venerdì 19 dicembre 2014

18 Dicembre 1990-2014 Giornata dei Migranti .


 Alcune riflessioni

L’immagine 2014 della “questione migranti” è quella delle decine e decine di barconi carichi di disperati in fuga dal Medio Oriente e dall’Africa sub sahariana, soccorsi in mare dalla Marina italiana o sbarcati direttamente sulle coste siciliane. Si tratta di ben 162 mila arrivi: uomini, donne e bambini. Tanti ne ha contati il ministro Paolo Gentiloni nell’ultimo rapporto della Farnesina. Merito dell’operazione Mare Nostrum che, varata sull’onda dell’emozione suscitata dalla strage di Lampedusa, ha salvato migliaia di vite. Benché anche Mare Nostrum sia nato in realtà come operazione di “difesa delle frontiere”, infatti, il mandato di pattugliare le acque internazionali del Mediterraneo, fino ai margini del confine marittimo della Libia, ha consentito di individuare e prestare soccorso rapidamente a numerosissimi battelli, in rotta verso l’Italia o Malta, con il loro carico di umanità.
Non ci sono dubbi su questo: lo ha riconosciuto l’intera comunità internazionale, a cominciare da organismi come l’Alto Commissariato dell’Onu per i rifugiati (Unhcr) e dall’Organizzazione internazionale per le migrazioni (Oim), a cui si deve un monitoraggio costante della situazione lungo tutte le vie di fuga dei profughi, terrestri e marittime. Va detto anche, però, che insieme al record di arrivi e di soccorsi, si registra quest’anno anche il record delle vittime: almeno 3.600 circa, tra quelle inghiottite dal mare e quelle scomparse nel deserto o nei paesi di transito verso la sponda meridionale del Mediterraneo. E questo conto di morte va considerato certamente per difetto, perché poco o nulla si sa di quanto accade ai profughi durante la traversata del Sahara, al momento di passare i confini dei vari stati africani fino alla costa libica, tunisina o egiziana, nelle carceri o nei centri di detenzione in cui vengono spesso rinchiusi e tenuti come schiavi i migranti intercettati dalla polizia o da milizie irregolari armate. Per non dire degli stessi campi di accoglienza africani che magari recano le insegne dell’Unhcr ma dove sempre più di frequente hanno campo libero poliziotti corrotti, miliziani fondamentalisti, predoni legati alle organizzazioni criminali dei trafficanti di uomini.
Il punto è che, nonostante Mare Nostrum e soprattutto nonostante le promesse e gli impegni profusi, sia a livello europeo che italiano, dopo il disastro di Lampedusa, con 366 vite spezzate, poco o nulla è stato fatto per organizzare quei canali legali di immigrazione che sono l’unico, vero sistema efficace per sottrarre i richiedenti asilo e i migranti al ricatto dei mercanti di morte e della loro manovalanza di “passatori” del deserto e di scafisti. A più di un anno da Lampedusa, insomma, non ci sono cambiamenti sostanziali: la fuga per la vita di migliaia di esuli e perseguitati si rivela sempre di più un viaggio verso la morte.
Adesso, inoltre, nonostante il parere contrario della Marina, è cessato anche Mare Nostrum: il ministro degli interni Angelino Alfano ne ha comunicato la fine a partire dal primo novembre. Lo ha sostituito “Triton”, la missione europea che ha il mandato di vigilare sui confini meridionali dell’Unione ma le cui navi, meno di un terzo di quelle messe in campo da Mare Nostrum, si limitano a pattugliare una fascia di appena 30 miglia, poco più delle acque territoriali dei vari Stati Ue. E gli effetti già si vedono, con una triste catena di nuovi naufragi e nuovi morti.
