“Ci rubano il
lavoro”. “Con tanti italiani disoccupati, in particolare giovani, non c’è posto
per gli immigrati: prima gli italiani!”. “Sono un peso per lo Stato e per la nostra
economia, specie in un momento di crisi come quello che paralizza il Paese da
anni”. Slogan di questo tenore sono all’ordine del giorno. Sempre più
frequenti. Sono stati il filo conduttore di tutte le ultime proteste. A volte
con una vasta eco, in realtà grandi come Roma, Milano, Torino. Altre volte circoscritte
a città più piccole e, dunque, meno clamorose. Ma altrettanto pericolose. E
sulla scia di queste manifestazioni cresce l’opinione che continuare ad
accogliere i migranti rischia di aggravare le tensioni sociali ed economiche
che si registrano non solo in Italia ma in altri paesi europei: basti citare le
recenti contestazioni in Germania. Questa opinione (ma sarebbe più esatto
definirla un pessimo “luogo comune”) non tiene conto che la maggioranza degli
immigrati arrivati negli ultimi anni (e in particolare nel 2014) dall’Africa e
dal Medio Oriente sono profughi e richiedenti asilo. Persone, cioè, che hanno
dovuto lasciare il proprio paese per salvarsi da guerre e persecuzioni e che vanno
accolte, in base al diritto internazionale, proprio perché la loro è una “fuga
per la vita”. Si tratta, in sostanza, di una questione di rispetto dei diritti
umani, a cominciare da quelli alla vita stessa e alla libertà.
A parte questo
aspetto, comunque, anche dal punto di vista economico i migranti non sono un
problema ma una risorsa per i paesi che li accolgono. In particolare per l’Italia,
dove il saldo tra costi e benefici è nettamente a favore dei benefici assicurati
dalla presenza dei lavoratori stranieri. Basterebbe ricordare che producono in
media tra il 9 e il 10 per cento del Pil nazionale ma, a entrare nei dettagli,
questo dato emerge ancora più evidente.
Uno studio
pubblicato nel dicembre 2013 dal senatore Luigi Manconi (Pd) e dalla sociologa Valentina
Brinis dimostra che i migranti sono essenziali in settori importanti come
l’assistenza, l’edilizia, il commercio, la siderurgia, l’agricoltura e
l’agroalimentare, inclusa (sia pure con mansioni di manovalanza o comunque di basso
livello) la filiera di alcuni dei prodotti più pregiati del made in Italy.
Negli allevamenti bovini della Val Padana, che sono la base per la produzione
del parmigiano, ad esempio, i lavoratori sono in gran parte stranieri: sono
loro ad aver dato soluzione alla crisi dei mungitori, dei mandriani, degli
addetti alle stalle. Lo stesso accade nel Lazio meridionale per gli allevamenti
di bufale, a cui è legata la famosa mozzarella esportata in tutto il mondo.
Idem per l’attività florovivaistica: nelle serre della provincia di Latina, che
esportano fiori e piante ornamentali in mezza Europa, gli operai sono in grande
maggioranza stranieri. In un recente convegno, il presidente degli imprenditori
agricoli del Lazio, Sergio Ricotta, lo ha detto esplicitamente: “Senza i
lavoratori immigrati, molti di noi dovrebbero chiudere le aziende o sarebbero
comunque in forti difficoltà”. Perché? Perché, nonostante la crisi, gli
italiani questo genere di lavori non vogliono più farli. Ovvero: la presenza
dei migranti non entra in competizione con gli italiani. Nessun “furto di
lavoro”.
