sabato 23 dicembre 2017

Oltre mille profughi-schiavi in un lager a Sabha: nessuno ascolta il loro grido d’aiuto


di Emilio Drudi e Abraham Tesfai

Più di mille giovani eritrei ed etiopi, sequestrati da bande di predoni in prossimità del confine tra il Sudan e la Libia, sono segregati da oltre sei mesi in una enorme prigione dei trafficanti a Berk, una località non lontana da Sabha, la capitale del Fezzan, snodo tra le piste sahariane che arrivano dal Sudan, dal Ciad o dal Niger e le strade che conducono a nord, verso Tripoli, Homs e la costa del Mediterraneo. Eludendo la sorveglianza dei miliziani di guardia, alcuni di loro sono riusciti contattare con un cellulare don Mussie Zerai e l’agenzia Habeshia, lanciando una disperata richiesta di aiuto. Il racconto che hanno fatto è la conferma dei tanti dossier pubblicati sui lager libici dalle commissioni dell’Onu e da numerose Ong: la vita dei prigionieri è scandita, giorno per giorno, da maltrattamenti, soprusi, torture, violenze di ogni genere, stupri. Più di qualcuno non resiste: “Negli ultimi mesi – hanno denunciato – sono morti almeno sei nostri compagni: li hanno uccisi i pestaggi feroci, sistematici delle guardie, la fame, le ferite infette e le malattie. Il cibo è scarso e cattivo, poca anche l’acqua da bere. E per chi sta male non c’è alcun tipo di cura medica…”.
Pur di sottrarsi a questo calvario, parecchi si sono piegati al ricatto di “comprarsi la libertà”, pagando migliaia di dollari. Ancora non sono stati rilasciati, ma almeno non subiscono le torture peggiori e le continue minacce di morte o di essere venduti come schiavi. Una minaccia tutt’altro che teorica: proprio in una delle piazze centrali di Sabha si svolgeva il mercato di esseri umani denunciato da un puntuale rapporto pubblicato dall’Oim nello scorso mese di aprile e confermato da uno sconvolgente filmato della Cnn che, mandato in onda poche settimane fa, in novembre, ha documentato, con immagini e sonoro, l’asta allestita nel cuore stesso della città: si odono distintamente persino le parole del banditore che vanta le “qualità” dei giovani messi in vendita, per alzarne la quotazione. Quel servizio Tv, rimbalzato in tutto il mondo, ha destato un clamore e un’emozione enormi. Ne è seguito, da parte delle maggiori istituzioni internazionali e anche di varie cancellerie occidentali e africane, l’impegno a intervenire al più presto, chiamando in causa le responsabilità del Governo libico ma anche delle politiche migratorie dell’Unione Europea e dei singoli Stati Ue che, ispirate a chiusura e respingimento, intrappolano centinaia di migliaia di disperati in un inferno dove ogni diritto umano è cancellato: dove le persone diventano “res nullius”, merce, oggetti che si possono sfruttare o cedere per una mazzetta di dollari..
Quell’ondata di sdegno, tuttavia, sembra già svanita o comunque in calo. Già non se ne parla quasi più. Anzi, dalla Libia si sono levate voci e proteste contro la Cnn, accusata di manipolare o quanto meno esagerare la realtà. Non risulta che qualcuno sia intervenuto a Sabha e tutto procede come prima: lo dimostra il grido d’aiuto arrivato da quei mille e passa giovani detenuti a Berk. Eppure si sa praticamente tutto di questo lager. “Si sa persino il nome del trafficante che ne è a capo – rileva don Zerai – E’ Azi Aziz, un sudanese noto, a quanto pare, per godere della protezione o comunque della tacita complicità di vari capi tribali e amministratori locali”. Si tratta sicuramente di un personaggio “potente”. Il suo nome è pronunciato ancora con timore persino da numerosi profughi che, passati per la sua prigione, sono poi riusciti a pagarsi il riscatto. Come Milet, un ragazzo eritreo di 20 anni che, sbarcato in Italia nel luglio di quest’anno, dopo un viaggio durato circa 18 mesi, è ora ospite di un centro di accoglienza a Bologna. La sua storia è un po’ la storia di quasi tutti i giovani finiti nei lager libici, a cominciare dai mille di Berk. Una storia iniziata alla fine di gennaio del 2016, quando Milet è partito da Khartoum insieme a  una ragazza, Yowhanna, e ad altri 45 giovani eritrei o somali, ammassati su un camion allestito da una organizzazione di “passatori”.
“Lasciata Khartoum – racconta – dovevamo attraversare il Sahara sudanese e poi passare il confine con la Libia. Un itinerario che generalmente richiede dai tre ai sette giorni. Il nostro trasporto è stato però intercettato e fermato, in pieno deserto, da un gruppo di banditi ciadiani., nella zona del Sahara dove in pratica i confini nazionali tra Sudan, Ciad e Libia sono solo teorici. Una specie di terra di nessuno. Quei banditi ci hanno sequestrati e presi tutti prigionieri. Doveva essere un piano prestabilito, perché pochi giorni dopo ci hanno venduto a un clan di trafficanti di uomini, quello guidato da un eritreo di nome Tewelde il quale, come abbiamo saputo in seguito, ha pagato ai ciadiani 700 dollari per ciascuno di noi. Oltre 30 mila dollari in tutto. Siamo rimasti nelle mani di questa banda per circa quattro mesi. Per liberarci ci hanno chiesto 3.500 dollari a testa, sette volte più di quanto Tewelde ha pagato ai predoni che ci avevano catturato. Nessuno di noi aveva tutti quei soldi, ma non c’era scampo: se volevamo essere rilasciati, dovevamo pagare. Stavamo cercando di mettere insieme la somma, con l’aiuto di familiari e amici in Eritrea e in Europa, quando Tewelde ci ha venduti a un altro clan di trafficanti. A guidare questo secondo gruppo era Azi Aziz. Deve aver pagato molto, perché per rilasciarci pretendeva ben 7.500 dollari, più del doppio di quanto ci aveva chiesto Tewelde”.
“Quella di Aziz credo sia una banda più grande di quella di Tewelde. Quando ci hanno presi, nella prigione lager dove siamo stati rinchiusi c’erano già numerosi altri prigionieri, profughi come noi catturati nel deserto. Con Tewelde le condizioni di vita nel centro di detenzione dove ci tenevano nascosti, sempre in Libia, erano molto dure. Ma con Aziz è stato un incubo. Alcuni non ce l’hanno fatta più: le torture e le percosse continue, aggiunte alla disperazione di non riuscire a trovare il denaro per il riscatto e, dunque, la prospettiva di rimanere in quell’inferno per chissà quanto tempo, li hanno spinti a suicidarsi. Per le ragazze era ancora più dura. Yowhanna è stata violentata più volte dai nostri aguzzini. La prima volta appena ci hanno portato nel lager di Aziz. Ed è rimasta incinta. La situazione era particolarmente difficile per noi eritrei. Forse anche per motivi religiosi. Noi eritrei eravamo quasi tutti cristiani mentre Aziz e i suoi sono musulmani. Così, ad esempio, i somali, musulmani anche loro, avevano, rispetto a noi, un trattamento meno pesante. Credo anzi che più di qualcuno tra i somali collaborasse con i trafficanti. Ma, a proposito di collaboratori, ce n’erano anche di eritrei. E proprio un paio di eritrei ci hanno teso un tranello. Si sono offerti di fare da mediatori con Aziz per abbassare la cifra del riscatto. Sono andati avanti per un po’ e poi ci hanno detto che Aziz si sarebbe ‘accontentato’ di 3.000 dollari a testa. In molti abbiamo deciso di cercare di raccogliere questa somma, aiutati da amici che avevamo potuto contattare per telefono. Quando più quote sono state pronte, abbiamo consegnato il denaro, ma quei mediatori sono spariti. Non si sono fatti più vedere. Allora abbiamo chiesto spiegazioni a un emissario di Aziz: ci siamo sentiti rispondere che non sapeva niente di questa mediazione e che, in sostanza, eravamo stati truffati. A quel punto, però, hanno abbassato il riscatto: non più 7.500 ma ‘solo’ 4.000 dollari”.
“Intanto – precisa Milet – erano passati diversi mesi. Tra la fine del 2016 e l’inizio del 2017 Yowhanna ha avuto il bambino nato dallo stupro che aveva subito. Pochi giorni dopo è morta. L’hanno trovata senza vita in uno dei bagni. Del bimbo si è presa cura una sua compagna, anche lei eritrea. E un’altra donna è morta, proprio in quei giorni, in seguito a uno stupro. L’ha violentata un sudanese. Da allora non è stata più lei: è come impazzita. Come se avesse perso ogni interesse a vivere. Pure lei è stata trovata morta, forse suicida. Poi finalmente, più di un anno dopo che la banda di Aziz mi aveva comprato da quella di Tewelde, sono riuscito a pagare il riscatto e mi hanno lasciato andare. Verso la fine di luglio mi hanno imbarcato su un gommone. Un paio di giorni dopo siamo stati intercettati da una nave di soccorso. Sono sbarcato in Italia a un anno e mezzo di distanza da quando ero partito da Khartoum. E io posso considerarmi fortunato. Mi hanno raccontato, ad esempio, che la ragazza che si era presa cura del figlio di Yowhanna è annegata, insieme al bambino che aveva ancora con sé, nel naufragio del battello con cui era partita dalla Libia, più o meno nel mio stesso periodo. Non solo. So di altri compagni, prigionieri come me prima di Tewelde e poi di Aziz, che sono stati intercettati in mare dalla Guardia Costiera libica e riportati in Libia. Ora sono rinchiusi in qualche centro di detenzione. In pratica, di nuovo prigionieri…”.
“Vicende come quella di Milet – rileva don Zerai – evidenziano qual è tuttora la situazione in Libia, ma anche negli altri paesi di transito. Una situazione che la Fortezza Europa si ostina a non voler vedere, pur di crearsi un alibi per arroccarsi sempre di più. Ma le voci dei mille ragazzi sequestrati a Berk e quelle di altri come loro, a migliaia, non possono restare inascoltate. Le autorità libiche e quelle europee, quelle italiane in particolare, hanno il dovere di liberarli e portarli in un luogo sicuro. Non ci sono scusanti: si sa dove sono, si sa cosa accade in quel lager, si sa qual è l’ammontare del riscatto, si sa chi è il capo clan che tira le fila. Si sa persino che, in situazioni del genere, ci sono spesso complici dei trafficanti nelle istituzioni libiche, come ha ripetutamente denunciato la Missione Onu: nel caso specifico sarebbe un certo Yousuf. Allora, non intervenire al più presto non solo è assurdo: una scelta e un fatto incomprensibili. E’ molto di più: è un indizio di complicità palese, di cui si macchiano l’Italia e l’Europa, per le sofferenze inumane patite da quei ragazzi. Da quei mille di Berk e da tantissimi altri intrappolati tra il Sahara e il Mediterraneo”.
  

