sabato 27 dicembre 2014

Sudan. Pogrom contro gli eritrei nel campo di Shagarab


  

di Emilio Drudi

Un pogrom, con morti, feriti, pestaggi, capanne e case incendiate. E’accaduto la mattina di Natale nel campo profughi di Shagarab 1, nel Sudan sud orientale. L’ha condotto un folto gruppo di Rashaida, il clan beduino implicato nel traffico di esseri umani, come ultimo atto di una tragedia iniziata due giorni prima, con la morte di almeno 11 profughi eritrei in un agguato organizzato sempre dai Rashaida. La polizia sudanese è intervenuta soltanto quando ormai il massacro era compiuto. E, per di più, stando al racconto di alcuni eritrei scampati, anziché bloccare gli assalitori, avrebbe arrestato diverse vittime della caccia all’uomo, decine di rifugiati che protestavano in quello che restava del campo. Non solo. Di un numero imprecisato di profughi, uomini e donne, sequestrati dai Rashaida, si ignora la sorte.
Shagarab è uno dei campi profughi più grandi dell’Africa. Aperto vicino a Kassala quasi 50 anni fa, nel 1968, quando a popolarlo erano gli esuli eritrei della guerra d’indipendenza contro l’Etiopia, più che un centro d’accoglienza oggi è una città di baracche sorte nel nulla del Sahel sudanese. Il nulla intorno ad oltre 15 mila ospiti, che diventano almeno 30 mila con quelli del campo satellite di Shagarab 2, situato a circa metà strada tra Kassala e Al Qadarif. E gli arrivi continuano. Negli ultimi tempi, secondo il Commissariato Onu per i rifugiati (Unhcr), una media di 1.500 richiedenti asilo al mese. Dovrebbe essere, infatti, la prima tappa del cammino verso la salvezza, dopo essere sfuggiti alle manette e alle fucilate della polizia di frontiera eritrea. E’ diventato, invece, un girone infernale. All’interno c’è un ufficio dell’Unhcr per l’esame delle domande di asilo. Ma la stessa Unhcr ha denunciato più volte le condizioni di insicurezza che rendono pressoché ingovernabile il campo. La gestione dipende interamente dal ministero degli interni di Khartoum. In realtà, l’intero complesso è abbandonato a se stesso. Peggio: è diventato una riserva di caccia dei mercanti di morte, che vi accedono e vi si muovono con estrema facilità, per adescare le loro vittime o, sempre più spesso, sequestrarle con la violenza. Nel silenzio pressoché totale del presidio di polizia che dovrebbe garantire la vigilanza e la difesa da qualsiasi intrusione esterna.