Ancora più eloquente
è una ricerca pubblicata nello scorso mese di novembre dalla fondazione Leone
Moressa di Venezia, dalla quale emerge che, sommando il gettito fiscale e
quello contributivo, le entrate per le casse dello Stato riconducibili agli
stranieri nel 2013 hanno superato i 16,6 miliardi di euro. Di contro, lo Stato ha
speso per gli stranieri (scuola, servizi sociali, sanità, giustizia, sicurezza,
ecc.) poco più di 12,6 miliardi. Ovvero, nel 2013 gli italiani hanno
“guadagnato” circa 4 miliardi di euro dalla presenza dei migranti. Una cifra
che corrisponde al gettito dell’Imu sulla prima casa, considerato una voce
essenziale nel bilancio dello Stato. Ed è un dato costante: a tanto ammonta in
media l’attivo annuale che l’immigrazione lascia all’economia italiana. Senza
contare i benefici sociali. Alcuni indiretti, come il riequilibrio almeno
parziale del tasso di invecchiamento della popolazione, che è preoccupante ma
che sarebbe ancora più evidente senza la presenza di tanti giovani immigrati:
ed è noto, come rileva il Censis, che una società più è “vecchia”, più tende a
ripiegarsi su se stessa, incapace di guardare al futuro. Ma altri benefici sono
molto più diretti e misurabili subito anche in termini economici. Come
l’assistenza assicurata da circa 830 mila bandanti a oltre un milione di
anziani e persone non autosufficienti, che altrimenti finirebbero per gravare
sul sistema sanitario, con un costo di centinaia di milioni di euro l’anno. “Quel
milione di anziani – ha scritto Gian Antonio Stella sul Corriere della Sera –
sono il quadruplo dei ricoverati nelle strutture pubbliche. Se dovesse
occuparsene lo Stato, ciao: un posto letto, dall’acquisto del terreno alla
costruzione della struttura, dai mobili alle lenzuola, costa 150 mila euro. Per
un milione di degenti dovremmo scucire 150 miliardi. E poi assumere (otto
persone ogni dieci posti letto) 800 mila addetti, per una spesa complessiva
annuale (26 mila euro l’uno) di quasi 21 miliardi. Più spese varie”.
Alla luce di questi
dati, ci sarebbe da aprire le porte agli stranieri. Accoglierli tutti, come
titola la sua ricerca il senatore Manconi. Invece non solo, in genere, vengono
guardati come minimo con diffidenza, ma subiscono discriminazioni continue. Lo
ha denunciato senza mezzi termini l’Ocse che, in un rapporto pubblicato nel
luglio scorso, dice in sostanza che i migranti lavorano di più e guadagnano di
meno degli italiani. “Gli immigrati – scrivono i ricercatori – sono
sproporzionalmente impiegati in lavori precari, poco qualificati, sottopagati e
spesso vittime di discriminazione e licenziamenti selettivi, con poche
possibilità di accedere ai lavori più qualificati”.
E dalla
discriminazione è facile passare allo sfruttamento e ai soprusi. Ma anche peggio.
Lo dimostra tutta una serie di episodi venuti alla luce negli ultimi anni. Vale
la pena ricordare alcuni dei casi più gravi e recenti.
Roma. Minori schiavi al centro agroalimentare. Ragazzini egiziani, ospiti in genere delle
case di accoglienza, lavorano oltre 12 ore al giorno per una ventina di euro. Lo
ha rivelato il settimanale L’Espresso con un servizio pubblicato a fine
novembre. Un lavoro in nero, ma programmato da prima della partenza
dall’Egitto. “Ogni giorno – scrive Rosita Fattore – decine di minori scavalcano
le recinzioni del centro agroalimentare, eludendo la vigilanza degli agenti che
controllano l’intera area. Lavorano a spostare casse di frutta per l’intera
giornata, per 20 euro di compenso”. Lo prevede l’accordo che le famiglie hanno
sottoscritto in patria, quando sono partiti, pensando magari di fare la loro
fortuna. Ne è nato un sistema di caporalato organizzato da immigrati egiziani
ma, c’è da ritenere, con una diffusa rete di complicità in Italia. La direzione
del Cara ha intensificato la vigilanza ed è arrivata ad effettuare fino a 200
respingimenti al giorno di lavoratori abusivi. Ma non è facile: si sono
verificate anche aggressioni nei confronti dei lavoratori in regola. Un segnale
pericoloso, che fa pensare alla presenza di un racket deciso a stabilire un
controllo criminale della manovalanza nel centro agroalimentare di Roma, il più
grande d’Italia, sfruttando il lavoro dei migranti.
Ragusa. Rumene schiave nelle serre. Anche questo scandalo è stato sollevato da
una inchiesta del settimanale L’Espresso, nell’ottobre scorso. Tuttavia segnali
e denunce risalgono a molto prima. In particolare, ne ha parlato spesso,
inascoltato, padre Beniamino Sacco, un parroco del piccolo comune di Vittoria.