Ieri si è celebrata la Giornata mondiale dei migranti lavoratori. In realtà, non c’è nulla da celebrare. Appuntamenti come questo, piuttosto, dovrebbero essere l’occasione per fare una profonda autocritica: da parte di tutta la comunità internazionale ma, in particolare, da parte dell’Europa e del Nord del mondo. Se non altro, per questa assurda mattanza che non accenna a finire. Ma non solo: ci sono tantissimi altri elementi che obbligano a riflettere.
 Le vittime. Secondo i dati diffusi dall’Unhcr, dall’inizio dell’anno ai primissimi giorni di dicembre si sono registrati 3.419 morti o dispersi nel Mediterraneo. A questi vanno aggiunte  le vittime rilevate “a terra”, nel deserto o nei paesi di transito. Secondo un calcolo, sicuramente riduttivo, basato sulle denunce raccolte da varie organizzazioni umanitarie ma talvolta anche dalla magistratura italiana, si tratterebbe di almeno 150 altri morti: profughi abbandonati nel Sahara, uccisi in sparatorie ai confini o in vari posti di blocco, rimasti presi tra i due fuochi nei combattimenti in Libia tra le opposte fazioni, stroncati da malattie e fatica. E la catena non si ferma: quasi in contemporanea con la pubblicazione del rapporto Unhcr, in tre naufragi sono scomparsi altri 18 migranti a sud di Lampedusa, 29 vicino ad Almeira, in Spagna, e 70 nel Mar Rosso, al largo delle coste dello Yemen. Nei giorni successivi, inoltre, due profughi siriani sono morti in Grecia.
 Mare Nostrum e Triton. La Marina italiana ha ribadito più volte che continuerà a fare il possibile per garantire la massima assistenza ai barconi in difficoltà. Lo stesso ministro Alfano ha assicurato che in ogni caso la Guardia Costiera risponderà a tutte le richieste di soccorso, come prevede “la legge del mare”. Ma appare evidente che un conto è intervenire da una distanza di poche miglia  dalla situazione d’emergenza, un conto partire dalle acque territoriali, con davanti centinaia di miglia di mare da percorrere. Senza contare che la missione Triton affidata all’agenzia Frontex, proprio perché nasce esclusivamente con compiti di vigilanza dei confini, mette in campo molti meno mezzi e risorse e, per ammissione dei suoi stessi vertici, non è in grado di garantire soccorsi e sicurezza. Non a caso hanno contestato apertamente la scelta della Ue associazioni da sempre in prima linea su questi temi, come Amnesty International, ma anche le stesse Nazioni Unite: “C’è il timore – ha denunciato senza mezzi termini Francois Crepeau, relatore speciale Onu per i diritti dei migranti – che senza un’operazione come Mare Nostrum migliaia di persone moriranno”.
 Sequestri in Sudan. Bande di predoni legate alle organizzazioni dei trafficanti di uomini hanno trasferito in Sudan l’attività prima incentrata nel Sinai, dove la via di fuga verso Israele si è inaridita a causa della barriera costruita da Tel Aviv lungo tutto il confine con l’Egitto, in pieno deserto. I profughi vengono intercettati e sequestrati lungo le strade e le piste che dal confine con l’Eritrea portano verso Khartoum. Come accadeva nel Sinai, per lasciarli andare viene chiesto un riscatto che spesso supera i 40 mila dollari. Per rendere più “convincente” la richiesta le vittime vengono torturate prima e durante la telefonata ai familiari. Per chi non riesce a pagare c’è la minaccia di essere messo in vendita sul mercato degli organi per i trapianti clandestini. Secondo le richieste di aiuto arrivate all’agenzia Habeshia, ci sono decine di ragazzi in balia di questi predoni, che non di rado vendono come schiavi gli ostaggi ad altre bande. E ad ogni passaggio il prezzo del riscatto aumenta. Si è intensificata intanto anche l’azione degli emissari dei trafficanti intorno e all’interno dei campi profughi, a cominciare da quello di Shagarab, dove non di rado si registrano misteriose “sparizioni”, specie di giovani donne.

