giovedì 31 gennaio 2013

Profughi schiavi, esplode l’emergenza del campo di Shagarab: rapporto Onu al Palazzo delle Nazioni a Ginevra








di Emilio Drudi

L’ultimo caso è di pochi giorni fa: quattro giovani eritree rifugiate in Sudan sono state rapite all’interno del campo profughi di Shagarab. Di loro non si sa più nulla. Tutto lascia credere che, come centinaia, forse migliaia di altri ragazzi, siano finite nelle mani dei trafficanti di esseri umani. Di gruppi criminali i cui interessi e le cui basi operative vanno ormai dai confini settentrionali dell’Eritrea e dell’Etiopia fino al Sinai, alle soglie della frontiera con Israele.
Proprio il campo di Shagarab dal quale sono sparite le quattro ragazze, anzi, è diventato una fonte inesauribile di rifornimento per il dilagante “mercato” di uomini e di donne. Anzi, forse la fonte principale, tanto da poter essere considerato una emergenza nell’ambito della già enorme, drammatica emergenza generale dei profughi e dei migranti che, in fuga dal Corno d’Africa, sono preda sempre più spesso di organizzazioni che sfruttano la loro disperazione, sequestrandoli e facendone degli schiavi. Una volta catturati, infatti, il loro futuro è segnato. Per liberarli i rapitori chiedono un riscatto enorme: negli ultimi mesi si è arrivati a 35-40 mila dollari, una cifra che equivale a più di una intera vita di lavoro nei paesi da cui provengono quei giovani, l’Eritrea soprattutto, ma anche l’Etiopia e la Somalia, dove il reddito medio non arriva a due dollari al giorno. Per chi non riesce a pagare non c’è scampo. Gli uomini sono venduti come braccia per il lavoro forzato a privati o ad aziende di pochi scrupoli. Per le donne va anche peggio: sono destinate a matrimoni forzati o, molto più spesso, al giro internazionale della prostituzione. Senza contare il rischio di finire nel mercato clandestino degli organi per i trapianti, offerti a pazienti di tutto il mondo da parte di cliniche compiacenti o che comunque non si fanno troppe domande sui “donatori”.
L’agenzia Habeshia di don Mussie Zerai, che si occupa in particolare dell’assistenza ai migranti eritrei e più in generale del Corno d’Africa, denuncia da anni questa situazione a Shagarab. Ora un dettagliato rapporto è stato presentato al Palazzo delle Nazioni di Ginevra anche da Melissa Fleming, portavoce del Commissariato dell’Onu per i rifugiati.
Shagaran è  uno dei centri di raccolta profughi più antichi e grandi del Sudan orientale. Aperto nel 1968 a breve distanza dal confine eritreo, ospita attualmente in tre diversi campi quasi 30 mila rifugiati: 29.445 secondo le ultime stime dell’Onu. Si tratta nella stragrande maggioranza di giovani, uomini e donne, con un buon livello di istruzione e che vedono nel Sudan solo un territorio di transito: il loro obiettivo è  raggiungere l’Europa o comunque l’Occidente, attraversando il Mediterraneo dal Nord Africa o il deserto del Sinai per passare la frontiera di Israele, considerato un avamposto europeo. Quasi tutti sono perseguitati politici oppure, specie gli eritrei, disertori o renitenti alla leva. Ragazzi, cioè, che vogliono sottrarsi al servizio militare imposto dal dittatore Isaias Afewerki e che dura in genere molto più dei 18 mesi previsti: spesso si protrae per anni e anni, fino all’età anziana, facendone dei coscritti a vita. Ma proprio questa loro ansia di fuga dalla guerra, dalle persecuzioni e dalla fame verso la libertà, i diritti civili e il futuro migliore che sperano di trovare in Occidente, li rende facili vittime dei trafficanti.
Ottenere un visto di espatrio dal Sudan è difficilissimo e richiede tempi molto lunghi. Anche nei casi più evidenti di persecuzione politica e di rischio della vita in caso di rimpatrio. Così, dopo anni di attesa nei campi di raccolta, si affidano sempre più spesso a “passatori” che promettono di accompagnarli a pagamento, un ticket che si aggira sui 5 mila dollari, fino in Libia e di lì in Europa oppure in Israele passando per il Sinai. Ma quelle guide sono in realtà legate a bande di predoni: prima di arrivare in vista del confine li prendono prigionieri e li cedono ai trafficanti di schiavi. Negli ultimi tempi, anzi, le organizzazioni criminali non aspettano neanche di essere contattate: sono i loro emissari ad avvicinare i profughi fin da quando varcano in fuga il confine sudanese oppure nei dintorni o addirittura all’interno del complesso di Shagarab. E chi non cede alle lusinghe dei “passatori” spesso viene rapito e preso in ostaggio. Da quel momento inizia un calvario senza fine. Una sorte che accomuna ormai migliaia di giovani.
