Alcune riflessioni
L’immagine 2014
della “questione migranti” è quella delle decine e decine di barconi carichi di
disperati in fuga dal Medio Oriente e dall’Africa sub sahariana, soccorsi in
mare dalla Marina italiana o sbarcati direttamente sulle coste siciliane. Si
tratta di ben 162 mila arrivi: uomini, donne e bambini. Tanti ne ha contati il
ministro Paolo Gentiloni nell’ultimo rapporto della Farnesina. Merito
dell’operazione Mare Nostrum che, varata sull’onda dell’emozione suscitata
dalla strage di Lampedusa, ha salvato migliaia di vite. Benché anche Mare
Nostrum sia nato in realtà come operazione di “difesa delle frontiere”,
infatti, il mandato di pattugliare le acque internazionali del Mediterraneo,
fino ai margini del confine marittimo della Libia, ha consentito di individuare
e prestare soccorso rapidamente a numerosissimi battelli, in rotta verso
l’Italia o Malta, con il loro carico di umanità.
Non ci sono dubbi su
questo: lo ha riconosciuto l’intera comunità internazionale, a cominciare da
organismi come l’Alto Commissariato dell’Onu per i rifugiati (Unhcr) e
dall’Organizzazione internazionale per le migrazioni (Oim), a cui si deve un
monitoraggio costante della situazione lungo tutte le vie di fuga dei profughi,
terrestri e marittime. Va detto anche, però, che insieme al record di arrivi e
di soccorsi, si registra quest’anno anche il record delle vittime: almeno 3.600
circa, tra quelle inghiottite dal mare e quelle scomparse nel deserto o nei
paesi di transito verso la sponda meridionale del Mediterraneo. E questo conto
di morte va considerato certamente per difetto, perché poco o nulla si sa di
quanto accade ai profughi durante la traversata del Sahara, al momento di
passare i confini dei vari stati africani fino alla costa libica, tunisina o
egiziana, nelle carceri o nei centri di detenzione in cui vengono spesso
rinchiusi e tenuti come schiavi i migranti intercettati dalla polizia o da
milizie irregolari armate. Per non dire degli stessi campi di accoglienza
africani che magari recano le insegne dell’Unhcr ma dove sempre più di
frequente hanno campo libero poliziotti corrotti, miliziani fondamentalisti,
predoni legati alle organizzazioni criminali dei trafficanti di uomini.
Il punto è che,
nonostante Mare Nostrum e soprattutto nonostante le promesse e gli impegni profusi,
sia a livello europeo che italiano, dopo il disastro di Lampedusa, con 366 vite
spezzate, poco o nulla è stato fatto per organizzare quei canali legali di
immigrazione che sono l’unico, vero sistema efficace per sottrarre i
richiedenti asilo e i migranti al ricatto dei mercanti di morte e della loro
manovalanza di “passatori” del deserto e di scafisti. A più di un anno da
Lampedusa, insomma, non ci sono cambiamenti sostanziali: la fuga per la vita di
migliaia di esuli e perseguitati si rivela sempre di più un viaggio verso la
morte.
Adesso, inoltre,
nonostante il parere contrario della Marina, è cessato anche Mare Nostrum: il
ministro degli interni Angelino Alfano ne ha comunicato la fine a partire dal
primo novembre. Lo ha sostituito “Triton”, la missione europea che ha il
mandato di vigilare sui confini meridionali dell’Unione ma le cui navi, meno di
un terzo di quelle messe in campo da Mare Nostrum, si limitano a pattugliare
una fascia di appena 30 miglia, poco più delle acque territoriali dei vari
Stati Ue. E gli effetti già si vedono, con una triste catena di nuovi naufragi
e nuovi morti.
Ieri si è celebrata
la Giornata mondiale dei migranti lavoratori. In realtà, non c’è nulla da
celebrare. Appuntamenti come questo, piuttosto, dovrebbero essere l’occasione
per fare una profonda autocritica: da parte di tutta la comunità internazionale
ma, in particolare, da parte dell’Europa e del Nord del mondo. Se non altro,
per questa assurda mattanza che non accenna a finire. Ma non solo: ci sono
tantissimi altri elementi che obbligano a riflettere.