Da Tempi Moderni 

venerdì 22 dicembre 2017

Libia: Sequestro di persona all'ordine del giorno, vittime profughi e migranti.

Appello Urgente !

Libia: Profughi Eritrei ed etiopi circa 1050 persone da 6 mesi vivono segregati e sequestrati da bande criminali nella località chiamata Berk non lontano da Sebha, chi gli tiene sequestrati pare che sia un cittadino sudanese di nome Azi Aziz con la complicità di amministratori locali Sig. Yosuf, i sequestratori pretendono soldi dalle loro vittime circa la meta hanno già pagato l'altra meta non paga perché non ha, perciò tutti giorni subiscono maltrattamenti e violenze fisiche ed psicologiche le continue minacce di morte, di essere venduti come schiavi se non pagano. In questo lager sono già morte 5-6 persone a cause di percosse e mal nutrizione, totale assenza di assistenza medica in caso di malattie.
Il nostro appello alle autorità libiche ed italiane, a chiunque possa intervenire per liberare e trasferire queste persone in un luogo protetto e sicuro lo facciano a più presto possibile. A ridosso delle festività natalizie anche questi fratelli e sorelle ritrovino la loro dignità di uomini e donne liberi come Dio gli ha creati liberi.


don Mussie Zerai

mercoledì 20 dicembre 2017

Migranti, il blocco in Libia moltiplica arrivi e morti sulla rotta spagnola


di Emilio Drudi

Si erano nascosti su una chiatta merci partita il 3 dicembre da Dakar, in Senegal, e diretta in Belgio. Erano in 19, tutti giovani senegalesi tra i 18 e i 25 anni. Li hanno scoperti solo undici giorni dopo, il 14 dicembre, quando la chiatta navigava in pieno Oceano Atlantico, a nord delle Canarie, trainata lentamente da un rimorchiatore. Erano ormai allo stremo: spossati dalla fame, senza quasi più acqua da bere, molti privi di conoscenza e con gravi sintomi di ipotermia. Così debilitati da far temere che, in gran parte, non ce l’avrebbero fatta neanche a reggere le poche ore necessarie a raggiungere l’Arcipelago, dirottando il rimorchiatore. Per salvarli è stato necessario far intervenire un elicottero dell’esercito, che li ha trasportati in ospedale, facendo la spola più volte tra l’isola di Gran Canaria e la nave. Si sono salvati tutti, ma c’è da credere che, se non li avessero scoperti, sicuramente molti di loro sarebbero morti. Forse quasi tutti, poiché il rimorchiatore con la chiatta a traino aveva davanti ancora vari giorni di navigazione fino al porto di Anversa.
L’hanno scampata per poco anche altri 16 giovani trovati il 16 ottobre in un container su una nave da carico liberiana, il Panther, proveniente dal Ghana e approdata nel porto di Algeciras, in Andalusia. Erano nascosti come minimo da 10 giorni: da quando, cioè, il cargo era salpato da Accra. Anzi, con tutta probabilità, da almeno un giorno prima della partenza, perché è verosimile che siano riusciti a nascondersi all’interno del container quando si trovava ancora sulla banchina dello scalo merci, in attesa di essere caricato a bordo. Poi sono rimasti lì, al buio, con una scorta di acqua e cibo insufficiente, perché non avevano previsto che il viaggio sarebbe durato tanto a lungo. Durante la rotta nessuno dell’equipaggio si è accorto di loro. Li ha scoperti una squadra di tecnici e operai, insospettiti da alcuni rumori, mentre si accingevano alle operazioni di scarico: erano quasi tutti semi-asfissiati, molti privi di conoscenza e anche quelli ancora in sé non riuscivano neanche ad alzarsi o a trovare la forza di muovere un passo.
Due imbarchi clandestini di massa da due dei più importanti porti atlantici dell’Africa è difficile che si siano verificati per caso. Sembrano indicare, piuttosto, che potrebbero essersi messe in moto organizzazioni che “offrono” questo genere di “viaggi” ai migranti in fuga dall’Africa subsahariana. Per molti versi, sembra profilarsi una variante della rotta atlantica “tradizionale”, dall’Africa verso le Canarie o talvolta verso l’Andalusia, percorsa finora con barche da pesca. Rotta che non si è mai interrotta del tutto, dopo le restrizioni introdotte dall’inizio degli anni 2000, ma che adesso, sulla scia della progressiva chiusura delle rotte mediterranee, pare stia riprendendo rapidamente quota, anche se in forme diverse e, soprattutto, in condizioni molto più difficili e pericolose. Lo dimostrano almeno altri due episodi, che hanno visto protagonisti più di 200 migranti.
Il più drammatico risale al 22 novembre. Un cayuco, la tipica barca da pesca della costa occidentale africana, è rimasto alla deriva per quasi una settimana, con 103 tra uomini e donne. Era partito dal Senegal la notte tra il 15 e il 16, puntando verso una delle Canarie. Le cattive condizioni del mare lo hanno spinto fuori rotta. L’allarme è scattato il 20, cinque giorni dopo la partenza, su iniziativa dei familiari di alcuni giovani che erano a bordo, preoccupati per la prolungata mancanza di contatti e notizie. Per ritrovare i dispersi ci sono voluti altri due giorni di ricerche. Quando un aereo del Salvamento Maritimo spagnolo li ha individuati e una motovedetta li ha recuperati, portandoli a Gran Canaria, avevano perso ormai ogni speranza. Un mese prima, il 17 ottobre, un cayuco delle stesse dimensioni era riuscito ad arrivare ed a sbarcare 95 migranti, sempre nella baia di Gran Canaria, dopo otto giorni di navigazione. Anche questo era salpato dal Senegal.
Di fronte a questi sbarchi, la Federazione delle associazioni africane delle Canarie ha segnalato che, secondo informazioni raccolte nei paesi d’origine, la rotta atlantica si sta riattivando. “Sarà bene che le Canarie si preparino a un’ondata di arrivi – ha ammonito il presidente, Teodoro Bondyale – Sostenere che non c’è una ripresa dell’immigrazione verso l’Arcipelago significa negare l’evidenza”. Ora però i punti d’imbarco sono diversi. Quelli usati in Marocco e in Mauritania sono stati quasi del tutto abbandonati a causa dei controlli serrati da parte della polizia dei due paesi che, in attuazione del Processo di Rabat (l’accordo di contrasto all’immigrazione sottoscritto con l’Unione Europea nel 2006), hanno ormai “blindato” il litorale e le acque territoriali. In alternativa, ci si è spostati molto più a sud, sulle coste del Senegal o addirittura della Guinea. Rispetto a prima, si parte con cayuchi più grandi, capaci di trasportare fino a 100 persone, ma si affronta una rotta di centinaia di miglia più lunga, in mare aperto. Con tutti i rischi che ne conseguono. Anzi, moltiplicando i rischi, già enormi, che si correvano imbarcandosi in Mauritania o nel Sahara Occidentale, un tragitto nel quale, per quanto più breve, in nove anni, dal 1999 fino al 2007, si sono perdute più 2.050 vite umane.
I migranti sanno bene a cosa vanno incontro: molti di quei duemila e passa morti nell’Atlantico venivano dai loro stessi villaggi e dai loro stessi quartieri nelle grandi città. Eppure partono ugualmente, riscoprendo e riportando in primo piano quella che è stata, all’inizio di questo millennio, una delle principali porte d’ingresso dall’Africa in Europa, con un flusso di arrivi alle Canarie in costante crescita, fino al picco di 31.678 raggiunto nel 2006, su un totale di 83.957. L’inversione di tendenza si è avuta nel 2007, quando gli sbarchi, pur rimanendo ancora numerosi (12.478), hanno registrato di colpo una flessione del 60 per cento rispetto all’anno precedente. Grossomodo il medesimo andamento si è avuto nello stretto di Gibilterra, l’altra “via marittima” spagnola, che negli stessi anni ha fatto registrare 68.284 arrivi, con due picchi particolari nel 2000 (12.789) e nel 2001 (14.405) e un andamento costante tra i 9 mila e i 7 mila fino ai 7.502 del 2006, per poi scendere a circa duemila in meno (5.579) nel 2007 e continuare rapidamente la discesa negli anni successivi.
Il calo dopo il 2006 ha un motivo ben preciso. Il 2006 è l’anno della firma del Processo di Rabat, che ha delegato controlli e respingimenti alle polizie dei 27 Stati africani firmatari dell’accordo ma, soprattutto, alle forze di sicurezza della Mauritania e del Marocco, sotto l’egida dell’agenzia europea Frontex. Le continue retate, gli arresti, le carcerazioni nei numerosi, nuovi centri di detenzione, i rimpatri forzati, hanno progressivamente blindato non solo la rotta atlantica ma l’intera “via spagnola”, impedendo anche gli imbarchi nel Mediterraneo, sulla costa di Tangeri, e contrastando con grande durezza i tentativi di valicare i valli fortificati delle enclave di Ceuta e Melilla. La blindatura decisa a Rabat ha “tutelato” la Spagna, deviando le vie di fuga dell’Africa occidentale verso il Niger e la Libia, per puntare poi via mare sull’Italia. Adesso, però, questa “muraglia” si sta incrinando per effetto di quella identica eretta dal Processo di Khartoum anche sulla rotta del Mediterraneo Centrale e al confine meridionale della Libia, in pieno Sahara. Oltre che la ripresa della rotta atlantica, lo confermano gli assalti che, nonostante il fitto schieramento di polizia, si ripetono quasi ogni notte contro le alte recinzioni di cemento e filo spinato intorno a Ceuta e Melilla e il moltiplicarsi degli imbarchi dalle spiagge marocchine del Mediterraneo, usando, per sfuggire ai controlli, battelli sempre più piccoli, persino canottini-giocattolo di plastica, lunghi appena due metri. Con il risultato che si moltiplicano anche i morti: una cinquantina dalla fine di novembre a metà dicembre solo nello Stretto di Gibilterra.
E’, ancora una volta, la prova che le barriere erette dalla Fortezza Europa non riescono a fermare i flussi dei migranti: li deviano e li rendono sempre più pericolosi e carichi di morte, ma non li fermano. “E’ illusorio pensare di bloccare con muri, polizia e campi di concentramento la fuga per la vita di migliaia di persone – dice Abdullah, un ragazzo somalo arrivato in Italia dopo un’odissea durata più di un anno e mezzo ed ospitato ora in un centro accoglienza in provincia di Torino – E’ come voler stringere l’acqua in una mano. In un pugno. Ma il pugno, per quanto stretto, resta vuoto: l’acqua passa e va perduta. Questo sta accadendo. La situazione dei nostri paesi ci ha costretto a scappare. La vita ci sta portando ovunque. Molti, come me, verso l’Europa, alla quale ci rivolgiamo con fiducia e speranza. I muri eretti per fermarci, però, stanno uccidendo questa speranza. E la nostra fiducia nell’Europa, per i valori di libertà, solidarietà, giustizia che dice di seguire, rischia di perdersi per sempre. Proprio come l’acqua sfuggita da un pugno…”.




