La camionetta della polizia egiziana si ferma nel cortile dell’ospedale di El Arish, nel nord del Sinai, porto sul Mediterraneo a 50 chilometri dal confine israeliano. Dal 2009 uno dei vertici, con Rafah e Mekhel, del triangolo della morte nel Sinai.
Dal veicolo sono stati appena scaricati due cadaveri di migranti africani uccisi dai beduini per evitarne la fuga, secondo la versione ufficiale. Ma potrebbero averli ammazzati gli agenti che, per impedire ai profughi di varcare il confine, sparano ad altezza d’uomo a chi non si arresta all’istante.
Aspettiamo che i poliziotti se ne vadano, e dopo qualche minuto entriamo nell’obitorio dove troviamo altri tre corpi abbandonati qui due settimane fa. L’impatto è agghiacciante, vediamo i cadaveri di due uomini e una donna, un sudanese e due eritrei. L’impianto di refrigerazione è guasto, il disinfettante copre solo in parte l’odore della decomposizione. Gli operatori sanitari confermano che sono stati uccisi a colpi d’arma da fuoco. Certamente la donna è stata ammazzata dalla polizia egiziana mentre tentava di attraversare il confine. Omicidi contro ogni convenzione internazionale, su cui spesso le autorità del Cairo tentano di calare una coltre di silenzio.
Forse non avevano sentito l’ordine di fermarsi della polizia, forse l’hanno udito e hanno rischiato. Avevano pagato il riscatto a quelli che vengono definiti le «canaglie» delle tribù del deserto, mi racconta un operatore dell’ospedale scuotendo la testa, e dopo mesi di schiavitù in campi all’aperto gli spietati rapitori degli eritrei e dei sudanesi li avevano lasciati a qualche chilometro dal confine. Erano partiti con il sogno di raggiungere Israele, dove li attendeva il lavoro nero e una vita da fantasmi senza diritti. Preferibile comunque a un futuro come manodopera in divisa a vita nell’esercito dell’Eritrea, definita dai rapporti delle organizzazioni umanitarie «la Corea del nord africana», agli ultimi posti nelle classifiche della miseria e della democrazia. Invece hanno incontrato prima un sequestro da incubo e poi la morte, pagando il prezzo più alto per la libertà.
Omettiamo i nomi. Una coperta pietosamente cela i loro corpi. Perché restano in questa morgue a decomporsi, e non vengono sepolti? Alla domanda il mio interlocutore di nuovo scuote le spalle. Di loro nulla importa a nessuno. Se voglio sapere dove finiranno devo aspettare il buio della notte e andare davanti al cimitero di El Arish. La terra che circonda le mura all’esterno è mossa, sotto si riconoscono le sagome di alcuni corpi. Sono fosse comuni, senza un segno di riconoscimento. Ci si può camminare sopra, capita che i cani vengano a estrarre gli arti tra la spazzatura. Ecco dove sono finiti parte degli eritrei che mancano all’appello nel Sinai, uccisi dalla polizia egiziana al confine o dai predoni beduini mentre tentavano di fuggire. Siamo riusciti a recuperare i certificati di morte di molti migranti africani rilasciati dall’ospedale di El Arish. Alcuni ignoti, altri con il timbro di ambasciate africane.
«Qui di notte – mi dice un testimone oculare – vengono a seppellire i cadaveri degli africani. In tre anni sono state sepolte tra le 400 e le 500 persone. Avvolti in un sacco bianco con una croce rossa i più fortunati, gli altri nei sacchi di plastica. Li mettono fuori dal cimitero perché la popolazione non vuole che i cristiani stiano con i musulmani».
Mezzo migliaio di persone. Ma chi le ha uccise? Polizia, esercito e beduini. In più, un documentario trasmesso il 1° novembre dalla Cnn e intitolato <+corsivo>Death in the Desert<+tondo> – Morte nel deserto, (reperibile su Youtube) realizzato in collaborazione con il gruppo Everyone – ha trasmesso le immagini delle sepolture. E ha gettato sulla vicenda un’ombra più inquietante delle uccisioni a sangue freddo di profughi inermi da parte di uomini in divisa e di banditi. Alcuni corpi presenterebbero, secondo un medico intervistato dalla Cnn, segni di asportazioni di reni. L’accusa, rilanciata anche dal quotidiano online egiziano Youm 7 che ha parlato con alcuni medici di El Arish, è che almeno la metà dei resti degli africani in ospedale sarebbe priva di cornee, reni e fegato.
E ai medici è spesso impedito di compiere autopsie su corpi che risulterebbero solo feriti non mortalmente agli arti. Gli espianti sarebbero praticati in autoambulanze nel deserto o nei dintorni delle città. Ma i dottori coinvolti sono d’accordo con i predoni beduini, o sono parte di una rete più vasta? La legge islamica non consente di donare gli organi che ai propri congiunti, e nelle cliniche private cairote e di Khartoum giungono continue richieste di trapianti da parte di ricchi ammalati pronti a pagare. Dal 2009 arriverebbero gli organi prelevati ai profughi finiti del Sinai, il deserto dell’orrore dove oggi è tradita la legge di Dio.
