lunedì 20 giugno 2011

Gravi dubbi di legittimità dell'accordo tra Governo italiano e il CNT libico


COMUNICATO del Consiglio direttivo dell’ASGI

                             
L'ASGI esprime le più serie riserve sulla legittimità dell'accordo concluso il 17 giugno 2011 tra il Go­verno italiano e il CNT libico.
Anzitutto si lamenta il fatto che il testo di un simile accordo non sia stato reso pubblico. Dai di­spacci di stampa sembra che esso preveda una clausola secondo la quale "le parti procederanno alla re­ciproca assistenza e cooperazione nella lotta all'immigrazione illegale, incluso il rimpatrio di immigrati in posizione irregolare".
In secondo luogo è evidente che trattandosi di accordo di natura politica esso non può certo essere concluso in forma semplificata, ma deve essere prima sottoposto alle Camere per l’approvazione della legge di autorizzazione alla ratifica ai sensi dell'art. 80 Cost.
In terzo luogo il Governo italiano non sembra avere chiarito il destino del trattato tra Italia e Libia fatto a Bengasi il 30 agosto 2008 e ratificato e reso esecutivo con legge 6 febbraio 2009, n. 7, del quale nel febbraio scorso il Governo italiano stesso aveva dichiarato la sospensione, senza che ne sia chiara la natura giuridica anche ai sensi della convenzione di Vienna sul diritto dei trattati. Non è chiaro dunque se gli obblighi di quel trattato siano o non siano sospesi, sicché non si comprenderebbe se siano sospesi soltanto per il territorio governato dai gruppi di Gheddafi e non per quelli oggi governati dal CNT.
In quarto luogo, prescindendo dalla legittimità della rappresentanza del CNT e del suo riconosci­mento da parte dal Governo italiano, l'accordo sembra impegnare le parti a far applicare le procedure di rimpatrio degli stranieri irregolarmente partiti dalla Libia. Su tali aspetti l'accordo sembra violare le norme del diritto internazionale, anche perché oggi riguarda non tanto gli stranieri partiti dalla Cirenaica amministrata dal CNT, il che non è quasi mai avvenuto, bensì quelli fuggiti verso l'Italia dalla Tripolita­nia amministrata da Gheddafi e sottoposta alle operazioni militari: non è chiaro se si voglia così già oggi riportare in Cirenaica chi fugge dalla Tripolitania.
Occorre però ricordare che tutto il territorio libico è oggi oggetto ad operazioni militari e non è certo zona sicura per la vita, la sicurezza e l’incolumità delle persone e che costoro fug­gono da specifiche operazioni persecutorie messe in atto dalle milizie di Gheddafi con metodi che sono oggi considerati crimini internazionali anche dalla Corte penale internazionale. Perciò è evidente che l'Italia e il CNT devono comunque rispettare la Convenzione internazionale sulla protezione dei civili durante i conflitti internazionali e che l'Italia deve rispettare sia il principio del non respingimento di chi può ricevere lo status di rifugiato o lo status di protezione sussidiaria, previsto dalla Convenzione internazionale sullo status di rifugiato e dalle direttive comunitarie in materia, sia il divieto di ogni forma di espulsione che possa esporre le persone a rischi per la vita, la sicurezza e la libertà o che comunque comporti una forma di tortura o di trattamento inumano o degradante che secondo la Corte europea dei diritti dell’uomo è inderogabile per ogni Stato parte della Convenzione europea dei diritti dell’uomo.
Ovviamente ancora più gravi considerazioni riguardano l'accordo se si tiene conto che la Libia non ha mai ratificato la convenzione di Ginevra sullo status dei rifugiati e che dunque, come dimostrano gli anni recenti, non potrebbe proteggere effettivamente tali stranieri dal rischio di essere rinviati nei loro Paesi di origine in cui sarebbero oggetto di persecuzione o in cui sono in corso conflitti.
Dunque un simile accordo mette a rischio proprio il rispetto di queste elementari garanzie che so­stanziano il diritto d'asilo garantito dalla Costituzione italiana all'art. 10, comma 3 e la tutela dei più ele­mentari diritti fondamentali della persona umana previsti dalle norme costituzionali, internazionali e comunitarie. Perciò occorrerà fare ogni sforzo giuridico affinché ne sia im­pedita l'esecuzione.                



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