Sono anni, in queste condizioni, che monta la tensione, con proteste sempre più frequenti contro la vita impossibile e i tempi di attesa infinitamente lunghi per l’esame delle richieste di asilo. Ma, ancora di più, contro i trafficanti e contro la polizia che finge di non vederli, mentre blocca inesorabilmente chi cerca di allontanarsi da Shagarab per raggiungere Khartoum e attraversare il Sahara verso la Libia o l’Egitto. La premessa del pogrom di Natale è stato proprio un ennesimo tentativo di fuga, attuato la mattina del 23 dicembre da un folto gruppo di rifugiati: secondo talune fonti, una cinquantina. Il primo pericoloso ostacolo, uscendo da Shagarab verso nord, è l’attraversamento dell’Atbara, il grosso affluente che si getta nel Nilo poco lontano. Consapevoli che seguendo la strada nazionale o le piste più battute sarebbero incappati nei posti di blocco della polizia, i profughi sono arrivati per vie traverse in un villaggio fuorimano, dove hanno trovato quattro pescatori disposti a traghettarli con le loro piccole barche. Su ognuna sono salite da 10 a 15 persone.
A questo punto non è chiaro cosa sia accaduto di preciso. Secondo quanto riferito dal giornale online Caperi Reports, i fuggiaschi sarebbero caduti in una imboscata, organizzata da una banda di Rashaida, proprio mentre stavano attraversando il fiume. Nella confusione che ne è seguita, almeno una delle barche si è rovesciata. Forse, anzi, addirittura due. Otto profughi sono annegati: i loro corpi senza vita li hanno recuperati lungo le rive. Tre risultano dispersi. Cinque, tre uomini e due donne, sono stati catturati e presi in ostaggio dai beduini. Le altre barche – come ha riferito Mohammed Adar, rappresentante dell’Unhcr in Sudan, secondo quanto riporta Business Recorder – ce l’hanno fatta ad attraversare il fiume. Ma una decina di rifugiati, che si erano gettati in acqua salvandosi a nuoto, sono tornati al campo, dando l’allarme.
Tutti i profughi eritrei, a Shagarab, sanno che il clan dei Rashaida ha fatto della regione sudanese a nord del confine con l’Eritrea una delle principali basi della tratta di esseri umani. La tecnica è la stessa adottata per anni nel Sinai, in combutta con bande di predoni locali. Tutti quelli che vengono catturati diventano schiavi: segregati, incatenati tra di loro, venduti da una banda all’altra, torturati per vincerne ogni volontà di resistenza. Per essere rilasciati devono pagare un riscatto che può arrivare fino a 40 mila dollari. E chi non ce la fa a comprarsi la libertà rischia di essere messo all’asta sul mercato degli organi per i trapianti clandestini. Proprio per questo da anni i rifugiati chiedono alla polizia sudanese di intervenire. Nessuno ha mai dato loro ascolto. Così, questa volta, un gruppo di oltre cento disperati hanno deciso di muoversi da soli, prendendo a loro volta in ostaggio tre membri della comunità beduina, per scambiarli con gli amici catturati dai Rashaida al guado dell’Atbara.
La trattativa è andata avanti fino al giorno 24, vigilia di Natale, quando gli eritrei hanno deciso di rilasciare i tre prigionieri. Ma ai Rashaida non è bastato. Forse perché hanno considerato quella ribellione ai loro soprusi un pericoloso “precedente”, che può minare l’autorità criminale che hanno istituito nella regione. Meno di 24 ore dopo, la mattina di Natale, dunque, un folto gruppo di beduini, armati di coltelli e machete, ha dato l’assalto al campo di Shagarab. E’ stato – hanno raccontato alcuni portavoce dei profughi eritrei – un vero e proprio pogrom, di estrema violenza, ma che la polizia non ha nemmeno provato a contrastare. Secondo quanto riferisce un servizio giornalistico pubblicato da Caperi Online, la caccia all’uomo si è protratta a lungo. Numerosi migranti sono stati uccisi o feriti. A molte capanne è stato appiccato il fuoco e sono andate distrutte. Decine di ragazzi, uomini e donne, sono stati catturati e ammassati su camion, per portarli non si sa dove. Proprio la disponibilità di questi autocarri, anzi, dimostra che il raid non è frutto di un’esplosione di collera ma è stato studiato e organizzato a freddo: una spedizione punitiva nella quale non si è lasciato nulla al caso. Incluso il sequestro di prigionieri che ora non si sa dove siano finiti. C’è chi dice che siano stati accompagnati in catene al confine e consegnati alla polizia di frontiera eritrea. Ma altri temono che siano destinati a diventare schiavi da mettere in vendita nel circuito dei trafficanti di esseri umani. Con il rischio di sparire per sempre: la stessa sorte toccata a centinaia di altri profughi di cui si è persa ogni traccia nel Sinai.
La polizia sudanese – denunciano i migranti – è intervenuta solo quando il campo era in fiamme e il massacro ormai alla fine. E invece di dare la caccia ai predoni se la sarebbe presa con gli eritrei che contestavano il suo ritardo e il suo atteggiamento. Molti, anzi, sarebbero stati arrestati. E per questi, ora, si prospetta un incubo senza fine: rischiano di essere rimpatriati di forza ad Asmara. Un rischio terribile perché, trattandosi di ragazzi in età di leva, verranno processati e imprigionati come disertori. I lager eritrei sono pieni di ragazzi come loro. Ma Khartoum non sembra tenerne conto. Lo dimostra la vicenda di altri 230 giovani che, dopo aver scontato otto mesi di carcere in Sudan per immigrazione clandestina, non sono stati rilasciati alla fine della pena: restano detenuti, in attesa di essere consegnati al regime di Isaias Afewerki.
“La prospettiva del rimpatrio forzato dei profughi eritrei – spiega don Mussie Zerai, presidente dell’agenzia Habeshia – si è fatta più concreta dopo il riavvicinamento tra Isaias Afewerki, il dittatore di Asmara, e Al Bashir, il dittatore di Khartoum. Due personaggi messi al bando dalla comunità internazionale e che il presidente Obama si è rifiutato di incontrare nell’ultima conferenza Usa-Africa. Eppure, oltre che ovviamente con gli altri governi della regione, è proprio con questi dittatori che l’Italia e l’Europa hanno firmato, il 28 novembre, il Processo di Khartoum, l’accordo per il controllo dell’emigrazione dal Corno d’Africa. Quella firma è stata accompagnata da mille promesse e impegni. Si è detto, in sostanza, che sarebbe il passo iniziale verso una positiva collaborazione con le nazioni di transito e di prima sosta dei profughi, in modo da garantire i diritti e la sicurezza di chi è costretto da guerre e persecuzioni ad abbandonare il proprio paese. Questa è l’occasione per dimostrare che non sono state gettate parole al vento. L’Italia è lo Stato che ha premuto di più per questo accordo, già a partire dalla visita fatta dal viceministro degli Esteri Lapo Pistelli, nel luglio scorso, in Eritrea, in Sudan e in tutta l’Africa Orientale. Allora, l’Italia affronti le responsabilità che si è assunta. Come? Facendosi subito carico, insieme all’Europa, del problema enorme di Shagarab: deve pretendere che il campo sia messo in sicurezza dalla polizia sudanese o, se questa non è in grado di farlo, da una forza internazionale. Inoltre va chiesta con estrema decisione a Bashir la garanzia che non rimanderà i profughi eritrei ad Asmara: né quelli arrestati dopo il pogrom di Natale, né tutti gli altri imprigionati negli ultimi mesi come migranti clandestini. Proprio perché si tratta di profughi, anzi, occorre pretendere che non vengano fermati come delinquenti ma siano trattati come richiedenti asilo, in base al diritto internazionale”.

Don Zerai solleva un problema essenziale, che conferma i grossi dubbi e le forti contestazioni manifestate da più parti al momento della firma dell’accordo, sancito a fine novembre da una conferenza interministeriale convocata a Roma. Se Bashir ignorerà le garanzie sollecitate da don Zerai per i profughi eritrei bloccati in Sudan, infatti, il Processo di Khartoum potrà considerarsi fallito in partenza. “A meno che – rileva lo stesso don Zerai – il vero scopo del trattato non sia quello di bloccare i rifugiati nel deserto, in Sudan o nel Sahara, prima ancora che arrivino sulla costa meridionale del Mediterraneo. L’ennesima barriera messa in piedi per spostare sempre più a sud la frontiera della Fortezza Europa. Anche a costo di affidare il controllo dell’emigrazione a dittatori come Afewerki e Bashir”.

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