di Emilio Drudi
L’ultimo caso è di
pochi giorni fa: quattro giovani eritree rifugiate in Sudan sono state rapite
all’interno del campo profughi di Shagarab. Di loro non si sa più nulla. Tutto
lascia credere che, come centinaia, forse migliaia di altri ragazzi, siano
finite nelle mani dei trafficanti di esseri umani. Di gruppi criminali i cui
interessi e le cui basi operative vanno ormai dai confini settentrionali
dell’Eritrea e dell’Etiopia fino al Sinai, alle soglie della frontiera con
Israele.
Proprio il campo di
Shagarab dal quale sono sparite le quattro ragazze, anzi, è diventato una fonte
inesauribile di rifornimento per il dilagante “mercato” di uomini e di donne.
Anzi, forse la fonte principale, tanto da poter essere considerato una
emergenza nell’ambito della già enorme, drammatica emergenza generale dei
profughi e dei migranti che, in fuga dal Corno d’Africa, sono preda sempre più
spesso di organizzazioni che sfruttano la loro disperazione, sequestrandoli e
facendone degli schiavi. Una volta catturati, infatti, il loro futuro è
segnato. Per liberarli i rapitori chiedono un riscatto enorme: negli ultimi
mesi si è arrivati a 35-40 mila dollari, una cifra che equivale a più di una
intera vita di lavoro nei paesi da cui provengono quei giovani, l’Eritrea
soprattutto, ma anche l’Etiopia e la Somalia, dove il reddito medio non arriva
a due dollari al giorno. Per chi non riesce a pagare non c’è scampo. Gli uomini
sono venduti come braccia per il lavoro forzato a privati o ad aziende di pochi
scrupoli. Per le donne va anche peggio: sono destinate a matrimoni forzati o,
molto più spesso, al giro internazionale della prostituzione. Senza contare il
rischio di finire nel mercato clandestino degli organi per i trapianti, offerti
a pazienti di tutto il mondo da parte di cliniche compiacenti o che comunque
non si fanno troppe domande sui “donatori”.
L’agenzia Habeshia
di don Mussie Zerai, che si occupa in particolare dell’assistenza ai migranti
eritrei e più in generale del Corno d’Africa, denuncia da anni questa
situazione a Shagarab. Ora un dettagliato rapporto è stato presentato al
Palazzo delle Nazioni di Ginevra anche da Melissa Fleming, portavoce del
Commissariato dell’Onu per i rifugiati.
Shagaran è uno dei centri di raccolta profughi più
antichi e grandi del Sudan orientale. Aperto nel 1968 a breve distanza dal
confine eritreo, ospita attualmente in tre diversi campi quasi 30 mila
rifugiati: 29.445 secondo le ultime stime dell’Onu. Si tratta nella stragrande
maggioranza di giovani, uomini e donne, con un buon livello di istruzione e che
vedono nel Sudan solo un territorio di transito: il loro obiettivo è raggiungere l’Europa o comunque l’Occidente,
attraversando il Mediterraneo dal Nord Africa o il deserto del Sinai per
passare la frontiera di Israele, considerato un avamposto europeo. Quasi tutti
sono perseguitati politici oppure, specie gli eritrei, disertori o renitenti
alla leva. Ragazzi, cioè, che vogliono sottrarsi al servizio militare imposto
dal dittatore Isaias Afewerki e che dura in genere molto più dei 18 mesi previsti:
spesso si protrae per anni e anni, fino all’età anziana, facendone dei
coscritti a vita. Ma proprio questa loro ansia di fuga dalla guerra, dalle
persecuzioni e dalla fame verso la libertà, i diritti civili e il futuro
migliore che sperano di trovare in Occidente, li rende facili vittime dei
trafficanti.
Ottenere un visto di
espatrio dal Sudan è difficilissimo e richiede tempi molto lunghi. Anche nei
casi più evidenti di persecuzione politica e di rischio della vita in caso di
rimpatrio. Così, dopo anni di attesa nei campi di raccolta, si affidano sempre
più spesso a “passatori” che promettono di accompagnarli a pagamento, un ticket
che si aggira sui 5 mila dollari, fino in Libia e di lì in Europa oppure in
Israele passando per il Sinai. Ma quelle guide sono in realtà legate a bande di
predoni: prima di arrivare in vista del confine li prendono prigionieri e li
cedono ai trafficanti di schiavi. Negli ultimi tempi, anzi, le organizzazioni
criminali non aspettano neanche di essere contattate: sono i loro emissari ad
avvicinare i profughi fin da quando varcano in fuga il confine sudanese oppure
nei dintorni o addirittura all’interno del complesso di Shagarab. E chi non
cede alle lusinghe dei “passatori” spesso viene rapito e preso in ostaggio. Da
quel momento inizia un calvario senza fine. Una sorte che accomuna ormai
migliaia di giovani.