Da Tempi Moderni

venerdì 1 dicembre 2017

Don Zerai: “A Calais è di nuovo jungla: morto il senso stesso di umanità”  




di Emilio Drudi



Dormono all’aperto tra le dune, accampati alla meglio nella boscaglia, cercando di ripararsi dal freddo con qualche coperta. I più fortunati con un sacco a  pelo. Sono giovani e la dura esperienza di profughi li ha abituati a sopportare. Ma le lunghe notti sulla Manica sembrano non finire mai. E poi si dorme sempre con un occhio solo, pronti a svegliarsi e a scappare. Perché spesso, all’alba, la polizia irrompe in questi campi improvvisati e non fa complimenti. “Basta un niente, il minimo cenno di resistenza – ha raccontato qualcuno di loro – per essere trattati a spintoni, a colpi menati a caso… A spruzzi di spray urticanti, dolorosi, sul viso e sugli occhi”.

E’ la nuova jungla di Calais, in Francia, come l’ha trovata don Mussie Zerai, che è stato quattro giorni sul posto, dal 20 al 24 novembre, per rendersi conto di persona della realtà che gli era stata segnalata e descritta a più riprese, negli ultimi mesi, da alcuni ragazzi eritrei. La prima jungla è stata smantellata giusto un anno fa: le ultime operazioni di sgombero e trasferimento risalgono al novembre 2016. Dopo anni di sostanziale inerzia, le istituzioni furono costrette a intervenire, sulla scia delle proteste di numerose Ong, francesi e internazionali, e della denuncia di un vasto comitato d’opinione promosso da uomini di cultura, attori, giornalisti, operatori umanitari, associazioni, politici, gruppi di cittadini, che si sono rivolti alla magistratura per far rispettare i diritti degli oltre settemila migranti bloccati intorno a Calais, dove erano arrivati col miraggio di passare in Inghilterra. Per chiudere quella enorme bidonville sono stati organizzati campi di accoglienza in tutta la Francia e, di pari passo con i  trasferimenti, si è demolita, pezzo dopo pezzo, l’enorme jungla di tende e baracche. Tuttavia, la fine dell’assedio a Calais da parte dei disperati in cerca di una via per arrivare nel Regno Unito, non è durata a lungo. Altri profughi sono comparsi, sempre più numerosi, già nelle settimane immediatamente successive alle ultime evacuazioni. Oggi sono centinaia. Censimenti ufficiali non ce ne sono, ma alcuni volontari dicono quasi duemila. Certamente più di mille.


“Si tratta in buona parte di giovanissimi – spiega don Zerai – Minorenni non accompagnati, spesso approdati qui dopo una fuga durata mesi o addirittura anni. Soprattutto eritrei, etiopi, afghani. Ragazzini costretti a vivere all’aperto, per strada, dove capita. Ad avere come tetto soltanto un telo o un cespuglio tra le dune anche in questi giorni di freddo e pioggia. Per lo più sono ‘dublinati’: giovani, cioè, espulsi da vari Stati europei in base al regolamento di Dublino. Dalla Germania, ad esempio. O dalla Svizzera e dai paesi nordici. Sono arrivati e continuano ad arrivare a Calais come all’ultima spiaggia: per provare a salire di nascosto su un treno dell’Eurotunnel o per cercare un imbarco di fortuna al porto. Esattamente come prima, ai tempi della vecchia jungla, quando decine di rifugiati hanno perso la vita nel tentativo disperato di passare: almeno una sessantina dal 2014 fino allo smantellamento della bidonville. Perché superare la Manica da clandestini è molto difficile. Anzi, ormai è quasi impossibile. Così si è creato di nuovo un imbuto enorme. Un imbuto chiuso che si allarga sempre di più, alimentato da una umanità disperata e in balia di tutti. In balia anche di criminali che approfittano di questa sacca enorme di disperazione per alimentare, con quei ragazzi, i giri d’affari più sporchi: lavoro-schiavo, prostituzione, mercato del sesso. Sono proprio i più giovani ad essere i più esposti. Ma non sanno a chi rivolgersi. Le istituzioni li trattano come un ‘problema di sicurezza’, gente di cui disfarsi e da allontanare. La polizia si comporta di conseguenza. Non a caso tutti i migranti ne hanno paura. A quanto mi hanno raccontato, gli agenti avrebbero un atteggiamento duro e intimidatorio anche per un semplice controllo e ricorrerebbero spesso a una violenza assurda, per i motivi più futili o addirittura senza motivo”.

