venerdì 13 settembre 2013

Accoglienza vera e non elemosina per i profughi: la riforma parte dal Lazio?


di Emilio Drudi

E’ fuggito dall'Eritrea per sottrarsi alle persecuzioni della dittatura militare di Isaias Afewerki. Ci ha messo mesi, quasi un anno, per arrivare in Italia: un’odissea attraverso l’Etiopia, il Sudan, la Libia, il Mediterraneo, fino a Lampedusa. Sempre col rischio di essere bloccato, imprigionato, ricattato, venduto ai trafficanti di uomini. Da qualche settimana è ospite del centro di prima accoglienza di Pozzallo, nella Sicilia sud orientale. In attesa che la sua richiesta di asilo venga esaminata. Ma la sofferenza non è finita.  Il campo, attrezzato per 130 profughi, ne ospita in realtà più di 400. La maggior parte dormono su vecchi materassi gettati per terra in un capannone. Non c’è una mensa attrezzata: si mangia dove capita, accovacciati su se stessi. I servizi igienici sono quelli che sono. L’assistenza sanitaria è affidata a un solo medico. Insufficienti gli interpreti e i mediatori culturali. Lui si chiama Mohammed, ma nessuno lo conosce per nome. Nel campo il nome non conta. Conta  solo la sigla incisa sul braccialetto di plastica che ogni ospite è costretto a portare per entrare e uscire, per il cibo, per usufruire dei servizi. Così ora Mohammed è diventato “K68”.
La sua storia è stata raccontata da Flore Murard Yovanovitch in un servizio sul campo di Pozzallo pubblicato dall'Unità. Sono storie come questa che hanno indotto papa Francesco a rilanciare il problema della politica di accoglienza nei confronti dei profughi. Lo aveva già sollevato all’inizio di luglio, con il viaggio a Lampedusa, non a caso il primo del suo pontificato. In quella piccola isola sperduta nel Mediterraneo, la porta d’Europa per chi fugge dall'Africa, il pontefice ha voluto dare consistenza alla esortazione ad “andare verso le periferie” fatta al momento del suo insediamento, sollecitando l’Italia, l’Unione Europea, tutto il Nord del mondo ad assumere un atteggiamento più aperto verso i rifugiati e, ancora di più, a cambiare la propria politica nel Sud del mondo, mettendo fine alle ingerenze e allo sfruttamento sotterraneo che sono quasi sempre alla base di quelle situazioni drammatiche che costringono migliaia di giovani ad abbandonare il proprio paese. Ora, a poco più di due mesi di distanza, ha riproposto il problema visitando, nel cuore di a Roma, il centro di assistenza Astalli, al quale fanno capo ogni giorno centinaia di profughi, in prevalenza africani.
Il messaggio è stato esplicito: occorre cambiare il modo stesso di accogliere e aiutare questa gente. In questa sua battaglia, papa Francesco non ha esitato a chiamare in causa la stessa Chiesa, sottolineando che non ha senso tenere conventi e case religiose chiusi o semivuoti o, peggio, imbastirci una speculazione: vanno riempiti di disperati che non sanno come e dove vivere nell'attesa di riuscire ad integrarsi nel paese che li ha accolti. E’stato un monito forte nella sostanza e nella forma: “I conventi vuoti – queste le parole esatte – non servono ad aprire alberghi e fare soldi. Sono per la carne di Cristo, sono per i profughi”. Il centro Astalli è una delle strutture di assistenza più efficienti e dignitose. Ma in Italia, a Roma in particolare, la situazione è drammatica. Con casi che hanno richiamato spesso l’attenzione anche della stampa internazionale, oltre che della Commissione europea per i diritti umani: il campo spontaneo di baracche a Ponte Mammolo, sull'argine dell’Aniene, ad esempio, o l’enorme palazzo abbandonato alla Romanina, diventato l’alloggio di fortuna per migliaia di rifugiati, un ghetto di “non persone”.
Due i problemi che emergono. Il primo è la riorganizzazione di tutta la rete di assistenza più immediata, specie nelle situazioni di emergenza come quella che si sta profilando con la guerra in Siria e le tensioni crescenti in tutto il Corno d’Africa e nell’Africa sub sahariana. L’altro è la necessità di cambiare radicalmente la politica di accoglienza in Italia. Ha colto subito questo aspetto don Mussie Zerai, portavoce dell’agenzia Habeshia. “Oggi in Italia – ha dichiarato – il 90 per cento dei richiedenti asilo e rifugiati sono costretti a vivere in uno stato di indigenza totale. Spesso in un degrado offensivo della loro dignità umana. Le visite di papa Francesco prima a Lampedusa e poi nel centro Astalli richiamano tutti alla necessità di fare il proprio dovere. In primis lo Stato italiano, che deve garantire un’accoglienza dignitosa. Il centro Astalli è un luogo dove si fa ‘elemosina’: persone abbandonate dalle istituzioni italiane vanno lì per chiedere da mangiare. Non hanno altre alternative. Visitandolo, il pontefice ha sottolineato che non bisogna limitarsi a questo. L’elemosina non basta e non risolve i problemi. Il centro Astalli, in realtà, fa molto di più, ma quello che fanno questi enti di beneficenza è una supplenza a uno Stato latitante da anni. Uno Stato che non fa quello che gli spetta, mostra inefficienza anche nel poco che fa, non sa gestire i fondi disponibili”.