 Sistema di accoglienza. Il sistema di accoglienza italiano, basato sui Centri per i richiedenti asilo, continua a rivelarsi il peggiore dell’Unione Europea insieme a quello della Grecia. I tempi per l’esame delle domande durano spesso anche più di un anno e la stragrande maggioranza dei profughi che riescono a ottenere  una forma di protezione internazionale, una volta usciti dai Cara sono abbandonati a se stessi: diventano “fantasmi” senza diritti, senza occupazione e senza casa, che vanno a ingrossare il già vastissimo serbatoio di sfruttamento e lavoro nero, costretti quasi sempre in alloggi di fortuna: baraccopoli, costruzioni in disuso, spesso autentici ruderi, palazzi per uffici abbandonati occupati abusivamente, stanze sovraffollate affittate a caro prezzo e in genere senza alcun contratto.
Non ha fatto un solo passo in avanti la proposta di varare un sistema di accoglienza unico europeo, uniformato su quelli nazionali rivelatisi più efficienti, adottato e accettato da tutti gli Stati dell’Unione, in modo da superare le storture di situazioni come quella italiana. Bloccata, allo stesso modo, la richiesta di abolire o quanto meno di rivedere il trattato Dublino 3, che vincola i profughi al primo paese Ue al quale fanno richiesta di aiuto e che viola il diritto alla libertà di residenza e movimento.
 Processo di Khartoum. Nel corso di una conferenza interministeriale promossa dall’Italia, nell’ambito del semestre di guida dell’Unione europea, è stato firmato a Roma, il 28 novembre, il cosiddetto Processo di Khartoum, l’accordo sul controllo dell’emigrazione dall’Africa sub sahariana. Oltre agli Stati Ue hanno aderito Egitto, Libia, Tunisia, Sudan, Sud Sudan, Etiopia, Somalia, Gibuti, Eritrea. In particolare, va sottolineato, anche Eritrea e Sudan, due delle dittature più feroci del mondo, che costringono ogni anno migliaia di giovani a fuggire e ad affidarsi alla difficile sorte di profughi senza Stato. Secondo quanto dichiarato dalla Farnesina, il trattato dovrebbe servire a controllare l’emigrazione, cercando di risolvere le situazioni di crisi che “producono” i profughi e costituendo intanto, in collaborazione tra Ue e Stati africani, sotto il controllo Unhcr, una serie di campi di accoglienza in Africa, dove alloggiare i rifugiati e dove presentare eventualmente anche le richieste di asilo, in modo da arrivare poi a canali di immigrazione legale. Ma in realtà condizione indispensabile per aprire davvero questi ‘canali’ è poter contare su quattro interventi strettamente connessi tra di loro: la disponibilità di un sistema unico di accoglienza in Europa; l’abolizione del trattato Dublino 3; la disponibilità delle ambasciate europee nei paesi di transito ad accogliere ed esaminare le richieste di asilo; iniziative per garantire condizioni di vita dignitose ai rifugiati fuori dai campi. Ma di tutto questo non si trova traccia nel Processo di Khartoum. Eppure basta che manchi anche uno soltanto di questi quattro elementi per far naufragare l’intero programma.
L’impressione è che si stia in realtà creando un’altra barriera: che alla fine, cioè, si realizzi soltanto una serie di campi profughi nel cuore dell’Africa, nei quali bloccare l’emigrazione verso l’Europa e il Nord del mondo. Un altro tassello della progressiva esternalizzazione dei confini della Fortezza Europa, per spostarli sempre più a sud, in modo che i migranti non arrivino nemmeno al Mediterraneo. Non in maniera così massiccia, comunque. E’ eloquente, in proposito, il Processo di Rabat che, varato quattro anni fa d’intesa con Libia, Tunisia, Algeria, Marocco, vari Stati del versante ovest dell’Africa sub sahariana e dell’Africa Occidentale, è oggi contestato da molte organizzazioni di profughi, con l’accusa all’Europa di aver eletto a “gendarmi anti immigrazione” alcuni degli Stati africani, a cominciare dal Marocco. Esattamente come ha fatto l’Italia con la Libia attraverso il trattato bilaterale firmato da Berlusconi e Gheddafi nel 2009, rinnovato da Monti nel 2012, ribadito da Letta nel 2013 e mai messo in discussione da Renzi.    
Centri di accoglienza in mano a organizzazioni malavitose. L’inchiesta “Mafia capitale” a Roma ha rivelato come grosse organizzazioni malavitose abbiano messo le mani sulla gestione dei centri di accoglienza per richiedenti asilo e migranti (Cpa, Cara, Cie, ecc.). Al di là delle responsabilità penali e dei reati sui quali dovrà far luce la magistratura, appaiono più che evidenti i ritardi e le gravissime responsabilità della politica. E’ assurdo che nessuno, a tutti i livelli (Governo, Regioni, Province, Comuni, rappresentanti delle organizzazioni a cui fanno capo le cooperative e le istituzioni finite sotto accusa) si sia posto il problema di come vengono gestiti campi e centri di accoglienza, nonostante le ripetute denunce di numerose associazioni e Ong e le sempre più frequenti proteste dei profughi, spesso sfociate in autentiche sommosse, con blocchi stradali, scontri con la polizia, ecc. Basti citare i casi di Lampedusa, Mineo, Castelnuovo di Porto, Ponte Galeria. Senza alcun riscontro l’inchiesta a tappeto sollecitata dall’agenzia Habeshia all’indomani dello scandalo del Cpa di Lampedusa (esploso grazie a un servizio del Tg-2 giusto un anno fa, pochi giorni prima di Natale) e ribadita qualche settimana dopo, in seguito al suicidio di un giovane eritreo nel Cara di Mineo.
 Convenzione Onu sui diritti dei lavoratori migranti. La scelta del 18 dicembre per la celebrazione della Giornata dei migranti lavoratori è legata all’adozione, da parte dell’assemblea delle Nazioni Unite, della “Convenzione internazionale sulla protezione dei diritti dei lavoratori migranti e dei membri delle loro famiglie”. Una tappa importante, a cui si è arrivati, al termine di un percorso quasi ventennale, il 18 dicembre 1990. A quasi 25 anni di distanza da quella data, l’Italia non ha ancora firmato questa convenzione. Risultato si è visto Rosarno, Latina, Caeserta, Sicilia  sfruttamento dei migranti in tutti settori, agricoltura, edilizia, per fino dalle cooperative sociali.
Non risulta che la Giornata celebrata ieri sia servita a riflettere su tutto questo. O che quanto meno si sia affrontato seriamente qualcuno di questi punti, per portarlo a soluzione entro un tempo ragionevole. C’è da chiedersi, allora, se abbia ancora senso questo appuntamento, che rischia ogni anno di più di diventare una sterile cerimonia. Quasi una foglia di fico su responsabilità enormi.

 don Mussie Zerai


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