Queste violenze, secondo molti giovani ascoltati da don Zerai, si verificherebbero ovunque. “Capita spesso – afferma don Zerai riferendo appunto alcune testimonianze – che i campi di fortuna nella boscaglia siano evacuati con la forza. All’alba vengono circondati e poi squadre di agenti entrano tra i ripari di teli e coperte. Mi dicono che basta un niente per subire prepotenze o magari essere picchiati. ‘Quando ci fermano – mi hanno specificato alcuni ragazzi – certi poliziotti sembra quasi che si divertano a maltrattarci mentre altri, sia uomini che donne, tutti in divisa, assistono senza fermarli. Anzi, magari ridono, come se si divertissero a loro volta’. Se questi racconti hanno fondamento, sarebbe un fatto gravissimo. Si parla di violenze commesse da uomini in divisa che rappresentano lo Stato e che dovrebbero tutelare le persone più deboli, garantendone i diritti e la dignità. Occorre allora verificare, indagare, aprire un’inchiesta ufficiale. Denunce del genere, insomma, non possono essere lasciate cadere nel nulla…”.


Questo clima di violenza si ripeterebbe anche in piena Calais. Don Zerai: “In città i profughi si riuniscono nei punti in cui c’è la possibilità di avere accesso libero alla connessione internet. Per loro è essenziale: è l’unico modo che hanno di contattare i familiari. Alcune formazioni di estrema destra non li vogliono in città e non di rado organizzano vere e proprie spedizioni punitive per scacciarli a furia di calci e pugni, bastonate. Si respira, insomma, un’atmosfera di ostilità e tensione. E, tra i profughi, di grande insicurezza. La polizia interviene spesso, ma non sembra contribuire granché a risolvere questi problemi. Anzi… Mi dicono, ad esempio, che anche in occasione dei pestaggi condotti da quei naziskin, non sempre gli agenti trattano i migranti come le vittime, ma come ‘parte del problema sicurezza’. E quando, per un qualsiasi motivo, decidono di disperdere i gruppi di stranieri, se qualcuno accenna a resistere, i loro metodi, già bruschi, sfociano nella violenza. Alcuni ragazzi hanno riferito che qualche volta sarebbero stati esplosi persino dei colpi di pistola. Sembra incredibile che possano essersi verificati episodi del genere, ma sono portato a credere che le denunce che ho ricevuto abbiano un fondamento. Sembrano provarlo diversi giovani con le braccia o le gambe spezzate. Li ho ascoltati di persona e mi hanno assicurato che quelle fratture sono il frutto delle percosse subite. Un modo di fare inconcepibile, che sembra aver creato un vero e proprio stato di terrore. Una paura istintiva, che spinge a scappare anche di fronte a un semplice alt per un controllo, nel timore di essere fermati o altro. Ovunque capiti e spesso esponendosi a rischi terribili. Come saltare la recinzione e attraversare di corsa l’autostrada. Mi hanno detto che proprio in una circostanza del genere una ragazza sarebbe morta, travolta e uccisa da un’auto…”.

Ai tempi della “jungla 1”, quando intorno a Calais vivevano accampati oltre 7 mila migranti, c’era una vasta mobilitazione di volontari e associazioni umanitarie per assicurare un minimo di assistenza. “Ci sono ancora – rileva don Zerai – Non così numerosi come allora, ma ci sono. Anche per loro, però, è tutto molto più difficile. L’amministrazione locale, di destra, ha emanato un’ordinanza che impone il divieto assoluto di distribuire ai rifugiati cibo e bevande; di organizzare alloggi per dormire, sia pure di fortuna; di predisporre strutture elementari, come servizi igienici e docce. Le associazioni si sono mobilitate, facendo ricorso al Tribunale, e qualcosa l’hanno ottenuto. Molto meno, tuttavia, dei tempi della “jungla 1”. Oggi non c’è una sola mensa né un luogo dignitoso dove poter mangiare. Ci sono unicamente dei punti di distribuzione all’aperto, quasi sempre in zone isolate e lontano dal centro di Calais. Lontano da tutto e da tutti. E’ stato predisposto un locale docce, ma si ha diritto di accedervi una sola volta alla settimana e con turni di appena 6 minuti a persona. E ci sono distribuzioni periodiche di sacchi a pelo, coperte, vestiti pesanti, organizzate dalla Caritas e da gruppi laici. Spesso però, con l’evacuazione e lo smantellamento dei campi improvvisati, i ragazzi perdono tutto, perché la polizia non esita a distruggere tende, giacigli, masserizie. Perfino i telefonini. E’ un calvario. E con il freddo che è ormai arrivato si pongono gravi problemi di salute: sono tanti i rifugiati febbricitanti e malati, magari di bronchite o di polmonite, ma non sanno a chi rivolgersi, se non all’aiuto dei volontari”.


E’ un quadro che richiama quello della prima jungla, che ha suscitato un moto di indignazione generale ma che sembrava ormai “archiviata”, finita per sempre. “E’ così – conclude don Zerai – E fa rabbia pensare che proprio qui a Calais, dove accade tutto questo, hanno investito milioni di euro per costruire muri lungo l’autostrada e intorno all’area portuale, per impedire di accedere al transito verso l’Inghilterra, ma non si è speso nulla per creare un sistema di accoglienza e assistenza dignitoso. L’ordine sembra uno solo: quello di allontanare i migranti a ogni costo. Eppure, insisto su questo, si tratta in maggioranza di soggetti estremamente vulnerabili: ragazzi minorenni, spesso ragazzini e ragazzine di appena 14 o 15 anni, esposti ad ogni rischio. Quel poco di assistenza che c’è si deve esclusivamente alla Chiesa Cattolica e a una serie di organizzazioni laiche che si battono contro l’indifferenza e il pregiudizio anti migranti. Senza di loro, a Calais, nella civilissima Francia, i diritti alla base della democrazia sarebbero definitivamente morti. Di più: sarebbe morto il senso stesso di umanità”.      

mercoledì 15 novembre 2017

Allo stremo migliaia di profughi prigionieri dei trafficanti

Agenzia Habeshia, richiesta di aiuto
Le denuncia dell’Alto Commissario Onu per i Diritti Umani, Zeid Raad Al Hussein – che ha definito “inumani” gli accordi per il controllo dell’immigrazione sottoscritti tra l’Europa e la Libia – conferma gli allarmi che l’agenzia Habeshia lancia ormai da anni. Il blocco della rotta del Mediterraneo Centrale – dopo quelli del Mediterraneo Occidentale e Orientale – ha ridotto per il momento il flusso dei profughi e dei migranti dall’Africa verso l’Europa. Ma già si stanno aprendo altre rotte. E, soprattutto, questa diminuzione temporanea degli sbarchi è un risultato conseguito sulla pelle dei migranti. Un risultato, cioè, fatto pagare ai migranti, i soggetti più deboli e indifesi, con sofferenze infinite: torture, maltrattamenti sistematici, stupri e violenze di ogni genere, riduzione in schiavitù. Spesso la vita stessa.
L’ultima conferma dell’autentico girone infernale nel quale gli accordi Europa-Libia e, in particolare, Italia-Libia, hanno intrappolato centinaia di migliaia di disperati, è arrivato ad Habeshia in queste ore. Un giovane esule eritreo residente in Svezia ha ricevuto una drammatica richiesta di aiuto dal fratello minore, anch’egli fuggito per sottrarsi all’immensa prigione in cui la dittatura ha trasformato l’Eritrea. Arrivato in Libia dopo un viaggio denso di pericoli nel deserto, questo ragazzo è stato catturato da una banda di trafficanti. Attualmente è segregato in un capannone-prigione vicino alla costa, in una località che, a quanto ha sentito dire dai carcerieri, dovrebbe chiamarsi Kewsherif. La struttura apparterrebbe a un certo Abdu Selam. Tra quelle mura sono rinchiuse, insieme a lui, centinaia di persone: donne, uomini, numerosi bambini, praticamente abbandonati a se stessi. Da giorni non ricevono cibo e persino l’acqua da bere è scarsa e di cattiva qualità. Nessuna forma di assistenza. Altri 400 prigionieri, dopo aver pagato il riscatto per la traversata del Mediterraneo, sono stati trasferiti in un luogo diverso. Nessuno dei compagni rimasti nel capannone sa dire dove. Molti però hanno avuto notizia che nella zona ci sono numerosi altri lager del genere, con migliaia di detenuti in estremo pericolo e bisognosi di aiuto al più presto.