Il rapporto del Commissariato dell’Onu a Ginevra segnala che negli ultimi mesi sono aumentate enormemente le sparizioni misteriose dal campo di Shagarab. “Alcuni di questi giovani scomparsi – denuncia Melissa Fleming – sono stati sequestrati, altri hanno pagato per essere contrabbandati in altri paesi. Per quelli rapiti viene chiesto un riscatto. Oppure sono consegnati a trafficanti che li avviano allo sfruttamento sessuale o al lavoro forzato. I più esposti al rischio di rapimento sono i rifugiati e i richiedenti asilo eritrei. Stando a numerose relazioni o interviste individuali, i principali responsabili dei sequestri e del traffico di esseri umani dal Sudan Orientale verso l’Egitto sono membri di tribù locali o del Sinai, in collaborazione con gang criminali”. Nel corso degli ultimi due anni e limitandosi soltanto agli eritrei, i dati dell’Onu parlano di 619 giovani scomparsi nel nulla da Shagarab. Di questi, ben 551 nel 2012, a conferma di una escalation impressionante del fenomeno. Senza contare i ragazzi di altre nazionalità e un numero indefinito, ma sicuramente molto elevato, si casi segnalati ma non confermati.
La situazione è così grave che rischia di esplodere un conflitto aperto tra i rifugiati del campo e la popolazione locale. Dopo il rapimento delle quattro ragazze, seguito il giorno dopo da quello di un giovane, i profughi di Shagarab hanno dato l’assalto ad alcuni villaggi del circondario, accusando gli abitanti di essere complici o quanto meno conniventi dei trafficanti. Ne sono nati scontri sanguinosi, con numerosi feriti da entrambe le parti. A stento la polizia è riuscita a riprendere il controllo, ma la tensione è tale che la violenza rischia di esplodere di nuovo in ogni momento. La stessa polizia, anzi, viene contestata dai profughi, che l’accusano di non fare nulla o di non fare abbastanza per tenere lontano dai campi gli emissari dei trafficanti, lasciando loro campo libero in tutta l’area che va dal confine eritreo a Shagarab ma anche oltre, fino alla frontiera egiziana.
Da qui la relazione presentata a Ginevra da Melissa Fleming, con l’appello a farsi carico di quanto sta avvenendo sia alle autorità sudanesi che alle istituzioni internazionali. Si tratta, prima di tutto, di porre fine al traffico di esseri umani, dando la caccia ai gruppi malavitosi che l’hanno organizzato e lo gestiscono: alcuni dei capi sono stati già individuati e segnalati da tempo, eppure non si riesce a catturarli e a consegnarli alla giustizia. Forse perché non sono mai stati cercati davvero. Tanto da alimentare il sospetto di collusioni ad alto livello e di collegamenti con altri traffici paralleli, come quello di armi in favore di vari gruppi politici, o terroristi o magari semplicemente criminali, che si contendono la supremazia nella regione.
Proprio per questo don Mussie Zerai ha chiesto più volte all’Unione Europea, all’Onu e, in definitiva, alla comunità internazionale, di farsi carico del problema, sollecitando un’azione più incisiva agli stati attraversati dalla tratta: il Sudan e il Sud Sudan, l’Egitto, Israele, la Libia. E di avviare un’inchiesta internazionale affidandola all’Interpol, in collaborazione con le varie polizie nazionali. Ma anche di aprire di più le porte della “fortezza Europa” ai rifugiati, ai richiedenti asilo e ai migranti. 
Con il moltiplicarsi delle guerre e delle persecuzioni nel Corno d’Africa e nell’Africa sub sahariana il flusso dei profughi continua a crescere. Il Sudan è da sempre una delle prime tappe di questo esodo. Quasi nessuno ne parla, ma nel paese e nell’intera regione si prospetta un’emergenza umanitaria ancora più drammatica di quella attuale. E il Sudan è più vicino di quanto si possa pensare: sono passati di lì quasi tutti i profughi sbarcati negli ultimi anni in Italia, dopo aver raggiunto fortunosamente la Libia e attraversato il Canale di Sicilia. 

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