Dall'Europa, in effetti, arrivano contributi cospicui per l’accoglienza dei profughi. Secondo fonti del ministero degli interni, tra il 2010 e il 2012 sono stati assegnati all'Italia oltre 22 milioni di euro per la gestione “ordinaria” del problema e, nel solo biennio 2011-2012, altri 16 milioni per far fronte all'emergenza legata alle crisi esplose in Africa: rivolte arabe, guerra in Libia, secessione tuareg e colpo di stato in Mali, ecc. In tutto, dunque, quasi 40 milioni. “Il fatto è – contesta don Zerai – che, a fronte di queste risorse, manca in realtà una strategia di lungo termine. E’ certamente un bene aprire i conventi vuoti ai profughi come ha chiesto il santo padre. Ma resta pur sempre un gesto di ‘elemosina’, che può servire al massimo per far fronte a un’emergenza. L’accoglienza è un’altra cosa. Quello che serve davvero in Italia sono la volontà e la capacità di uscire dalla mentalità di gestione emergenziale dell’accoglienza, che va avanti ormai da almeno 30 anni. L’Italia deve assumersi le sue responsabilità, come fanno altri Stati europei, usando i fondi disponibili in modo rigoroso e rispettoso della dignità e dei bisogni delle persone. In nessun paese del Nord Europa, ad esempio, si vedono le file di gente in attesa di un piatto di pasta che il pontefice ha visto visitando il centro Astalli. La dignità di questi uomini e queste donne è violata. Uno Stato che rispetta le persone non le abbandona al punto di costringerle a mettersi in fila per un piatto di pasta. Ecco perché papa Francesco ha detto che non basta dare il panino: occorre varare progetti di inclusione sociale, culturale, economica delle persone accolte. Fare in modo, cioè, che i rifugiati possano al più presto possibile camminare con le proprie gambe e costruirsi un nuovo domani”.
C’è da chiedersi come siano stati impiegati finora in Italia i fondi europei. La sensazione diffusa è che questi finanziamenti siano serviti più alle organizzazioni di assistenza che ai migranti. Talvolta con autentici scandali, seguiti da inchieste della magistratura sulle presunte cooperative alle quali erano stati affidati dalle istituzioni centinaia di richiedenti asilo. Don Zerai non usa mezze parole: “Lo Stato italiano non può continuare a distribuire a pioggia, spesso con criteri clientelari o comunque poco chiari, i fondi per l’accoglienza, ignorando i bisogni reali dei rifugiati e magari criminalizzando i disperati che arrivano in cerca di aiuto e le persone che si battono per aiutarli con un sistema diverso, fuori dal controllo di certi circuiti e dagli agganci con certi poteri”.
E’ convinto della necessità di cambiare l’intero sistema dell’accoglienza e di far luce sulla situazione attuale dei profughi, almeno nel Lazio, pure il consigliere regionale del Pd Enrico Forte, eletto nella circoscrizione di Latina, da sempre terra di migranti. Anche alla luce delle ripetute denunce di don Zerai e, ora, degli appelli del pontefice, Forte ha sollevato come primo punto la necessità di fare al più presto un censimento delle strutture e delle organizzazioni che si occupano del problema a Roma come nelle altre province. Ha proposto, inoltre, di effettuare una serie di ispezioni consiliari in tutte le realtà che ospitano i profughi: quelle ufficiali, come i centri di assistenza per i richiedenti asilo, ma anche quelle “spontanee”. Anzi, in particolare in quelle “spontanee”, proprio perché nella maggioranza dei casi i profughi, dopo aver ottenuto lo status di rifugiato, sono abbandonati a se stessi: senza alloggio, senza possibilità di lavoro, senza alcun tipo di assistenza, di fatto senza diritti, sono condannati a diventare gli “invisibili” che popolano le baraccopoli come quella di Ponte Mammolo o i “formicai” come il palazzo della Romanina. “La mia proposta – afferma Forte – sarà presentata al più presto sia alla Giunta che al Consiglio. Direi di partire dal censimento delle strutture ufficiali e dall'ispezione nei campi spontanei per avere un quadro esatto della situazione reale nel Lazio. Su questa base credo che vada poi impostata una nuova strategia. Sono convinto che vadano radicalmente cambiati sia i criteri per gestire l’emergenza sia, soprattutto, la politica generale dell’accoglienza. Ha ragione don Zerai. L’Italia deve porsi come modello quanto già è stato realizzato nell'Europa del nord o in Svizzera. In queste realtà lo Stato o comunque le istituzioni pubbliche promuovono una politica di inserimento aiutando i rifugiati a trovare casa, lavoro, assistenza, scuole e percorsi didattici. Poi, iniziato il processo di integrazione, quando l’assistito comincia ad avere un proprio reddito, è tenuto a restituire gradualmente almeno una parte delle spese sostenute a suo favore. Il denaro così recuperato viene ovviamente reinvestito per aiutare altri rifugiati. Si crea in tal modo un circuito virtuoso che quasi si autofinanzia. Questa è la strada da seguire”.