Il ragazzo che ha segnalato questa ennesima emergenza e alcuni suoi compagni sono raggiungibili ai seguenti numeri telefonici:
– 002189#####940, 002189#####815, 002189#####465, 002189#####790, 002189#####866
Habeshia fa appello all’Unione Europea, ai singoli Stati membri e in particolare al Governo italiano, all’Unhcr, all’Oim perché intervengano al più presto, con ogni mezzo possibile, per rintracciare e mettere al sicuro tutte queste persone.
In attesa della cancellazione degli accordi con la Libia e di una auspicabile, radicale revisione della politica europea sull’immigrazione, è questo l’unico modo per dare una prima risposta concreta al duro, giusto, drammatico richiamo arrivato dall’Alto Commissario Onu per i Diritti Umani
Agenzia Habeshia 
Roma, 15 novembre 2017

martedì 7 novembre 2017

“How can we support States to receive large numbers of refugees  in a safe and dignified manner?


Statement by H.E. Archbishop Ivan Jurkovič, Permanent Observer of the Holy See  to the United Nations and Other International Organizations in Geneva at the 2nd Thematic Discussion towards a Global Compact on Refugees Panel 2: “How can we support States to receive large numbers of refugees  in a safe and dignified manner?” 17 October 2017



Mr. Moderator,

The generous and admirable responses of those countries that, in spite of their own hardships, have kept their borders and hearts open to welcome refugees, ought to receive tangible and prompt support from the international community. In fact, without this solidarity, it would be impossible to assure “the widest possible exercise of their fundamental rights and freedoms” to which they are entitled1. 

The 1951 Convention clearly states that refugees are a common responsibility of the international community. As a consequence, the international community has to shoulder collectively the responsibility of assisting refugees. Thus, in the distribution of financial resources for development on the part of international institutions, special consideration ought to be given to refugee-hosting countries, for projects that benefit refugees but also “reward” the generosity of local families and communities. After all, these are “investments” in humanity and peace for the sake of the common good.

At the same time, however, while ensuring better preparedness for large movements of refugees, this should not serve as a pretext for “subcontracting” the responsibility for protection to certain countries simply because of their geographical proximity to unstable areas. Nor should it be a justification for the “containment” of movement of refugees, but should truly be an expression of genuine international cooperation and solidarity.

Mr. Moderator,

As Pope Francis reminds us, “defending the inalienable rights of refugees, ensuring their fundamental freedoms and respecting their dignity are duties from which no one can be exempted.”2   A responsible and dignified welcome of refugees “begins by offering them decent and appropriate shelter. The enormous gathering together of persons seeking asylum and of refugees has not produced positive results. Instead these gatherings have created new situations of vulnerability and hardship.”3

                                              

To enable States to receive large numbers of refugees in a safe and dignified manner entails expanding space for asylum, for humanitarian corridors to avoid unbearably long waiting periods, for family reunification, for resettlement and other durable solutions; it also entails promoting alternatives to detention; adopting policies and practices that guarantee religious freedom; raising awareness in public opinion regarding the underlying political causes and the search for peaceful solutions and co-existence.4 

It also means further developing effective partnerships and synergies to help provide medical, educational, and social services upon arrival. In this regard, it is important to include civil society, religious institutions and faith-based communities, as they can readily respond to arrivals and often provide emergency relief.

In sum, as the first U.N. High Commissioner for refugees, Dr. Gerrit Jan van Heuven Goedhart put it: “The essence is to find a little place, which is not just a roof over one's head, not just a place to live in. It is […] a series of elements which together constitute a man's independence and therefore his freedom and his dignity.”5

I thank you, Mr. Moderator.

________________________________________
1 Cf. Preamble of the 1951 Convention Relating to the Status of Refugees.
2 Address of Pope Francis to the International Forum on Migration and Peace, 21 February 2017.
3 Address of Pope Francis, Ibid.
4 Responding to Refugees and Migrants: Twenty Action Points, Migrants and Refugees Section, Holy See’s Dicastery for Promoting Integral Human Development.
5 Address of Dr. Gerrit Jan van Heuven Goedhart, United Nations High Commissioner for Refugees, Oslo, 12 December 1955.

How can we support receiving States to identify persons  in need of international protection?


Statement by H.E. Archbishop Ivan Jurkovič, Permanent Observer of the Holy See  to the United Nations and Other International Organizations in Geneva at the 2nd Thematic Discussion towards a Global Compact on Refugees Panel 3: “How can we support receiving States to identify persons  in need of international protection?” 17 October 2017


Mr. Moderator, 

Best practices and lessons learned do not always stem from positive experiences, but rather quite the contrary. 

When faced with large-scale situations it is important that receiving countries, especially developing ones, be given timely support to scale up or establish appropriate procedures to ensure that those with international protection needs are duly recognized. In this regard, the Delegation of the Holy See wishes to stress that international protection has to be seen as a dynamic and actionoriented function, rather than an abstract concept, aimed at safeguarding the dignity and safety of persons.

The adoption of inadequate or unfairly strict acceptance policies and lengthy modalities for processing asylum claims impacts dangerously on the safety of persons in need of protection, with the end result being increased human suffering. 

Mr. Moderator, 

The securitization of border control and the wellbeing of refugees and asylum seekers should not be seen as a dichotomy, but rather as mutually reinforcing. It is important to adopt inclusive and non-discriminatory national security policies that prioritize the safety and protection of citizens as well as those of refugees and asylum seekers fleeing armed conflict, persecution or widespread violence to find safety quickly by ensuring an expeditious screening and admission process.1

Indeed, an exclusively security-oriented approach ignores the tragedies that force people to seek protection elsewhere. Addressing the problem of identifying persons in need of international protection from the perspective of the uprooted, can help the international community to devise a more comprehensive and humane programme of action. In this regard, arbitrary and collective expulsions can never be a viable option. The principle of “non-refoulement” has to be respected in every case.

Finally, my Delegation wishes to draw attention to the increasing phenomenon of unaccompanied children seeking asylum, especially because this is frequently the direct result of the desperate situation of many families and because it is too often “solved” by an ambiguous system of detention. Could the panelists share some successful examples of policies and mechanisms in the identification of persons in need of protection that allow for greater sensitivity to the needs of refugee families, consistent with ethical legal provisions and practices?

I thank you, Mr. Moderator. 
                                             
 1 Responding to Refugees and Migrants: Twenty Action Points, Migrants and Refugees Section, Holy See’s Dicastery for Promoting Integral Human Development.

How can we support the inclusion of refugees in national systems and services?”


Statement by H.E. Archbishop Ivan Jurkovič, Permanent Observer of the Holy See  to the United Nations and Other International Organizations in Geneva at the 3rd Thematic Discussion towards a Global Compact on Refugees Panel 2: “How can we support the inclusion of refugees in national systems and services?” 18 October 2017



Mr. Moderator, 

While it is important to share the responsibility and burden of refugee reception and resettlement and to rightly stress what States are doing for refugees, it is also fair to ask ourselves: what are refugees doing for the host communities? 

Despite the tragedy and gravity of their situations, refugees bring their talents through knowledge, practical skills, experience, culture and spirituality that can enrich the receiving countries. The Delegation of the Holy See draws attention to the fact that so many are placed “on hold”, often at significant expense to host and donor countries, and wishes to elaborate briefly on two particular aspects that have been raised in the present panel discussion: education and health.

Today, over half of the refugees under UNHCR’s mandate are children, including a staggering 3.5 million refugee children aged 5 to 17 who did not have the chance to attend school last year.1 My Delegation wishes to highlight the critical importance of adopting policies that allow refugee children to access quality education from the early stages of their displacement, in order to protect them from human trafficking, forced labor and other forms of slavery. 

Schools are a form of protection where the safety of children can be monitored and fostered. It is important to enact policies which ensure that the primary and secondary education to which refugees have access meets the same standards of education received by citizens.2 

Mr. Moderator,

The importance of granting access to healthcare is self-explanatory. It is encouraging to hear that legislation is being passed to allow refugees to work, and to access national healthcare and education systems. The right to the enjoyment of the highest attainable standard of health should be exercised through non-discriminatory, comprehensive laws, policies and practices firmly rooted in the centrality of the human person and founded on the right to life.

In this regard, the health and well-being of refugees should not be considered as a separate variable from the health of the host population. The fear that refugees spread infectious diseases finds no evidence and ignores the tragedy of their situation. The integration of refugees into existing national health systems, plans and policies, could also help alleviate certain logistical barriers which have been too often experienced. 