Le vittime. Secondo i dati diffusi dall’Unhcr, dall’inizio dell’anno ai primissimi
giorni di dicembre si sono registrati 3.419 morti o dispersi nel Mediterraneo.
A questi vanno aggiunte le vittime
rilevate “a terra”, nel deserto o nei paesi di transito. Secondo un calcolo,
sicuramente riduttivo, basato sulle denunce raccolte da varie organizzazioni
umanitarie ma talvolta anche dalla magistratura italiana, si tratterebbe di
almeno 150 altri morti: profughi abbandonati nel Sahara, uccisi in sparatorie
ai confini o in vari posti di blocco, rimasti presi tra i due fuochi nei
combattimenti in Libia tra le opposte fazioni, stroncati da malattie e fatica.
E la catena non si ferma: quasi in contemporanea con la pubblicazione del
rapporto Unhcr, in tre naufragi sono scomparsi altri 18 migranti a sud di
Lampedusa, 29 vicino ad Almeira, in Spagna, e 70 nel Mar Rosso, al largo delle
coste dello Yemen. Nei giorni successivi, inoltre, due profughi siriani sono
morti in Grecia.
Mare Nostrum e Triton. La Marina italiana
ha ribadito più volte che continuerà a fare il possibile per garantire la
massima assistenza ai barconi in difficoltà. Lo stesso ministro Alfano ha
assicurato che in ogni caso la Guardia Costiera risponderà a tutte le richieste
di soccorso, come prevede “la legge del mare”. Ma appare evidente che un conto
è intervenire da una distanza di poche miglia
dalla situazione d’emergenza, un conto partire dalle acque territoriali,
con davanti centinaia di miglia di mare da percorrere. Senza contare che la
missione Triton affidata all’agenzia Frontex, proprio perché nasce
esclusivamente con compiti di vigilanza dei confini, mette in campo molti meno
mezzi e risorse e, per ammissione dei suoi stessi vertici, non è in grado di
garantire soccorsi e sicurezza. Non a caso hanno contestato apertamente la
scelta della Ue associazioni da sempre in prima linea su questi temi, come
Amnesty International, ma anche le stesse Nazioni Unite: “C’è il timore – ha
denunciato senza mezzi termini Francois Crepeau, relatore speciale Onu per i
diritti dei migranti – che senza un’operazione come Mare Nostrum migliaia di
persone moriranno”.
Sequestri in Sudan. Bande di predoni legate alle organizzazioni dei
trafficanti di uomini hanno trasferito in Sudan l’attività prima incentrata nel
Sinai, dove la via di fuga verso Israele si è inaridita a causa della barriera
costruita da Tel Aviv lungo tutto il confine con l’Egitto, in pieno deserto. I
profughi vengono intercettati e sequestrati lungo le strade e le piste che dal
confine con l’Eritrea portano verso Khartoum. Come accadeva nel Sinai, per
lasciarli andare viene chiesto un riscatto che spesso supera i 40 mila dollari.
Per rendere più “convincente” la richiesta le vittime vengono torturate prima e
durante la telefonata ai familiari. Per chi non riesce a pagare c’è la minaccia
di essere messo in vendita sul mercato degli organi per i trapianti
clandestini. Secondo le richieste di aiuto arrivate all’agenzia Habeshia, ci
sono decine di ragazzi in balia di questi predoni, che non di rado vendono come
schiavi gli ostaggi ad altre bande. E ad ogni passaggio il prezzo del riscatto
aumenta. Si è intensificata intanto anche l’azione degli emissari dei
trafficanti intorno e all’interno dei campi profughi, a cominciare da quello di
Shagarab, dove non di rado si registrano misteriose “sparizioni”, specie di
giovani donne.