La provincia di Ragusa, la “città delle primizie”, è uno dei distretti
ortofrutticoli più importanti d’Italia. Un mare di serre nelle quali lavorano
oltre cinquemila donne, in buona parte romene. E sono proprio le romene, le più
deboli, le vittime dei soprusi che, secondo quanto emerge dall’inchiesta, le
hanno ridotte quasi in schiavitù. “Vivono segregate in campagna, spesso con i
figli piccoli – scrive Antonello Mangano, l’autore del reportage – Nel totale
isolamento subiscono ogni genere di violenza, anche sessuale. Tutti sanno e
nessuno parla”. Inutile aggiungere che il salario, tutto o in parte, è quasi
sempre in nero.
Latina. Braccianti drogati per resistere alla fatica. E’ uno dei casi più clamorosi di
sfruttamento disumano della manodopera straniera, tanto da essersi “meritato”
nel 2014 un capitolo anche in “Immigrazione”, il dossier statistico pubblicato
ogni anni dall’Ufficio nazionale antidiscriminazioni razziali (Unar). Un
sistema collaudato, ben strutturato e organizzato per trarre il massimo
profitto dal lavoro dei braccianti indiani (in maggioranza sikh originari del
Punjab) emigrati nell’Agro Pontino. L’ha
portato alla luce un’indagine dell’associazione onlus “In Migrazione”, alla cui
battaglia si è poi unita la Cgil. Dall’inchiesta, condotta sulla base di una
serie di testimonianze dirette e verifiche sul campo, è emersa una
organizzazione diffusa che, dietro una apparente legalità, nascondeva salari
bassissimi (in media 3 euro all’ora a fronte degli 8,26 del contratto
nazionale); orari improponibili, fino a 12 e più ore di lavoro giornaliere
(contro le 6,40 previste dal contratto nazionale) e spesso condizioni abitative
a dir poco inadeguate. Senza contare una zona “grigia” nascosta tra le pieghe
delle norme in modo da sfuggire ai controlli. Ad esempio, buste paga e
contratti in regola, ma con l’escamotage di contabilizzare molte meno ore o
giornate di quelle effettivamente prestate, fino al caso limite di un
bracciante che risulta impiegato per due soli giorni pur avendo lavorato per
quasi un mese. Un lavoro, nei campi o sotto le serre, pesantissimo e spesso
senza pause nell’arco della giornata, al punto da costringere alcuni braccianti
a doparsi per reggere la fatica fisica e psicologica. Come ha dimostrato
un’indagine parallela condotta dalla Procura e dalla squadra mobile della
Questura di Latina, inoltre, funzionava anche un reclutamento di manodopera,
con intermediari italiani e indiani, attraverso un’organizzazione criminale
dedita al favoreggiamento dell’immigrazione clandestina.
Campania e Puglia. Braccianti sfruttati. Un sistema di caporalato e sfruttamento
analogo a quello dei braccianti sikh e indiani dell’Agro Pontino funziona da
anni nelle campagne pugliesi e campane (in particolare nella provincia di
Caserta) per tutta una serie di lavori stagionali estremamente faticosi:
raccolta del pomodoro, raccolta delle olive, ecc. La tecnica è la stessa:
pagamenti in nero e a cottimo (un tot a cassetta riempita); buste paga in
apparenza regolari ma che coprono soltanto una minima parte delle giornate
effettivamente lavorate; reclutamento tramite caporali ai quali va versata una
quota del salario; pagamenti effettuati attraverso gli stessi caporali, che
assumono quasi la veste di agenti di collocamento, dando praticamente “in
affitto” alle aziende intere squadre di lavoratori. Sempre più raro, inoltre,
l’arruolamento casuale giornaliero, sostituito da gruppi composti, in
maggioranza, sempre dagli stessi uomini e da impiegare per periodi più o meno
lunghi.
Rosarno. Sfruttamento e pogrom razzisti. Situazioni di sfruttamento simili a quelle
registrate in Campania e in Puglia sono emerse nel gennaio del 2010 per i
braccianti stranieri impiegati nella raccolta degli agrumi nella piana di Gioia
Tauro, in Calabria. Con in più pesanti implicazioni razziste. A portare tutto
alla luce è stata una vera e propria rivolta bracciantile, esplosa l’8 e il 9
gennaio, seguita poi da una autentica “caccia al nero”.
