rischia di finire nel centro di detenzione di Saharonim, nel Negev, dove
vengono portati anche tutti i migranti irregolari sorpresi al confine dai
militari. Una linea dura che nell’ultimo anno il governo ha deciso di inasprire
ancora di più, sostenendo che “gli infiltrati illegali” minacciano “l’identità
nazionale israeliana”. Il 3 giugno 2012 è entrata in vigore una legge che
consente di chiudere in campi di internamento per un periodo fino a 3 anni,
senza processo, gli immigrati non in regola. Anzi, può essere condannato a
pesanti pene detentive – come riferisce Dana Weiler-Polak in un servizio su
Haaretz – anche chi “aiuti i migranti o fornisca loro un rifugio”. E’ stata
completata, inoltre, la costruzione di una barriera di filo spinato che segue
il confine con l’Egitto nel deserto del Sinai per centinaia di chilometri. Il
fine dichiarato è il controllo della frontiera contro eventuali incursioni di
terroristi ma il primo vero risultato concreto è in realtà la realizzazione di
un ostacolo insuperabile per i profughi in fuga dal Sudan e dal Corno d’Africa.
Per giustificare
questo genere di provvedimenti si insiste sempre sul fatto che si tratta di
“irregolari”. Infiltrati. Ma è fin troppo evidente che chiunque sia costretto a
fuggire per le persecuzioni e le discriminazioni subite nel proprio paese, non
può che essere un emigrato “irregolare”: arriva al confine come clandestino
proprio perché è un perseguitato alla ricerca disperata di aiuto e assistenza.
Come prevedono gli accordi internazionali. Solo che Israele, nonostante sia
stato tra i primi a firmare la convenzione di Ginevra del 1951 sui diritti dei profughi,
si mostra sempre meno disposto a concedere a questi disperati lo status di
rifugiati. In particolare ai sudanesi del nuovo stato del Sud Sudan, istituito
nel 2011 con capitale Giuba, con il pretesto che ormai, dopo la separazione da
Khartoum, non avrebbero più motivo di fuggire. La stessa sorte tocca tuttavia
ai sudanesi del nord e agli eritrei. Ne è nato un vasto programma di espulsione
che, ormai fortemente ridotto il flusso di nuovi migranti dopo la costruzione
della barriera sul confine egiziano, riguarda essenzialmente i 60 mila immigrati
già residenti nelle città israeliane, magari da anni.
Non mancano le
proteste, soprattutto da parte delle organizzazioni umanitarie, come Hotline
for Migrants Workers o l’agenzia Habeshia, alle quali la stampa progressista ha
dedicato ampio rilievo. Il governo, però, insiste sulla linea dura. Non a caso
il campo di Saharonim, che poteva ospitare fino a 2.000 prigionieri, è stato
quasi triplicato: la capienza è ora di oltre 5.400 posti ma se sarà necessario
si prevede di ingrandirlo ulteriormente. Ed è eloquente quanto ha dichiarato
mesi fa al quotidiano Maariv l’attuale ministro degli esteri Eli Yishai, allora
titolare del dicastero degli interni: “Useremo tutti gli strumenti per
espellere tutti gli stranieri, fino a quando non rimarrà alcun infiltrato”.
L’unico serio ostacolo per questa politica era che è difficile espellere questi
disperati verso i paesi d’origine, sconvolti da guerre e dittature e dove li
aspettano il carcere o addirittura la morte. Dove ci sono ancora, cioè, le
condizioni che li hanno costretti a scappare. Adesso si è trovato il modo di
aggirare anche questo problema: è di questi giorni la notizia che si stanno
stipulando accordi con un paese terzo nel quale trasferire i profughi.
Non è noto di quale
paese si tratti. La rivista Rinascita online scrive che sarebbe una nazione
africana la quale – secondo quanto riferito dalla radio dell’esercito
israeliano – condividerebbe “interessi comuni” con Tel Aviv. La notizia, in
ogni caso, è stata riportata con grande rilievo dalla stampa progressista
israeliana, a cominciare dal quotidiano Haaretz. Quattro le ipotesi avanzate:
Uganda, Etiopia, Kenya e Sud Sudan. Giornali e organizzazioni umanitarie hanno
subito sollevato forti dubbi sulla legittimità del provvedimento. Tuttavia la
Corte Suprema di Gerusalemme, informata dall’avvocato del governo Yochi Gnesin,
non ha fatto obiezioni di alcun tipo. E il piano starebbe ormai per scattare.