Se la proposta verrà accolta, le ispezioni negli insediamenti spontanei dovrebbero iniziare già nella prima metà del prossimo mese di ottobre.

mercoledì 11 settembre 2013

Il Papa: Fare Accoglienza non Elemosina.



Oggi in Italia il 90% dei richiedenti asilo e rifugiati sono costretti a vivere in condizione di totale indigenza, in certi casi nel degrado anche per la loro dignità umana.
 La visita del Santo Padre Francesco, prima a Lampedusa poi nel Centro Astalli, richiama tutti al senso di responsabilità e fare il proprio dovere. In primis lo stato italiano che ha il dovere di garantire una accoglienza dignitosa. Il Papa visitando il Centro Astalli, ha visitato un luogo dove si fa "l’elemosina", persone che sono state abbandonate dallo stato italiano vengono a chiedere un piatto di pasta. Ha fatto bene il Santo Padre a dire non bisogna fermarsi o limitarsi a fare l’elemosina, in effetti il Centro Astalli fa molto altro oltre che dare il pasto ogni giorno, ma quello che fanno questi enti di beneficenza, è una supplenza ad uno stato latente da molti anni, che non fa il suo dovere, che non sa gestire i fondi e totale inefficienza in quel poco che fa.
Aprire conventi vuoti all'accoglienza dei profughi e rifugiati che il Santo Padre ha chiesto, è un bene !, ma resta sempre un gesto di “elemosina” che la chiesa fa di fronte all'emergenza, di fronte ad uno stato che abbandona le persone. L’accoglienza non è cedere posti vuoti o strutture che non ci servono più, l’accoglienza è fare spazio all'altro nel mio spazio, cosi che la persona possa vivere in modo dignitoso quanto me. Per casi di emergenza vanno bene anche i conventi, ma quello che ce bisogno in Italia, è quello di uscire da una mentalità di gestione emergenziale dell’accoglienza che ormai va avanti da 30 anni.
Lo stato Italiano deve assumersi le sue responsabilità, come fanno gli altri stati europei, usando i fondi per l’accoglienza e integrazione in modo rigoroso, efficiente e rispettoso della dignità e bisogni delle Persone che beneficiano del servizio. In nessun paese del nord Europa si vedrebbe la fila di gente per un piatto di pasta che il Papa ha visto visitando il centro Astalli. La dignità di questi uomini e donne non è rispettata, anzi è violata. Uno stato che rispetta i diritti e la dignità delle persone, non gli abbandona al punto di spingerli a fare la fila per un piatto di pasta. Ecco perché il Papa ha detto non basta dare il panino, bisogna che sia accompagnato con progetto di inclusione sociale, culturale, economico della Persone che viene accolta. Cosi che la Persone dopo il periodo di ambientazione che possa camminare con le proprie gambe, che possa progettare un futuro con più serenità.