La ricostruzione dei
fatti sembra una cronaca di guerra. La scintilla sono alcuni colpi di fucile ad
aria compressa esplosi da tre balordi contro un gruppo di giovani africani che,
dopo una giornata di lavoro negli agrumeti, sta rientrando alla Rognetta, una
vecchia fabbrica trasformata in dormitorio di fortuna, alla periferia di
Rosarno, un paese di 15 mila abitanti. Due rimangono feriti. L’aggressione
scatena la rabbia dei circa cinquemila lavoratori stranieri della piana.
Centinaia di loro raggiungono in corteo Rosarno, mettendolo a ferro e fuoco: auto
distrutte, vetrine in frantumi, assalto ai negozi, pestaggio di passanti.
Quando interviene la polizia, comincia una vera e propria guerriglia urbana.
L’intera zona è presidiata in forze, quasi messa in stato d’assedio, ma il
giorno dopo la protesta si riaccende, con nuovi scontri. I migranti (come in
una rivolta analoga avvenuta, sempre a Rosarno, nel dicembre 2008) denunciano
sfruttamento, disprezzo razzista, totale mancanza di strutture d’accoglienza e
integrazione, nonostante il loro lavoro stagionale sia fondamentale per
l’economia della piana e della stessa Calabria. Molti parlano di sfruttamento
gestito dalla ‘ndrangheta attraverso una rete di caporali: 25 euro al giorno
(di cui 5 da versare al caporale) per 10, 12 ore di lavoro negli agrumeti,
appartenenti almeno in parte a clan mafiosi. In paese, già dal secondo giorno,
si formano gruppi di “autodifesa” tra gli abitanti, seguiti da ronde armate di
spranghe e spesso anche di fucili, che setacciano città e campagna, colpendo
stranieri isolati o riuniti in piccoli gruppi, le case di diversi immigrati, i rifugi
di fortuna dei braccianti, dandoli alle fiamme. Un clima da pogrom, che induce
Governo e Prefettura a ordinare lo sgombero forzato di tutti gli immigrati
della zona.
Episodi di
sfruttamento e spesso di razzismo come questi sono sempre in agguato, nonostante
tutti i dati reali dimostrino come il lavoro degli stranieri sia essenziale per
l’economia italiana. C’è da chiedersi quali siano le ragioni di questa evidente
contraddizione. Probabilmente molto dipende da disinformazione, luoghi comuni,
pregiudizi. Esaltati dall’insicurezza e dai timori provocati dalla crisi
economica che colpisce da anni il paese. Cavalcati o comunque strumentalizzati
dai partiti di destra e di estrema destra, inclusi gruppi apertamente
neofascisti come Forza Nuova e Casa Pound, che ha trovato una sponda interessata
nella Lega Nord. E venati anche da una buona dose di xenofobia.
E’ una situazione
estremamente preoccupante: si profila una deriva che rischia di diventare
incontrollabile. L’agenzia Habeshia fa appello al Governo, al Parlamento, ai
sindacati, a tutte le forze democratiche ad intervenire con forza per garantire
regolarità e sicurezza sul lavoro a tutti migranti, al pari degli italiani.
Pochi giorni fa si è
celebrata la Giornata mondiale dei lavoratori migranti e delle loro famiglie,
istituita per sottolineare l’importanza della convenzione internazionale sulla
protezione dei diritti dei lavoratori migranti, appunto, votata dall’assemblea
delle Nazioni Unite il 18 dicembre 1990, al termine di un faticoso percorso
durato vent’anni. Ad oggi, dicembre 2014, a venticinque anni esatti da quel
voto, l’Italia non ha ancora firmato e adottato quella convenzione. Proprio in
questi giorni il Parlamento sta varando la riforma sul lavoro. Arrivare in
tempi brevi, da parte del Governo, anche alla decisione di fare proprie le
raccomandazioni votate dall’Onu nel 1990, sarebbe un segnale importante contro
tutti i soprusi e lo sfruttamento che continuano a verificarsi nei confronti
dei migranti. Purché, come troppo spesso accade, gli impegni previsti nella
convenzione non restino solo sulla carta. La prima verifica potrebbe essere,
giusto tra un anno, la Giornata mondiale del 2015.
don Mussie Zerai
presidente dell’agenzia Habeshia
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