Mr. Moderator, 

Access to education and healthcare inspires hope among refugees and greatly contributes to restoring their dignity. The Delegation of the Holy See wishes to encourage donor States to tailor aid and assistance to include the development of medical, educational, and social services infrastructure in hosting areas. A percentage of such assistance, as well as access to programs and services provided to refugees, could be also set aside for the benefit of local populations experiencing similar disadvantages. 

Let us keep in mind that, after all, the decision of our brothers and sisters to flee their home out of fear and desperation is a leap of faith in the solidarity and unity of the human family.

Thank you, Mr. Moderator

 1 http://www.unhcr.org/news/press/2017/9/59b6a3ec4/unhcr-report-highlights-education-crisis-refugee-children.html
2 Responding to Refugees and Migrants: Twenty Action Points, Migrants and Refugees Section, Holy See’s Dicastery for Promoting Integral Human Development.

Open-ended Intergovernmental Working Group on Transnational Corporations  and Other Business Enterprises with Respect to Human Rights Legal liability – Item 5


Statement by His Excellency Archbishop Ivan Jurkovič  Permanent Observer of the Holy See to the UN and Other International Organizations in Geneva at the Open-ended Intergovernmental Working Group on Transnational Corporations  and Other Business Enterprises with Respect to Human Rights Legal liability – Item 5 25th October 2017


Mr. Chair,
 “The twenty-first century, while maintaining systems of governance inherited from the past, is witnessing a weakening of the power of nation states, chiefly because the economic and financial sector, being transnational, tend to prevail over the political”1. Sometimes, as we will see, these economic entities “exercise more power than States themselves” 2. 

The financial crisis has demonstrated the difficulty of relying on business to voluntarily self-regulate. Economic theory has explained why we cannot rely on the pursuit of self-interest, and the experiences of recent years have reinforced that conclusion. In particular, weak and poor States suffer the consequences of an asymmetry in the international system whereby the rights of business companies are backed up by hard laws and strong enforcement mechanisms, while their obligations are backed up only by soft laws, like voluntary guidelines. Therefore, “there are numerous people, especially immigrants, who, compelled to work ’under the table’, lack the most basic juridical and economic guarantees.”3 Another concern regards the ability of international corporations partially to escape territoriality and carve for themselves an “in-between” existence that evades national legislation. This allows them to navigate national legislations, take advantage of regulatory arbitrage and choose the jurisdictions that may offer the best return in terms of profit. But profit cannot be the only rational goal of business activity. When human rights are neglected, a systemic exclusion of the vulnerable comes about.  What is needed is stronger norms, and stronger laws and regulations to ensure that those who do not behave in ways that are consistent with these norms are held accountable.

 In response to this challenge, it is important to recognize that there are good reasons why international law might devote specific attention to transnational corporations and in particular their accountability for human rights abuses. An international legal instrument has the potential to make corporations criminally, civilly, and administratively liable, while guaranteeing the protection of human rights, providing access to judicial remedy, and adding an important tool for accountability. The protection of human rights is traditionally understood as something within the realm of public law, including constitutional, administrative and criminal law. In this sense, it could be useful to assign to that branch of domestic law a predominant role in upholding human rights vis-à-vis potential corporate abuses. 

 Also of critical importance is the liability of financial institutions incentivizing, supporting, or financing projects that jeopardize the enjoyment of human rights.  The international legal instrument must also take these into consideration and address them. Financial institutions must be held accountable when the projects they promote replicate the devastating effects of corporate violations of human rights.  

 Article 19 of the WHO Framework Convention on Tobacco Controls provides a helpful precedent asking Parties to “consider taking legislative action or promoting their existing laws, to deal with criminal and civil liability, including compensation where appropriate.” It calls for international cooperation between host and home courts, and exchange of information.  A treaty to hold transnational corporations accountable for their violations of human rights should include a clear provision, such as this one, that enshrines this obligation of the State.

The Holy See is aware that there are no easy solutions to address the multifaceted challenges of business and human rights, or to provide the effective remedy and accountability that victims legitimately seek as a matter of urgency. We need international cross-border enforcement, including broader and strengthened laws, giving broad legal rights to bring actions that can hold companies that violate human rights accountable in their home countries.   Soft law—the establishment of norms of the kind reflected in the Guiding Principles on Business and Human Rights—are critical; but they will not suffice.  We need to move towards a binding international agreement enshrining these norms.  

Mr. Chair,  Legal liability for business enterprises in domestic law typically includes responsibility under criminal, civil and administrative law. Business liability is thus a combination of public and private law substantive and procedural elements. However, the reality shows that those affected by business abuses, especially in certain jurisdictions, tend also to use private law, which needs to be transformed to respond better to those challenges. Practice across jurisdictions is thus divergent, as noted by, among others, the report of OHCHR on Improving Accountability and Access to a Remedy.  In this sense, it could be critical that the offences need to be defined with sufficient clarity in the treaty and always on condition that criminal liability of the legal entity does not exclude the personal individual criminal responsibility of company directors or managers.

 States Parties to the agreement must adopt effective legislative and administrative measures, in accordance with their national legal systems and principles, to establish the legal liability of business enterprises for business conduct that result in human rights abuses at home and abroad. Such responsibility should, as appropriate, be criminal, civil or administrative. 
Thank you, Mr. Chair. 

1 Pope Francis, Encyclical Letter Laudato si, n. 175.
2 Pope Francis, Encyclical Letter Laudato si, n. 196.
3 Pope Francis, Address to Participants in the World Congress of Accountants. Rome, 14 November 2014.

Le rôle des religions dans le renforcement de la paix mondiale Genève



Intervention de Son Excellence Monseigneur Ivan Jurkovič, Nonce Apostolique,  Observateur permanent du Saint-Siège auprès de l’Office des Nations Unies à Genève, à l’occasion du Colloque International :  Le rôle des religions dans le renforcement de la paix mondiale Genève, le 7 novembre 2017

1. La paix n’est ni un rêve, ni une utopie, la paix est possible. Nous sommes réunis aujourd’hui pour réfléchir ensemble sur la paix et nous encourager mutuellement afin de rester engagés à sa recherche. Sur la scène internationale, des menaces de guerre et des conflits en cours bouleversent et ruinent la vie de millions de personnes : des villes sont détruites, des enfants sont tués et mutilés, des femmes sont violées et humiliées, des réfugiés et migrants s’entassent dans des camps. Une technologie de plus en plus sophistiquée produit continuellement de nouvelles armes comme par exemple, les drones qui ignorent la présence humaine et toute responsabilité éthique. Parmi les causes profondes de la violence qui remplit une grande partie de l’actualité, nous trouvons le terrorisme, la piraterie, les agressions pour le contrôle de ressources minérales, les fondamentalistes qui défigurent le vrai visage de la religion. De plus, le capitalisme financier sans régulation, la compétition pour le pouvoir et la soif démesurée du profit, sont aussi une terre fertile où les conflits se développent, où la paix est sacrifiée, et où la dignité humaine est gravement violée.

2.  Au cours du siècle dernier, le concept de guerre a changé de telle manière qu’aujourd’hui la plupart des conflits se déroulent à l’intérieur d’un Etat et 90% des victimes sont des civils. Le concept de paix n’est pas tout simplement l’absence de guerre, mais le résultat d’un processus de purification et d’élévation culturelle, morale et spirituelle de chaque personne, de chaque peuple ; c’est un processus dans lequel la dignité humaine est pleinement respectée. Le cœur humain doit changer pour que les armes et les conflits n’étouffent pas « l’Evangile de paix » (Act 10:36) qui nous rappelle sans cesse : « Heureux les artisans de paix car ils seront appelés les enfants de Dieu. » (Mt 5:9).

3. Selon un vieil adage, il vaut mieux allumer une bougie que maudire l’obscurité. Le message de Jésus qui appelle heureux les artisans de paix nous dit que la paix est à la fois un don messianique et le fruit des efforts humains. Lorsque les relations de coexistence sont inspirées par des critères de pouvoir, de profit, ou par la négation de la nature, la paix ne peut pas se réaliser. En effet, la paix concerne l’intégralité de la personne humaine et requiert un engagement total de l’homme. Elle est fondée sur quatre piliers :  la vérité, la liberté, l’amour et la justice. L’amour de Dieu pour l’humanité reste une source d’espoir et d’aide pour atteindre cette paix profondément désirée par le cœur de l’homme et la famille humaine. Notre action, toutefois, est nécessaire pour transformer l’espoir en une paix concrète. Une telle action s’étend de la dotation d’instruments indispensables au bien commun de toute l’humanité, à la sécurité et la coexistence pacifique et à une structure participative efficace de gouvernance, jusqu’à l’acceptation de tous les droits fondamentaux de l’homme et des mesures progressives comme l’interdiction des ventes d’armes, l’établissement d’un système de traçage pour le trafic des armes, l’éducation sur le coût humanitaire de l’utilisation de petites et grandes armes. Effectivement, la paix est un besoin vital de la famille humaine, un but à atteindre et un processus à entreprendre.

