venerdì 25 gennaio 2013

Nelle “agende elettorali” dimenticati i diritti umani e i problemi degli “ultimi”


di Emilio Drudi


Alì è un ragazzino afgano di 15 anni. Lo hanno sorpreso nascosto sotto a un tir appena arrivato a Bari da Igoumenitsa. La polizia di frontiera lo ha tenuto per due settimane in un centro di detenzione vicino al porto, insieme agli adulti. Poi lo ha rispedito in Grecia. Senza tener conto che si trattava di un minorenne, poco più di un bambino. La stessa sorte è toccata a decine di altri ragazzini e a centinaia di richiedenti asilo, quasi tutti giovani sui 20 o 30 anni. Ignorando il diritto alla protezione previsto dalle convenzioni internazionali per i migranti minori non accompagnati, per i profughi o i rifugiati. E senza curarsi delle condizioni spaventose dei centri di raccolta per stranieri in Grecia. La denuncia viene da Human Rights Watch, che chiama pesantemente in causa il governo italiano e la politica di accoglienza adottata nel nostro Paese. “Affidati ai capitani dei traghetti commerciali – raccontano i portavoce della Ong – bambini e uomini di ogni età vengono rinchiusi in celle improvvisate o nelle sale macchine della nave durante la traversata di ritorno. Allo sbarco sono consegnati alla polizia, che li trasferisce nei centri di detenzione, quasi senza difesa contro abusi e condizioni di vita degradanti, in un ambiente generale ostile e pervaso spesso di violenza xenofoba”.
A parte gli adulti, richiedenti asilo o migranti, Human Rights Watch solo negli ultimi tempi ha incontrato tredici bambini o ragazzini di età compresa tra i 13 e i 17 anni, che hanno subito questo autentico respingimento forzato, senza alcuna possibilità di rivolgersi alle istituzioni o alle organizzazioni di assistenza per ottenere la tutela prevista sia dalle leggi italiane che internazionali. Il numero totale è tuttavia sicuramente molto più alto: “Basti dire che, secondo la polizia di frontiera di Bari, è stato  concesso di rimanere in Italia soltanto a 12 dei circa 900 migranti scoperti al porto tra il gennaio 2011 e il giugno 2012”. E’ vero che il regolamento di Dublino prevede che le domande di asilo vengano esaminate dal primo paese di ingresso nell’Unione Europea. In questo caso, dunque, la Grecia. Ma proprio per il disastro dei centri di accoglienza greci e per il pesante, crescente clima di ostilità nei confronti degli stranieri che attraversa il paese, numerosi stati membri della Ue hanno sospeso i respingimenti verso Atene. L’Italia no: tra i grandi paesi europei è l’unica che continua a sbarrare le frontiere a questi disperati: non fa differenza se profughi o migranti, adulti o bambini. “Solo uno dei ragazzi da noi intervistati – denuncia Human Rights Watch – ha riferito di essere stato sottoposto a una qualche procedura per determinarne l’età. E tutto si è ridotto, peraltro, a una radiografia al polso. Anche Alì è stato rimpatriato senza alcun esame preventivo: ‘Ho detto loro che avevo 15 anni, ma non mi hanno dato ascolto. Mi hanno messo in biglietteria e poi sulla nave’, ha raccontato”.   
Tutto questo ha fatto finire l’Italia nel mirino della Corte europea per i diritti umani insieme alla Grecia. L’inchiesta riguarda in particolare un caso avvenuto nel 2009: la riconsegna alla Grecia di 25 adulti e 10 bambini i quali, appena possibile, si sono rivolti all’Unione per contestare la violazione del loro diritto alla vita e alla protezione contro la tortura e i maltrattamenti. Lo stesso motivo per cui l’Italia ha già subito una condanna nel febbraio 2012 in relazione alla politica dei respingimenti indiscriminati in mare. In attesa della sentenza, ormai imminente, il commissario Nils Muiznieks e il relatore Onu per i diritti dei migranti, Francois Crepeau, hanno chiesto al governo italiano di sospendere immediatamente i reimbarchi verso i porti e, dunque, verso i centri di detenzione greci.
In questi stessi giorni emerge un altro gravissimo abuso nei confronti dei migranti in Italia, segnalato dalla Ong Medu, Medici per i diritti umani: nei Cie, i centri di identificazione ed espulsione, manca un vero servizio di assistenza sanitaria, limitata in pratica solo al primo soccorso. “Il problema risale all’istituzione dei primi Cpt nel 1998 – ha spiegato Medu al quotidiano l’Unità, sulla base di un monitoraggio capillare condotto in varie strutture – Il sistema adottato è ormai inadeguato a fronte dell’allungamento fino a 18 mesi della detenzione nei Cie, perché interrompe di fatto i percorsi terapeutici e i trattamenti di medio-lungo periodo. Nel 2011, secondo i dati del ministero, sono stati 7.735 (6.832 uomini e 903 donne) i migranti privati della loro libertà personale e trattenuti nei tredici Cie italiani perché privi di permesso di soggiorno. Per la violazione, cioè, di una disposizione amministrativa e non per aver commesso un reato. Oltre 7.700 persone per le quali un diritto fondamentale come quello della salute non è stato sempre garantito”.