Un piano, anzi, “una società di deportazione”, ha commentato Haaretz in un
servizio ripreso da Rinascita, aggiungendo che questo nuovo provvedimento,
rivolto in particolare contro sudanesi ed eritrei, riflette “il disprezzo del
governo Netanyahu” nei confronti dei neri africani, spesso richiedenti asilo.
“Invece di far fronte alle loro difficoltà – scrive il giornale di Tel Aviv – si
preferisce espellerli”. “La nuova misura – aggiunge Rinascita – ha destato la
preoccupazione della comunità africana presente nel paese. Interpellati da
Haaretz, gli immigrati hanno detto di temere di essere deportati contro la loro
volontà e senza alcuna garanzia sul rispetto dei loro diritti. Per scongiurare
tale ipotesi hanno quindi chiesto alle autorità israeliane di accogliere le
loro istanze di asilo, riconoscendone lo status di rifugiati, prima di
procedere a qualsiasi trasferimento”. Seguono le dichiarazioni di numerosi
migranti: “Se non proteggono i miei diritti in Israele – protesta ad esempio
Bob, 27 anni, arrivato dall’Eritrea nel 2009 – come faccio a sapere che li
difenderanno in un altro paese? Dobbiamo sapere qual è il paese. E come
trattano lì i rifugiati…”.
Secondo le organizzazioni
umanitarie, non c’è dubbio che, nonostante l’accordo sancito dalla Corte
Suprema, questo provvedimento viola la convenzione di Ginevra del 1951 e i
diritti stessi dell’uomo. Un tentativo di giustificazione, da parte del governo
israeliano, potrebbe essere che le Nazioni Unite, riconoscendo che quello dei
profughi è un problema di portata sovranazionale, prevedono di ripartirne gli
oneri attraverso la cooperazione internazionale. Ad esempio, un paese che
confina con un altro in stato di guerra, non può essere lasciato da solo a far
fronte al prevedibile, enorme flusso di sfollati. Gli oneri dell’assistenza
vanno divisi. “La scelta di Israele non rientra in questo contesto – rileva
Habeshia – Appare piuttosto lo scaricabarile di un paese ricco verso uno
povero. Per di più, non si ha nessuna garanzia che il paese dove ricollocare i
rifugiati ne proteggerà davvero i diritti. E’ un timore che riguarda, in varia
misura, tutti e quattro gli stati indicati dalle indiscrezioni di questi
giorni. Ecco perché quella in programma più che un trasferimento sembra una
deportazione. Con un rischio enorme, in particolare, per gli eritrei che, se
riconsegnati in qualche modo alla dittatura di Isaias Afewerki, sono destinati
come minimo al carcere”.
C’è chi ricorda come
proprio per questa terribile situazione ogni anno oltre il 70 per cento dei
richiedenti asilo eritrei in tutto il mondo ottenga il riconoscimento di
rifugiato che comporta, si legge nella convenzione dell’Onu, “la protezione
contro il respingimento” e garantisce, oltre che al rifugiato stesso anche alla
sua famiglia, “accesso ai diritti civili, politici, economici, sociali uguali a
quelli di cui godono i cittadini dello Stato ricevente”, con la possibilità “di
diventarne alla fine un cittadino naturalizzato”. Tutto questo – è la
conclusione – non si verifica in Israele ed è lecito dubitare che possa
accadere nel paese dove Tel Aviv intende trasferire i profughi africani.
Haaretz cita non a caso le centinaia di emigranti espulsi nel recente passato
dalle carceri israeliane nelle quali erano detenuti. “Dove sono oggi?”, si
interroga il quotidiano progressista. Non c’è risposta: nessuno sembra sapere
in pratica che fine abbiano fatto.
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