4. Partout dans le monde, des représentants des différentes communautés religieuses et de tous les hommes et les femmes de bonne volonté s’engagent à travailler pour la paix, convaincus que la manière d’atteindre la paix repose sur l’engagement responsable de chaque personne à promouvoir l’entente entre les peuples, et à assurer un développement durable, harmonieux et équilibré. En effet, la sécurité légitimement attendue par les pays et les individus, n’est pas fondée sur la force des armes mais sur la reconnaissance que la paix est un don de Dieu qui veut que tous Ses enfants, sans distinction, jouissent de la qualité de vie qui leur est due en tant que Ses fils et Ses filles porteurs de Son image. Pour cette raison, avec courage, patience et persévérance, les artisans de paix ne faiblissent pas et reçoivent, dans leurs efforts, la grâce de marcher d’un pas sûr dans ce difficile voyage en perspective.

5. Dans ces dernières années, de multiples appels pour la paix et pour la fin de tous conflits violents ont émané des gouvernements, des Eglises et des communautés religieuses, ainsi que de tous les segments de la société civile. Le monde aspire vraiment à la paix. Le droit des peuples à la paix a aussi été le sujet de résolutions et de proclamations solennelles des Nations Unies. Il reste nécessaire d’agir sérieusement dans le domaine du désarmement nucléaire et conventionnel. Nous n’avons pas de temps à perdre afin de développer une culture de paix. Avec un cœur riche en réflexion et un esprit aimant, nous avançons dans la mise en œuvre du Préambule de la Charte des Nations Unies qui stipule : Préserver les générations futures du fléau de la guerre. L’une des voies maîtresses pour construire la paix est une mondialisation ayant pour objectif les intérêts de la grande famille humaine. C’est pourquoi, il est indispensable d’avoir un sentiment fort de solidarité globale entre les pays riches et les pays pauvres, orienté par un code éthique commun. 

6. Dans son premier message pour la Journée mondiale de la Paix (2014), le Pape François nous rappelle que « non seulement les personnes mais aussi les nations doivent se rencontrer dans un esprit de fraternité ». Il soutient le fait que ceci doit s’exprimer sous un triple aspect : « le devoir de solidarité, qui exige que les nations riches aident celles qui sont moins avancées ; le devoir de justice sociale, qui demande la recomposition en termes plus corrects des relations défectueuses entre peuples forts et peuples faibles ; et le devoir de charité universelle, qui implique la promotion d'un monde plus humain pour tous...dans lequel tous aient quelque chose à donner et à recevoir... »i

7. Constatant que « nombreux sont les conflits qui se poursuivent dans l'indifférence générale », le Pape François adresse « un appel fort à tous ceux qui, par les armes, sèment la violence et la mort : redécouvrez votre frère, et arrêtez votre main! » Il lance un appel à « une conversion des cœurs » qui « ...permette à chacun de reconnaître dans l'autre un frère dont il faut prendre soin, avec lequel il faut travailler pour construire une vie en plénitude pour tous ». Il exprime son souhait sincère « ...que l'engagement quotidien de tous continue à porter du fruit et que l'on puisse parvenir à l'application effective, dans le droit international, du droit à la paix comme droit humain fondamental, condition préalable nécessaire à l'exercice de tous les autres droits ».ii

8. C'est seulement avec « un authentique esprit de fraternité » que nous pouvons vaincre « l'égoïsme individuel qui empêche la possibilité des personnes de vivre entre eux librement et harmonieusement... » Cet égoïsme se développe socialement, soit dans les multiples formes de corruption..., soit dans la formation des organisations criminelles… » qui « offensent gravement Dieu, nuisent aux frères et lèsent la création, et encore plus lorsqu'elles ont une connotation religieuse ».iii Le Pape François identifie le potentiel de la fraternité à « garder et à cultiver [le don commun de] la nature », qui nous aide à reconnaître la « grammaire qui est inscrite » dans la création de Dieu « en utilisant sagement les ressources au bénéfice de tous... »iv

9. En conclusion, tenant en considération notre action dans au sein des Organisations internationales à Genève, nous devons continuer « à tisser une relation fraternelle...toute activité doit être, alors, contresignée d'une attitude de service des personnes, spécialement celles qui sont les plus lointaines et les plus inconnues. Le service est l'âme de cette fraternité qui construit la paix ».v


 i Pape François, Message pour la Journée mondiale de la Paix, 1er janvier 2014, n.4.
ii Id. n.7.
iii Id. n. 8.
iv Id. n. 9.
v Id. n. 10.

martedì 31 ottobre 2017

Blindato anche il Sahara: migliaia di profughi espulsi o respinti in pieno deserto


 

di Emilio Drudi



Dopo il Mediterraneo, sono sempre più blindati anche il Sahara e le altre “vie di terra”. Negli ultimi mesi migliaia di profughi sono stati respinti o espulsi, lungo la frontiera del deserto, dall’Algeria e dalla Libia. Soprattutto verso il Niger ma anche in Sudan, nel Ciad e nel Mali. Sempre che riescano ad arrivarci alla frontiera, perché in Sudan, ad esempio, la Forza di Intervento Rapido, la milizia tristemente nota per le stragi nel Darfur, si vanta di svolgere egregiamente il suo nuovo compito di “cacciatore di migranti”: dai suoi rapporti periodici risultano migliaia di arresti nelle città e sulle piste che portano al confine. Un “successo” che il presidente Al Bashir ha subito sfruttato per chiedere all’Europa altri finanziamenti e materiale tecnico-logistico per le sue forze di sicurezza: in sostanza, un programma di “aiuti” simile a quello varato per la Libia, alla quale sono stati destinati blindati, elicotteri, jeep e fuoristrada, visori notturni e persino un sistema radar di controllo in grado di coprire tutti i 5 mila chilometri della linea di frontiera meridionale.

Sono gli effetti del Processo di Khartoum, l’accordo che, firmato a Roma nel novembre 2014, sta entrando pienamente a regime grazie alla serie di patti bilaterali, tra governi o addirittura di polizia, stipulati negli ultimi tre anni, fino al memorandum tra l’Italia e la Libia sottoscritto a Roma il 2 febbraio scorso e ai relativi “derivati”, incluse le intese con alcune tribù del deserto e – secondo quanto ha denunciato l’agenzia France Presse – persino con dei trafficanti di uomini riciclati in gendarmi anti immigrazione a suon di milioni di euro.

Se ne parla poco, ma il giro di vite più evidente si registra in Algeria, dove dalla primavera scorsa, in seguito alle difficoltà crescenti della fuga attraverso la Libia, l’arrivo di migranti e richiedenti asilo si è moltiplicato. Un rapporto di Amnesty pubblicato il 23 ottobre parla di arresti arbitrari e respingimenti di massa. Solo nell’ultimo mese, oltre 2 mila donne e uomini sono stati fermati ed espulsi, tra l’altro con sistemi e in condizioni  terribili. “La maggior parte dei duemila intercettati dal 22 settembre in poi – scrive il quotidiano francese Le Monde, citando il dossier di Amnesty – sono stati arrestati ad Algeri e nel suo circondario, oppure a Blida, una città situata 50 chilometri a sud-ovest della capitale. Da qui la polizia li ha trasferiti in pullman a Tamanrasset, una località migliaia di chilometri più a sud, per abbandonarli poi in territorio nigerino appena al di là del confine”. Ad almeno un centinaio è andata anche peggio: sono stati “scaricati” in territorio algerino e costretti ad una lunga marcia nel deserto per raggiungere una località abitata del Niger dove potersi fermare e trovare un rifugio provvisorio: almeno sei ore di cammino nel nulla del Sahara, con temperature infernali, senza cibo e con pochissima acqua.