Il rapporto del
Commissariato dell’Onu a Ginevra segnala che negli ultimi mesi sono aumentate
enormemente le sparizioni misteriose dal campo di Shagarab. “Alcuni di questi
giovani scomparsi – denuncia Melissa Fleming – sono stati sequestrati, altri
hanno pagato per essere contrabbandati in altri paesi. Per quelli rapiti viene
chiesto un riscatto. Oppure sono consegnati a trafficanti che li avviano allo
sfruttamento sessuale o al lavoro forzato. I più esposti al rischio di
rapimento sono i rifugiati e i richiedenti asilo eritrei. Stando a numerose
relazioni o interviste individuali, i principali responsabili dei sequestri e
del traffico di esseri umani dal Sudan Orientale verso l’Egitto sono membri di
tribù locali o del Sinai, in collaborazione con gang criminali”. Nel corso
degli ultimi due anni e limitandosi soltanto agli eritrei, i dati dell’Onu
parlano di 619 giovani scomparsi nel nulla da Shagarab. Di questi, ben 551 nel 2012,
a conferma di una escalation impressionante del fenomeno. Senza contare i
ragazzi di altre nazionalità e un numero indefinito, ma sicuramente molto
elevato, si casi segnalati ma non confermati.
La situazione è così
grave che rischia di esplodere un conflitto aperto tra i rifugiati del campo e
la popolazione locale. Dopo il rapimento delle quattro ragazze, seguito il
giorno dopo da quello di un giovane, i profughi di Shagarab hanno dato
l’assalto ad alcuni villaggi del circondario, accusando gli abitanti di essere
complici o quanto meno conniventi dei trafficanti. Ne sono nati scontri
sanguinosi, con numerosi feriti da entrambe le parti. A stento la polizia è
riuscita a riprendere il controllo, ma la tensione è tale che la violenza
rischia di esplodere di nuovo in ogni momento. La stessa polizia, anzi, viene
contestata dai profughi, che l’accusano di non fare nulla o di non fare
abbastanza per tenere lontano dai campi gli emissari dei trafficanti, lasciando
loro campo libero in tutta l’area che va dal confine eritreo a Shagarab ma
anche oltre, fino alla frontiera egiziana.
Da qui la relazione
presentata a Ginevra da Melissa Fleming, con l’appello a farsi carico di quanto
sta avvenendo sia alle autorità sudanesi che alle istituzioni internazionali.
Si tratta, prima di tutto, di porre fine al traffico di esseri umani, dando la
caccia ai gruppi malavitosi che l’hanno organizzato e lo gestiscono: alcuni dei
capi sono stati già individuati e segnalati da tempo, eppure non si riesce a
catturarli e a consegnarli alla giustizia. Forse perché non sono mai stati
cercati davvero. Tanto da alimentare il sospetto di collusioni ad alto livello
e di collegamenti con altri traffici paralleli, come quello di armi in favore
di vari gruppi politici, o terroristi o magari semplicemente criminali, che si
contendono la supremazia nella regione.
Proprio per questo
don Mussie Zerai ha chiesto più volte all’Unione Europea, all’Onu e, in
definitiva, alla comunità internazionale, di farsi carico del problema,
sollecitando un’azione più incisiva agli stati attraversati dalla tratta: il
Sudan e il Sud Sudan, l’Egitto, Israele, la Libia. E di avviare un’inchiesta
internazionale affidandola all’Interpol, in collaborazione con le varie polizie
nazionali. Ma anche di aprire di più le porte della “fortezza Europa” ai
rifugiati, ai richiedenti asilo e ai migranti.
Con il moltiplicarsi
delle guerre e delle persecuzioni nel Corno d’Africa e nell’Africa sub
sahariana il flusso dei profughi continua a crescere. Il Sudan è da sempre una
delle prime tappe di questo esodo. Quasi nessuno ne parla, ma nel paese e
nell’intera regione si prospetta un’emergenza umanitaria ancora più drammatica
di quella attuale. E il Sudan è più vicino di quanto si possa pensare: sono
passati di lì quasi tutti i profughi sbarcati negli ultimi anni in Italia, dopo
aver raggiunto fortunosamente la Libia e attraversato il Canale di Sicilia.
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