Bisogna che lo stato italiano abbandoni la visione che ha guidato fino ad ora la politica su questo tema, che ha portato fino alla criminalizzazione delle persone che arrivano a chiedere asilo e a chi gli accoglie. Bisogna che lo stato non distribuisca fondi per l’accoglienza e integrazione in modo clientelare, per ottenere voti o creare occupazione in determinate zone depresse del paese, ignorando i bisogni dei richiedenti asilo e rifugiati. Il Papa chiama alla responsabilità, speriamo che lo stato italiano risponda con responsabilità e azioni concrete di Accoglienza dignitosa, progetti per l'inclusione sociale, culturale ed economico per le Persone accolte come rifugiati.
don Mussie Zerai 

“Nuovi respingimenti in mare: l’Italia impone a una nave turca di riportare in Libia 100 profughi”

di Emilio Drudi

Non è isolata la vicenda della nave greco-liberiana che, all’inizio di agosto, ha fatto rotta su Malta, disobbedendo all’ordine, impartito dalla Guardia Costiera siciliana, di riportare in Libia i circa cento profughi soccorsi in mare che aveva a bordo. Un episodio analogo sarebbe accaduto qualche giorno prima con una nave turca. Solo che, in questo caso, il comandante pare abbia applicato alla lettera le disposizioni ricevute da una unità militare italiana, riconsegnando a Tripoli i disperati raccolti in acque internazionali. Lo ha denunciato don Mussie Zerai, portavoce dell’agenzia Habeshia, all’Alto Commissariato dell’Onu per i rifugiati, sollecitando un’inchiesta. Alla segnalazione sono allegate alcune testimonianze registrate, le indicazioni dei centri di detenzione dove sono stati rinchiusi tutti i prigionieri appena sbarcati e persino due recapiti telefonici per contattare i giovani che hanno trovato il coraggio di raccontare e sono disposti ora a ribadire di fronte ai commissari delle Nazioni Unite quanto hanno riferito.
Se, come tutto sembra lasciar credere, la ricostruzione fatta nella denuncia troverà riscontro, sarà la conferma che, di fatto, l’Italia sta adottando in segreto una durissima politica di respingimenti indiscriminati in mare nei confronti dei migranti, senza curarsi minimamente di verificare se quei disperati hanno i requisiti per essere accolti come rifugiati e perseguitati per ragioni politiche o religiose. Anzi, c’è da sospettare che, peggio ancora, questa scelta tenda proprio ad impedire ogni tipo di verifica, visto che mediamente oltre il 90 per cento degli uomini e delle donne che rischiano la vita sfidando la traversata del Mediterraneo su vecchie carrette, hanno il diritto di venire aiutati e accettati, in base alle convenzioni internazionali sui profughi e alla nostra stessa Costituzione.
Il primo episodio risale al 6 agosto. E’ venuto alla luce perché le autorità maltesi hanno impedito al capitano della nave greco-liberiana di sbarcare i naufraghi di un gommone alla deriva che aveva soccorso. I giornali italiani si sono coperti di titoli indignati: “Malta respinge i migranti in mare”. Sottolineando che a Lampedusa, invece, c’era un flusso continuo di soccorsi e di sbarchi. Poi è emerso, però, che a quella nave l’Italia aveva imposto di far rotta verso la Libia. E’ arrivata a La Valletta solo perché il capitano si è rifiutato di eseguire la disposizione ricevuta, facendo notare che le norme internazionali dispongono di condurre i naufraghi verso il porto “sicuro” più vicino sicché, trattandosi di profughi fuggiti dalla Libia, nessun porto libico poteva considerarsi davvero sicuro. Mentre le autorità maltesi, esibendo il cablo inviato dalla Guardia Costiera siciliana, hanno potuto eccepire che, essendo l’Italia il primo paese ad aver ricevuto la richiesta di aiuto, spettava a Roma farsi carico del problema: o accogliendo i profughi in uno dei suoi porti, oppure confermando l’ordine già dato di riportarli in Africa.
Si è creata una situazione di stallo di due o tre giorni, con la nave ferma in rada, finché il premier Enrico Letta ha dato il via libera allo sbarco in Sicilia dell’intero gruppo di naufraghi, come richiedenti asilo. Il tutto in un clima di buonismo ed esaltazione dello “spirito umanitario italiano” contrapposto alla fredda, burocratica applicazione letterale delle norme adottata da Malta. Dimenticando che accogliere quella gente era un dovere preciso del nostro governo e, oltre tutto, che dall’inizio del 2013 alla prima metà di agosto, in tema di accoglienza dei profughi, Malta ha fatto in proporzione molto più dell’Italia. In poco più di sette mesi, sono sbarcati sull’isola oltre 1.200 migranti. In Italia 12 mila circa. Apparentemente, da parte italiana, uno sforzo dieci volte maggiore. In realtà è esattamente il contrario. Malta è una piccola isola con appena 512 mila abitanti. Se si tiene conto del rapporto tra la popolazione e per certi versi, di conseguenza, la “capacità di assorbimento, è come se l’Italia, infinitamente più grande e con 60 milioni di abitanti, avesse accolto nello stesso periodo 140 mila rifugiati. Non sembra esserci nulla di cui vantarsi, insomma, per il nulla osta dato da Letta alla nave greco-liberiana. Per di più ora sta emergendo il caso della nave turca denunciato da don Zerai alle Nazioni Unite. Sarebbe accaduto verso la fine di luglio.