Sistema di accoglienza. Il sistema di accoglienza italiano, basato sui Centri per i richiedenti asilo, continua a rivelarsi il peggiore dell’Unione Europea insieme a quello della Grecia. I tempi per l’esame delle domande durano spesso anche più di un anno e la stragrande maggioranza dei profughi che riescono a ottenere una forma di protezione internazionale, una volta usciti dai Cara sono abbandonati a se stessi: diventano “fantasmi” senza diritti, senza occupazione e senza casa, che vanno a ingrossare il già vastissimo serbatoio di sfruttamento e lavoro nero, costretti quasi sempre in alloggi di fortuna: baraccopoli, costruzioni in disuso, spesso autentici ruderi, palazzi per uffici abbandonati occupati abusivamente, stanze sovraffollate affittate a caro prezzo e in genere senza alcun contratto.
Sistema di accoglienza. Il sistema di accoglienza italiano, basato sui Centri per i richiedenti asilo, continua a rivelarsi il peggiore dell’Unione Europea insieme a quello della Grecia. I tempi per l’esame delle domande durano spesso anche più di un anno e la stragrande maggioranza dei profughi che riescono a ottenere una forma di protezione internazionale, una volta usciti dai Cara sono abbandonati a se stessi: diventano “fantasmi” senza diritti, senza occupazione e senza casa, che vanno a ingrossare il già vastissimo serbatoio di sfruttamento e lavoro nero, costretti quasi sempre in alloggi di fortuna: baraccopoli, costruzioni in disuso, spesso autentici ruderi, palazzi per uffici abbandonati occupati abusivamente, stanze sovraffollate affittate a caro prezzo e in genere senza alcun contratto.
Non ha fatto un solo
passo in avanti la proposta di varare un sistema di accoglienza unico europeo,
uniformato su quelli nazionali rivelatisi più efficienti, adottato e accettato
da tutti gli Stati dell’Unione, in modo da superare le storture di situazioni
come quella italiana. Bloccata, allo stesso modo, la richiesta di abolire o
quanto meno di rivedere il trattato Dublino 3, che vincola i profughi al primo
paese Ue al quale fanno richiesta di aiuto e che viola il diritto alla libertà
di residenza e movimento.
Processo di Khartoum. Nel corso di una conferenza interministeriale
promossa dall’Italia, nell’ambito del semestre di guida dell’Unione europea, è
stato firmato a Roma, il 28 novembre, il cosiddetto Processo di Khartoum,
l’accordo sul controllo dell’emigrazione dall’Africa sub sahariana. Oltre agli
Stati Ue hanno aderito Egitto, Libia, Tunisia, Sudan, Sud Sudan, Etiopia,
Somalia, Gibuti, Eritrea. In particolare, va sottolineato, anche Eritrea e
Sudan, due delle dittature più feroci del mondo, che costringono ogni anno
migliaia di giovani a fuggire e ad affidarsi alla difficile sorte di profughi
senza Stato. Secondo quanto dichiarato dalla Farnesina, il trattato dovrebbe
servire a controllare l’emigrazione, cercando di risolvere le situazioni di
crisi che “producono” i profughi e costituendo intanto, in collaborazione tra
Ue e Stati africani, sotto il controllo Unhcr, una serie di campi di
accoglienza in Africa, dove alloggiare i rifugiati e dove presentare eventualmente
anche le richieste di asilo, in modo da arrivare poi a canali di immigrazione
legale. Ma in realtà condizione indispensabile per aprire davvero questi
‘canali’ è poter contare su quattro interventi strettamente connessi tra di
loro: la disponibilità di un sistema unico di accoglienza in Europa;
l’abolizione del trattato Dublino 3; la disponibilità delle ambasciate europee
nei paesi di transito ad accogliere ed esaminare le richieste di asilo;
iniziative per garantire condizioni di vita dignitose ai rifugiati fuori dai
campi. Ma di tutto questo non si trova traccia nel Processo di Khartoum. Eppure
basta che manchi anche uno soltanto di questi quattro elementi per far
naufragare l’intero programma.