“Questi arresti ed espulsioni – denuncia Amnesty – sono assolutamente illegali: non rispettano le garanzie previste dalle procedure regolari e violano non solo le norme internazionali ma la stessa legge algerina”. Le forze di sicurezza, infatti, non si preoccupano di esaminare la posizione e la storia dei singoli migranti e nemmeno di controllare se si tratti di persone entrate legalmente in Algeria: ci si basa, in sostanza, solo su “criteri etnici”, bloccando tutti gli stranieri. Tra i respinti, infatti figurano migranti arrivati dall’intera Africa sub sahariana e occidentale: Niger, Guinea, Burkina Faso, Benin, Mali, Costa d’Avorio, Senegal, Nigeria, Liberia, Camerun, Sierra Leone. Inclusi 300 ragazzini minorenni, in gran parte non accompagnati, che avrebbero diritto a forme di assistenza mirate. E, probabilmente, si è solo all’inizio. Secondo Amnesty in Algeria vivono attualmente oltre 100 mila migranti irregolari subsahariani e tutto lascia credere che nei loro confronti sia iniziata una vera e propria caccia all’uomo.

La conferma di questo orizzonte buio arriva dal Niger, il paese verso il quale viene maggiormente indirizzata questa enorme diaspora di ritorno forzata, a prescindere dalla nazionalità delle donne e degli uomini espulsi o respinti. Secondo fonti vicine al governo di Niamey, tra settembre e ottobre, soltanto nella regione di Agadez, la zona a più diretto contatto con l’Algeria, sono stati deportati circa 2.800 nigerini e oltre 5 mila migranti provenienti da Stati subsahariani o del West Africa. “Gran parte di loro – denunciano le autorità nigerine, confermando il rapporto di Amnesty – sono stati costretti ad attraversare zone desertiche, spesso a piedi, per poter raggiungere i più vicini villaggi nel nostro paese dove salvarsi e mettersi al sicuro”.

Si profila così una situazione di evidente contrasto. Algeri espelle quasi tutti verso il Niger, a prescindere dalle nazionalità, lasciando intendere che comunque è stato il Niger la porta d’ingresso da cui sono passati. Niamey tende invece a rifiutarsi di accogliere i profughi non nigerini respinti. “Con tutti questi profughi che continuano ad arrivare dall’Algeria, si sta creando una grave emergenza umanitaria – ha dichiarato il 22 ottobre Sadou Soloké, governatore della regione di Agadez, al quotidiano Niger Diaspora – Abbiamo già protestato con il governo algerino per i criteri e le condizioni di espulsione di questi migranti, ma soprattutto contestiamo che stanno inviando in Niger persone di ogni nazionalità. Inclusi, ad esempio, i maliani, nonostante l’Algeria confini direttamente con il Mali per migliaia di chilometri. I dati sono eloquenti: tra i 955 deportati nell’ultima settimana non c’era alcun nigerino, ma c’erano più di 300 maliani. Chiediamo allora che ciascuno sia espulso verso il proprio paese…”.

Ecco, appunto, “espulsi verso il proprio paese”. In questo braccio di ferro sono i migranti a rischiare di restare stritolati. Non ci si chiede, infatti, se abbiano o meno diritto all’asilo o comunque ad essere accolti e se rimandarli indietro non significhi esporli a rischi anche mortali: si dà per scontato che l’unica cosa importante è che il respingimento vada in una direzione che “non dia fastidio”. A prescindere dalla sorte degli interessati.

Non solo. Alle deportazioni si è aggiunta una vigilanza più rigida alla frontiera da parte dell’Algeria, mentre il Niger ha organizzato una rete di controlli capillari condotti dall’esercito su tutte le strade e le piste che da Agadez, diventata il grande hub di concentrazione e smistamento dei flussi, conducono attraverso il Sahara al confine algerino o a quello libico, distanti più di 800 chilometri. Le pattuglie, oltre che gli itinerari più sicuri e frequentati, battono i villaggi e le oasi: i punti, cioè, dove si può trovare acqua e cibo e dove tradizionalmente si fermano, dunque, le colonne di pick-up e camion carichi di migranti per brevi soste di riposo e rifornimento. I trafficanti così, sempre più spesso, scelgono vie secondarie, dove ritengono che la sorveglianza sia più blanda, ma che sono molto più lunghe, difficili e pericolose. E se si profila il rischio anche minimo di essere intercettati, i “passatori” non esitano a fuggire, abbandonando nel deserto i profughi che stavano traghettando, come risulta dai racconti terribili di alcuni sopravvissuti a giorni infiniti di sete e di sofferenze. Non a caso l’Oim segnala che si sono moltiplicati gli interventi di soccorso in pieno Sahara mentre, contemporaneamente, aumenta il numero delle vittime. “Secondo Richard Danziger, responsabile Oim per l’Africa centro-occidentale – ha denunciato Barbara Spinelli al Parlamento Europeo – i morti nel deserto sono ormai il doppio dei morti in mare: circa 30 mila tra il 2014 e oggi”. L’ultima strage conosciuta è quella del 5 settembre: 16 migranti trovati ormai senza vita da una pattuglia di militari oltre 350 chilometri a sud di Tobruk. C’erano solo i corpi calcinati dal sole e dal vento del Sahara: nessuna traccia dei trafficanti.

Ecco, Tobruk. In Libia si sta profilando la stessa situazione del Niger e dell’Algeria. Le cifre e i rapporti sono meno precisi, perché non provengono da dossier ufficiali come quelli del governo di Niamey o dell’amministrazione di Agadez, ma dai capi di tribù del Fezzan con i quali l’Italia ha stretto accordi di controllo e respingimento. I dati sono però ugualmente significativi. Barka Shedemi, uno dei leader della grande tribù dei Tebu, in particolare, sostiene di aver sigillato totalmente la sua parte di confine e le piste provenienti dal Ciad e dal Niger, nella zona di Qatrun, bloccando centinaia, forze migliaia di migranti che intendevano raggiungere la costa. Del resto si sta lavorando per mettere a sistema tutto il controllo militare della frontiera libica nel Sahara: è stata costituita una forza di coordinamento e intervento di cui è previsto che faccia parte, insieme ai soldati e alla polizia libica, anche un nucleo di istruttori e “consiglieri” italiani. Una organizzazione analoga è programmata per il Niger. Non, almeno per il momento, in Sudan, dove le milizie di intervento rapido, i “diavoli a cavallo”, equipaggiati a quanto pare anche con fondi italiani o europei, stanno del resto dimostrando ampiamente di aver chiuso quasi ogni via di fuga.

Il giro di vite riguarda in Africa pure la Tunisia. I primi effetti si sono visti in mare: basti ricordare il peschereccio carico di migranti mandato a picco pochi giorni fa da una nave militare che, nel tentativo di tagliargli la rotta per bloccarlo, lo ha speronato, facendolo rovesciare. Oltre 50 le vittime. La stessa strategia viene adottata a terra, lungo i confini con la Libia e l’Algeria. Quasi sempre senza tener conto della situazione personale e della provenienza dei profughi: il 24 di ottobre, ad esempio, sono stati arrestati sei ragazzi siriani appena entrati in Tunisia dall’Algeria, con l’intenzione di raggiungere la costa per cercare un imbarco nella zona di Sfax. Sei giovani che, in fuga dall’orrore della Siria, avrebbero tutto il diritto di essere accolti come rifugiati ma sono finiti invece in fondo a un carcere.

Vanta infine il successo del blocco organizzato, sia a terra che in mare, per conto dell’Europa, in cambio di 6 miliardi, anche la Turchia, rilevando come il flusso dall’Anatolia alle isole greche sia praticamente crollato rispetto all’anno scorso. Poco importa se a pagare questo “crollo” sono i migranti, in termini di vite perdute, sofferenze, carcerazione, sfruttamento, tramonto di ogni speranza per il futuro. L’ultimo rapporto delle forze di sicurezza di Ankara riferisce di 15.470 profughi bloccati e arrestati nei primi nove mesi del 2017. Con un crescendo impressionante: 756 in gennaio, 719 in febbraio, 1.501 in marzo, 1.551 in aprile, oltre 4.500 tra maggio, giugno e luglio, 2.668 in agosto fino al record di oltre 3.400 in settembre. Ottobre sta ricalcando l’andamento di settembre, sicché in dieci mesi si arriverà ad oltre 18 mila arresti: uomini, donne, intere famiglie in fuga da Siria, Iraq, Afghanistan… Più di 18 mila, forse 19 mila, solo in mare. Perché ci sono poi quelli intercettati e fermati a terra: nei porti d’imbarco e sulla costa oppure lungo le strade che dalla frontiera iraniana o siriana portano al Mediterraneo: sui pullman di linea, chiusi nei camion o nei furgoni dei trafficanti, a piedi, nei sobborghi delle città dell’interno scelte per una sosta più o meno prolungata, abbandonati dai trafficanti in mezzo alla campagna… Migliaia di altri disperati, tanto che non appare azzardato ipotizzare, da gennaio a oggi, almeno 25 mila arresti. Arrestati per aver cercato la libertà e una vita migliore. Colpevoli di aver tentato una fuga per la vita.



Tratto da: Tempi Moderni