Questi i fatti, secondo la testimonianza di alcuni dei migranti. Partiti dalle spiagge libiche su un barcone, erano più di cento. Il solito, doloroso carico di umanità in fuga, stipata su una carretta che teneva a stento il mare: uomini, parecchie donne, qualche bambino. Il motore ha piantato la barca in piena traversata. Mentre andavano alla deriva, la prima a intercettarli e a soccorrerli è stata una unità italiana. “Era una nave militare, una grande nave, sicuramente italiana – ha raccontato Samuel, uno dei testimoni, a don Zerai – Ha calato in mare una scialuppa sulla quale sono saliti tre uomini, che ci hanno raggiunto. Quando sono stati vicini, ci hanno lanciato delle cime, rimorchiandoci fino alla nave, alla quale è stata assicurata la nostra imbarcazione, ormai ingovernabile. Ci sono stati dati acqua e cibo, ma non ci hanno consentito di salire a bordo. Siamo rimasi lì per un po’, fermi in mezzo al Mediterraneo, finché è arrivata un’altra nave. Una nave commerciale turca. Non so se sia giunta per caso o se, come è forse più probabile, sia stata chiamata dal comandante italiano. Sta di fatto che ci hanno consegnato all’equipaggio di quella nave. Noi siamo saliti in coperta senza timore. Pensavamo che fosse la salvezza. Tutti ci assicuravano che saremmo stati accompagnati in Italia, così nessuno ha fatto resistenza. Anzi, eravamo felici, convinti di avercela fatta. Poi le due navi si sono separate, prendendo rotte diverse. Ci siamo resi conto di essere stati ingannati solo quando si è profilata la costa africana. A quel punto non c’era scampo. Ci hanno consegnato alla polizia libica: siamo stati arrestati e accompagnati in un centro di detenzione. Soltanto uno di noi ha tentato di sottrarsi alla cattura. E’ riuscito in qualche modo a restare a bordo, nascondendosi in un anfratto. Poi, quando il cargo è ripartito, lasciando le acque libiche, ha sperato di essere sbarcato da qualche parte in Europa. Appena lo hanno scoperto, invece, è stato bloccato e trattenuto fino a che è arrivato un elicottero per condurlo a Tripoli”.
Samuel ha raccontato tutto questo a don Zerai per telefono, eludendo la sorveglianza dei militari libici. Ha fatto anche il “censimento” preciso del gruppo: 102 persone, in massima parte eritrei come lui. Le donne, in tutto 17, di cui alcune in stato di gravidanza e altre con bambini piccoli, sono state rinchiuse nel campo di Garabuli, a circa 30 minuti di strada da Tripoli. Gli uomini, un’ottantina circa, in un centro di detenzione più distante, ma sempre nella zona di Tripoli. Il resoconto di Samuel è stato sostanzialmente confermato da un paio delle ragazze, con in più vari particolari su Garabuli. Le condizioni di vita in questo campo sono molto dure. Attivo dal 2009 e amministrato dal ministero dell’interno, ospita attualmente 120 donne e 25 bambini. Non ha quasi nulla del centro di detenzione quanto a servizi, strutture, assistenza, trattamento. “Buona parte delle prigioniere – denuncia don Zerai – sono costrette a dormire all’aperto, perché nelle tende e negli alloggiamenti non c’è posto. Il cibo è quello che è, scarso e di cattiva qualità. Poca anche l’acqua. Molte donne e molti bambini stanno male, ma non c’è chi si prenda cura di loro: possono contare quasi solo sull’aiuto delle compagne. Soprusi e maltrattamenti non mancano mai”.
Tutta la vicenda, dalla consegna alla nave turca alla detenzione nei campi di Tripoli, è stata segnalata da Habeshia a Riccardo UNHCR. L’esposto è preciso e dettagliato. Vengono indicati anche i numeri di  telefono di Samuel e delle detenute di Garabuli che si sono dette pronte a ripetere la loro testimonianza in qualsiasi sede, sia politica e istituzionale, sia giudiziaria. E’ a disposizione dei commissari delle Nazioni Unite, inoltre, la registrazione della drammatica intervista in lingua Tigrigna fatta da don Zerai a Samuel, che nel frattempo, malato e gravemente indebolito, ha lasciato il campo di prigionia ed ha raggiunto Tripoli, ma ha bisogno di assistenza e cure mediche.
“Chiedo con forza ai rappresentanti dell’Onu presenti a Tripoli di ascoltare le testimonianze di Samuel e delle donne – insiste don Zerai – Bisogna chiarire questa vicenda assurda. Capire se si tratti di un respingimento di fatto in mare. Se tutto si è svolto come mi hanno raccontato, l’Italia si è assunta una gravissima responsabilità e penso ne debba rispondere. C’è da credere che si stia adottando in segreto una vera e propria ‘politica del rifiuto’. Ignorando che le persone respinte sono condannate a vivere in una condizione di gravissimo disagio che ne offende la dignità umana. Se non peggio. Hanno subito e subiscono maltrattamenti fisici e morali dal momento stesso in cui sono state riportate in Libia. E sono soggette a continui ricatti. Mi dicono, ad esempio, che ci sarebbe un vero e proprio ‘mercato dei rilasci’: chi ha potuto uscire dal campo di detenzione avrebbe pagato fino a mille dollari per essere lasciato andare. Anche su questo aspetto occorre indagare”.
Habeshia non lo dice, ma all'inchiesta dei commissari Onu che ha sollecitato andrebbe affiancata quanto meno una commissione di indagine parlamentare italiana. Se non altro perché, nonostante l’Italia abbia già subito due condanne per la politica dei respingimenti, una da parte della Commissione europea per i diritti umani e l’altra dell’Europarlamento, il governo Letta il 4 luglio scorso ha gettato le basi per un nuovo accordo bilaterale, che conferma alla Libia il compito di “gendarme del Mediterraneo” contro i migranti, in termini, a quanto pare, ancora più restrittivi, prevedendo di rinforzare la vigilanza oltre che sulle coste e nel Canale di Sicilia, pure sul confine meridionale, in pieno Sahara, sicché ai respingimenti in mare rischiano di aggiungersi i respingimenti nel deserto. Lo testimonia la recente strage di Kufra. E c’è da chiedersi, ancora, se tutto questo non configuri anche dei reati perseguibili dalla magistratura, oltre che una palese violazione dei diritti umani.