L’impressione è che
si stia in realtà creando un’altra barriera: che alla fine, cioè, si realizzi
soltanto una serie di campi profughi nel cuore dell’Africa, nei quali bloccare
l’emigrazione verso l’Europa e il Nord del mondo. Un altro tassello della
progressiva esternalizzazione dei confini della Fortezza Europa, per spostarli
sempre più a sud, in modo che i migranti non arrivino nemmeno al Mediterraneo.
Non in maniera così massiccia, comunque. E’ eloquente, in proposito, il
Processo di Rabat che, varato quattro anni fa d’intesa con Libia, Tunisia,
Algeria, Marocco, vari Stati del versante ovest dell’Africa sub sahariana e
dell’Africa Occidentale, è oggi contestato da molte organizzazioni di profughi,
con l’accusa all’Europa di aver eletto a “gendarmi anti immigrazione” alcuni
degli Stati africani, a cominciare dal Marocco. Esattamente come ha fatto
l’Italia con la Libia attraverso il trattato bilaterale firmato da Berlusconi e
Gheddafi nel 2009, rinnovato da Monti nel 2012, ribadito da Letta nel 2013 e
mai messo in discussione da Renzi.
Centri di accoglienza in mano a organizzazioni
malavitose. L’inchiesta “Mafia
capitale” a Roma ha rivelato come grosse organizzazioni malavitose abbiano
messo le mani sulla gestione dei centri di accoglienza per richiedenti asilo e
migranti (Cpa, Cara, Cie, ecc.). Al di là delle responsabilità penali e dei
reati sui quali dovrà far luce la magistratura, appaiono più che evidenti i
ritardi e le gravissime responsabilità della politica. E’ assurdo che nessuno,
a tutti i livelli (Governo, Regioni, Province, Comuni, rappresentanti delle
organizzazioni a cui fanno capo le cooperative e le istituzioni finite sotto
accusa) si sia posto il problema di come vengono gestiti campi e centri di
accoglienza, nonostante le ripetute denunce di numerose associazioni e Ong e le
sempre più frequenti proteste dei profughi, spesso sfociate in autentiche
sommosse, con blocchi stradali, scontri con la polizia, ecc. Basti citare i
casi di Lampedusa, Mineo, Castelnuovo di Porto, Ponte Galeria. Senza alcun
riscontro l’inchiesta a tappeto sollecitata dall’agenzia Habeshia all’indomani
dello scandalo del Cpa di Lampedusa (esploso grazie a un servizio del Tg-2
giusto un anno fa, pochi giorni prima di Natale) e ribadita qualche settimana
dopo, in seguito al suicidio di un giovane eritreo nel Cara di Mineo.
Convenzione Onu sui diritti dei lavoratori migranti. La scelta del 18 dicembre per la
celebrazione della Giornata dei migranti lavoratori è legata all’adozione, da
parte dell’assemblea delle Nazioni Unite, della “Convenzione internazionale
sulla protezione dei diritti dei lavoratori migranti e dei membri delle loro
famiglie”. Una tappa importante, a cui si è arrivati, al termine di un percorso
quasi ventennale, il 18 dicembre 1990. A quasi 25 anni di distanza da quella
data, l’Italia non ha ancora firmato questa convenzione. Risultato si è visto Rosarno, Latina, Caeserta, Sicilia sfruttamento dei migranti in tutti settori, agricoltura, edilizia, per fino dalle cooperative sociali.
Non risulta che la
Giornata celebrata ieri sia servita a riflettere su tutto questo. O che quanto
meno si sia affrontato seriamente qualcuno di questi punti, per portarlo a
soluzione entro un tempo ragionevole. C’è da chiedersi, allora, se abbia ancora
senso questo appuntamento, che rischia ogni anno di più di diventare una
sterile cerimonia. Quasi una foglia di fico su responsabilità enormi.
don
Mussie Zerai
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