Dal veicolo sono stati appena scaricati due cadaveri di migranti africani uccisi dai beduini per evitarne la fuga, secondo la versione ufficiale. Ma potrebbero averli ammazzati gli agenti che, per impedire ai profughi di varcare il confine, sparano ad altezza d’uomo a chi non si arresta all’istante.
Aspettiamo che i poliziotti se ne vadano, e dopo qualche minuto entriamo nell’obitorio dove troviamo altri tre corpi abbandonati qui due settimane fa. L’impatto è agghiacciante, vediamo i cadaveri di due uomini e una donna, un sudanese e due eritrei. L’impianto di refrigerazione è guasto, il disinfettante copre solo in parte l’odore della decomposizione. Gli operatori sanitari confermano che sono stati uccisi a colpi d’arma da fuoco. Certamente la donna è stata ammazzata dalla polizia egiziana mentre tentava di attraversare il confine. Omicidi contro ogni convenzione internazionale, su cui spesso le autorità del Cairo tentano di calare una coltre di silenzio.
Forse non avevano sentito l’ordine di fermarsi della polizia, forse l’hanno udito e hanno rischiato. Avevano pagato il riscatto a quelli che vengono definiti le «canaglie» delle tribù del deserto, mi racconta un operatore dell’ospedale scuotendo la testa, e dopo mesi di schiavitù in campi all’aperto gli spietati rapitori degli eritrei e dei sudanesi li avevano lasciati a qualche chilometro dal confine. Erano partiti con il sogno di raggiungere Israele, dove li attendeva il lavoro nero e una vita da fantasmi senza diritti. Preferibile comunque a un futuro come manodopera in divisa a vita nell’esercito dell’Eritrea, definita dai rapporti delle organizzazioni umanitarie «la Corea del nord africana», agli ultimi posti nelle classifiche della miseria e della democrazia. Invece hanno incontrato prima un sequestro da incubo e poi la morte, pagando il prezzo più alto per la libertà.
Omettiamo i nomi. Una coperta pietosamente cela i loro corpi. Perché restano in questa morgue a decomporsi, e non vengono sepolti? Alla domanda il mio interlocutore di nuovo scuote le spalle. Di loro nulla importa a nessuno. Se voglio sapere dove finiranno devo aspettare il buio della notte e andare davanti al cimitero di El Arish. La terra che circonda le mura all’esterno è mossa, sotto si riconoscono le sagome di alcuni corpi. Sono fosse comuni, senza un segno di riconoscimento. Ci si può camminare sopra, capita che i cani vengano a estrarre gli arti tra la spazzatura. Ecco dove sono finiti parte degli eritrei che mancano all’appello nel Sinai, uccisi dalla polizia egiziana al confine o dai predoni beduini mentre tentavano di fuggire. Siamo riusciti a recuperare i certificati di morte di molti migranti africani rilasciati dall’ospedale di El Arish. Alcuni ignoti, altri con il timbro di ambasciate africane.
«Qui di notte – mi dice un testimone oculare – vengono a seppellire i cadaveri degli africani. In tre anni sono state sepolte tra le 400 e le 500 persone. Avvolti in un sacco bianco con una croce rossa i più fortunati, gli altri nei sacchi di plastica. Li mettono fuori dal cimitero perché la popolazione non vuole che i cristiani stiano con i musulmani».
Mezzo migliaio di persone. Ma chi le ha uccise? Polizia, esercito e beduini. In più, un documentario trasmesso il 1° novembre dalla Cnn e intitolato <+corsivo>Death in the Desert<+tondo> – Morte nel deserto, (reperibile su Youtube) realizzato in collaborazione con il gruppo Everyone – ha trasmesso le immagini delle sepolture. E ha gettato sulla vicenda un’ombra più inquietante delle uccisioni a sangue freddo di profughi inermi da parte di uomini in divisa e di banditi. Alcuni corpi presenterebbero, secondo un medico intervistato dalla Cnn, segni di asportazioni di reni. L’accusa, rilanciata anche dal quotidiano online egiziano Youm 7 che ha parlato con alcuni medici di El Arish, è che almeno la metà dei resti degli africani in ospedale sarebbe priva di cornee, reni e fegato.
E ai medici è spesso impedito di compiere autopsie su corpi che risulterebbero solo feriti non mortalmente agli arti. Gli espianti sarebbero praticati in autoambulanze nel deserto o nei dintorni delle città. Ma i dottori coinvolti sono d’accordo con i predoni beduini, o sono parte di una rete più vasta? La legge islamica non consente di donare gli organi che ai propri congiunti, e nelle cliniche private cairote e di Khartoum giungono continue richieste di trapianti da parte di ricchi ammalati pronti a pagare. Dal 2009 arriverebbero gli organi prelevati ai profughi finiti del Sinai, il deserto dell’orrore dove oggi è tradita la legge di Dio.
Nessun commento:
Posta un commento