domenica 1 settembre 2013

Libia, strage di profughi nel Sahara alle porte di Kufra


di Emilio Drudi
La polizia libica non ha esitato a sparare contro la piccola colonna di jeep, furgoni fuoristrada e un camion carichi di profughi che non si era fermata all'alt. Raffiche di mitra e di fucile automatico. E’ stata una strage: 8 morti e almeno 20 feriti, alcuni molto gravi. I superstiti, inclusi i feriti più lievi, sono stati arrestati e gettati in un campo di reclusione. La fine del sogno di libertà per decine di giovani costretti a fuggire da guerra e persecuzioni, con la speranza di trovare aiuto e rifugio in Europa.
Si tratta di uno dei capitoli più gravi della tragedia dei richiedenti asilo che si consuma da anni sulle piste che arrivano in Libia, attraverso il deserto, dal Sudan o dall'estremo sud dell’Egitto. Ne ha dato notizia don Mussie Zerai, portavoce dell’agenzia Habeshia, il quale, raggiunto da una telefonata “rubata” di uno dei sopravvissuti,  ha dato l’allarme al Commissariato Onu per i rifugiati. E arriva a poco più di un mese dall'incontro in cui, il 4 luglio scorso a Roma, il presidente del Consiglio Enrico Letta e il premier libico Ali Zeidan Mohammed hanno gettato le basi per rinnovare l’accordo bilaterale che assegna a Tripoli il ruolo di “gendarme” contro i migranti, spostando la barriera ancora più a sud, dalle sponde africane del Mediterraneo al confine sahariano della Libia. Ali Zeidan è stato esplicito. “In Libia – ha specificato ai giornali italiani – faremo tutti gli sforzi per arginare il fenomeno dell’emigrazione clandestina. Abbiamo concordato che questa operazione comprenda il rafforzamento dei confini meridionali, oltre che mediterranei, con le infrastrutture necessarie”.
Non sembrano esserci dubbi che la strage sia maturata in questo contesto. E’ accaduto a Liwal Ijra Al Ajani, una località a sud dell’oasi e del villaggio di Kufra. L’autocolonna dei profughi aveva superato la frontiera ormai da molti chilometri. Erano tanti, in maggioranza eritrei e somali. Una decina di donne, due bambini, oltre 130 uomini, stipati su quei pick-up e sul pianale di carico del camion. Lungo la pista sono incappati in un posto di controllo dell’esercito. Un momento di esitazione e poi ha avuto il sopravvento la paura di essere bloccati e rispediti indietro. Così, anziché fermarsi, gli autisti hanno proseguito la corsa. Immediata la reazione dei militari e dei miliziani. Poche raffiche ben mirate e la fuga è finita. L’autocarro, colpito in pieno, ha sbandato paurosamente e si è rovesciato. Per i disperati che erano sul “cassone” non c’è stato scampo: non hanno neanche avuto il tempo di saltare fuori. E’ tra questi che si conta il maggior numero di vittime. Alla fine sono state recuperate otto salme e più di una ventina di feriti. Alcuni raggiunti dai proiettili, altri schiacciatati sotto la carcassa dell’automezzo.
I più gravi sono stati trasferiti all’ospedale di Kufra. Gli altri sono stati uniti ai superstiti e avviati al vicino centro di detenzione, uno dei più duri di tutta la Libia. Attivo dal 2009, questo campo ospita mediamente da 600 a 700 prigionieri. Formalmente dipende dal ministero dell’interno, ma le milizie armate rivoluzionarie vi spadroneggiano indisturbate. Nei mesi della rivolta contro Gheddafi, ad esempio, hanno costretto molti dei detenuti a lavorare per loro, scaricando e trasportando armi e munizioni anche nel pieno dei combattimenti. Le donne, di cui una in stato di gravidanza avanzata, sono state separate dai loro compagni: le hanno portate insieme ai bambini in un accampamento di tende. In balia della polizia. La segnalazione giunta a don Zerai è terribile: “In quel riparo precario donne e bambini sono esposti a tutte le sofferenze di un clima inclemente come quello del deserto, con cibo scarso e poca acqua anche per bere. E questo è ancora il meno. Mi hanno raccontato che ci sono stati anche abusi sessuali e comunque le ragazze sono sottoposte a continue molestie da parte dei militari. Ancora una volta sono le donne a pagare il prezzo più alto di questa persecuzione”.