Il risultato – come ha denunciato di recente anche l’agenzia Habeshia di don Mussie Zerai – è che si creano problemi drammatici, spesso fatali per i gli ospiti-detenuti. Il personale della Asl non può intervenire: gli addetti ai servizi di assistenza sono medici privati scelti dall’ente che gestisce il centro per conto dello Stato e spesso non hanno competenze specifiche per i casi che si presentano. I gestori – spiega Medu – in genere assicurano di aver stabilito un collegamento con la Asl o strutture sanitarie esterne, ma spesso in concreto ciò non accade: non esiste alcun regolamento su cui basare l’invio di pazienti a visite specialistiche o ad analisi di laboratorio, per la diagnosi e il trattamento di malattie infettive come Tbc, Hiv, epatiti, ecc. o anche patologie croniche. Non solo: poiché per una visita medica fuori dal Cie occorre la scorta della polizia, il timore che il detenuto simuli o possa tentare di fuggire induce a limitare al massimo i trasferimenti, magari sottostimando i sintomi denunciati.
Anche situazioni di questo genere hanno probabilmente indotto lo scrittore franco marocchino Tahar Ben Jelloun a denunciare che in Europa “si aggira lo spettro del razzismo”. La politica italiana, però, continua a tacere. Non a caso proprio in questi giorni, in vista del rinnovo del Parlamento, c’è stata una decisa presa di posizione prima del Commissariato Onu per i rifugiati e poi di Amnesty International. Il Commissariato ha lanciato un appello a tutti i partiti perché il tema del diritto d’asilo e delle politiche migratorie sia un capitolo fondamentale dei programmi elettorali e del futuro governo. “L’attuale sistema di accoglienza – protesta – è insufficiente ad affrontare l’afflusso di richiedenti asilo e ad assicurare una seconda accoglienza a chi ha ottenuto il riconoscimento della protezione internazionale”.
Amnesty allarga il discorso al rispetto dei diritti umani, non solo per i rifugiati ma per tutti i discriminati, lanciando una petizione da sottoporre ai vari candidati leader. Si tratta di un tema, infatti, che manca in tutte le “agende” programmatiche. Non c’è in quella della destra, nelle cui fila anzi risuonano slogan come “Stop alla costruzione di nuove moschee” o “Il nord prima di tutto”. Non se ne fa cenno o quasi in quella di Monti, come hanno rilevato diversi commentatori. Ce n’è poco o niente anche nella sinistra e quel poco ha l’aria di essere stato inserito in modo tardivo e sommario, ma comunque non infiamma il dibattito.
Eppure quella dei diritti umani è una battaglia fondamentale per il benessere di tutto il Paese. Amnesty lo rileva senza mezzi termini: “Un governo che ha a cuore i diritti umani, ha a cuore i diritti di chi nel paese ci vive e se ne sente responsabile”. Si tratta, insomma, di guardare ai problemi prima di tutto con gli occhi degli ultimi. Sono la stessa battaglia, infatti, battersi per i rifugiati e difendere i giovani a cui è stato rubato il futuro, i disoccupati, i precari, i pensionati, le donne, i gay, i rom, i migranti, gli emarginati. O lottare per gli operai esclusi dalla Fiat perché iscritti alla Fiom e contro la guerra tra poveri scatenata con i 19 lavoratori espulsi da Pomigliano per far posto ai compagni che, come ha sancito la magistratura, erano stati discriminati di fatto per le loro idee politiche.
E’ proprio questa, anzi, la via per uscire dalla crisi. Perché dalla crisi non si esce se prevalgono l’egoismo, il sacrificio dei più deboli, la discriminazione. O la paura del “diverso”. Dalla crisi si esce solo con il recupero concreto, evidente, attuato giorno per giorno, dei valori di libertà, uguaglianza e solidarietà che sono il fondamento della nostra Costituzione. “Occorre ricordare – ammonisce Tahar Ben Jelloun – che la crisi, con le sue conseguenze finanziarie, è stata in primo luogo una questione morale… Più che mai gli uomini politici dovrebbero adoperarsi per sanare le situazioni contaminate da un vento di paura, che possono trasformare il razzismo in qualcosa di ordinario oltre che funesto”.


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