Continui maltrattamenti, pestaggi, soprusi subiscono anche gli uomini nel campo di Kufra. “Alcune donne – racconta don Zerai – mi hanno riferito che i loro compagni sono stati portati via dal centro di detenzione. I miliziani hanno detto che dovevano fare alcuni lavori e poi sarebbero rientrati. Chi ha cercato di opporsi è stato picchiato a sangue. In realtà non c’erano lavori da fare. Una volta separati dagli altri prigionieri, sono stati segregati, minacciati, privati di ogni diritto e di ogni possibilità di comunicare con l’esterno se non sotto il controllo degli aguzzini. Un vero e proprio sequestro, con la richiesta di un riscatto di 3 mila dollari a testa per essere rilasciati. Non liberati, però: solo ricondotti al centro di detenzione. Tre di loro sono riusciti a scappare. Non sapevano dove andare e, avendo magari la compagna detenuta a Kufra, anziché allontanarsi e puntare verso la costa, sono tornati al campo, dove hanno denunciato il sequestro e gli abusi patiti. Ma i militari di guardia, anziché aiutarli, li hanno pestati selvaggiamente. Di fatto, li hanno ‘puniti’ per essersi ribellati ai soprusi. Colpiti sino a sfinirli, ora sono tutti in gravi condizioni”.
Tutte queste vicende sono state riassunte in un esposto inviato a Riccardo Clerici, rappresentante del Commissariato Onu per i rifugiati. La speranza è che le Nazioni Unite aprano un’inchiesta su quanto è accaduto e, intanto, pretendano un trattamento umano, il rispetto dei diritti più elementari, per quei disperati presi prigionieri al posto di blocco. Ma anche il governo italiano è coinvolto direttamente. Se non altro per il nuovo accordo bilaterale con Tripoli impostato il 4 luglio, il terzo della serie dopo quello firmato da Berlusconi e Gheddafi nel 2009 e quello successivo siglato da Monti e dall’allora ministro dell’interno Anna Maria Cancellieri, attuale ministro della giustizia, nel 2011, nonostante la condanna sancita poche settimane prima contro l’Italia, da parte della Corte europea sui diritti umani, per la politica dei respingimenti indiscriminati in mare. Ora, anzi, la complicità di fatto del governo italiano con questi soprusi appare ancora più palese perché sono ormai una catena infinita gli episodi che evidenziano come la Libia, che non ha mai firmato la convenzione di Ginevra del 1951 sui diritti dei rifugiati, interpreti il suo ruolo di “gendarme” contro profughi e migranti.
“Rispetto al passato – protestano l’agenzia Habeshia, Amnesty International e diverse altre organizzazioni umanitarie – il nuovo accordo prevede di spingere i ‘confini’ dell’Europa addirittura oltre le sponde libiche del Mediterraneo, in pieno deserto del Sahara”. “Sempre più a sud – insiste don Zerai – perché gli abusi evidenti che comporta fatalmente una intesa di questo genere, si svolgano in segreto, senza testimoni e il più lontano possibile. Questa stessa strage di Kufra non sarebbe mai stata conosciuta senza la segnalazione che uno dei sopravvissuti è riuscito fortunosamente a far pervenire ad Habeshia. Non credo che l’Europa e l’Italia possano accettare tutto questo”.

E’ un monito che smentisce il buonismo ostentato di recente dal governo italiano per la vicenda della nave, con equipaggio greco ma bandiera liberiana, che ha portato un gruppo di oltre cento profughi a Malta, dopo averli soccorsi in mare su un gommone alla deriva, su segnalazione di una motovedetta italiana. Malta, come è noto, non ha consentito lo sbarco, chiedendo al comandante di riportarli in Libia, come gli aveva ordinato un dispaccio della Guardia Costiera siciliana. Il capitano si è rifiutato, ricordando che, secondo le norme internazionali, quei disperati dovevano essere accompagnati verso il più vicino “porto sicuro” mentre la Libia era, per tutti loro, tutt’altro che sicura. Così, dopo una sosta in rada di diversi giorni, quando il caso stava per esplodere a livello europeo, Letta ha acconsentito ad accogliere in Italia quei profughi. Tutti hanno esaltato lo “spirito umanitario” di questa decisione. In realtà l’Italia non poteva fare diversamente: aveva l’obbligo di far sbarcare in un nostro porto quei giovani, quasi tutti richiedenti asilo, proprio in base alle convenzioni che ha sottoscritto di fronte all’Onu e all’Europa. Ma ha avuto ancora una volta il sopravvento il mito degli “italiani brava gente”, rilanciato peraltro da gran parte della stampa nazionale. La realtà vera, invece, è rappresentata dall’accordo bilaterale Italia-Libia. Che continua a produrre vittime e soprusi. L’ultimo, dolorosissimo caso è, appunto, la strage di Kufra.