venerdì 11 gennaio 2013

Se la salute e la vita di un profugo non contano: il paradosso italiano



 di Emilio Drudi
 Quattro morti tra gli ospiti di un centro di assistenza per i profughi nell’arco di poco più di un anno. Per motivi di salute. E c’è il sospetto che non abbiano avuto le cure adeguate. E’ di nuovo sotto accusa la politica italiana di accoglienza per i rifugiati, giunti nelle nostre città dopo aver attraversato mezza Africa. Ed è di nuovo don Mussie Zerai, il presidente dell’agenzia Habeshia, a chiedere che questa dolorosa questione non resti sottaciuta, sepolta sotto una coltre di colpevole “silenziamento” e travolta dall'indifferenza per la sorte di questi giovani, che hanno guardato all'Europa per una scelta di libertà, fuggendo da guerre, persecuzioni, fame, discriminazioni.
L’ultimo caso di morte è quello di una ragazza eritrea di 28 anni, incinta di quattro mesi. Era nel campo per richiedenti asilo (Cara) di Catania. Secondo quanto ha potuto accertare Habeshia, la giovane si sentiva male da tempo, tanto che i medici le hanno consigliato di sottoporsi a una Tac, avvertendola però che questo tipo di esame avrebbe potuto essere pericoloso per il bambino che portava in grembo. Lei ha resistito per un po’, poi la sofferenza l’ha convinta a dare il consenso. Per poter fare l’accertamento ha dovuto girare da un ospedale all’altro per due giorni. Infine è stata riaccompagnata al centro di accoglienza. Poco dopo è morta.
“Pare soffrisse di un aneurisma all’aorta – dice don Zerai – Se davvero è così, come mai è stata riportata al centro anziché essere ricoverata? Questo è il quarto decesso di migranti ospitati nella struttura di Catania per problemi medici o comunque di salute. Nel novembre 2011, dopo un intervento di angioplastica, è morto Mujahid Alid, un pachistano di 36 anni. Poi c’è la storia di Keita Abdoulaye, un ventisettenne arrivato dal Mali. Colto da un malore dopo una colluttazione con un altro ospite del campo, è stato portato in stato di semi-incoscienza al pronto soccorso ospedaliero di Caltagirone, dove lo hanno dimesso con appena un giorno di prognosi. Rientrato al campo, si è sentito male ed è spirato. Infine, Anthony Yeboah, 22 anni, originario del Ghana. Anche lui è stato portato dall’ambulatorio interno all’ospedale. Da qui, dopo alcuni controlli, è stato rispedito indietro. Per i medici si trattava solo di una ubriacatura. Poi, però, c’è stato bisogno di un nuovo ricovero, perché i medici del Cara avevano riscontrato dei problemi neurologici. Qualche ora più tardi è arrivata la notizia della morte, dovuta, si apprenderà a distanza di tempo, a un’ischemia cerebrale. C’è da chiedersi, allora, come venga tutelata la salute degli ospiti di queste strutture. Le testimonianze che arrivano da diversi Cara o centri di accoglienza non sono confortanti: non esiste la prevenzione, non ci sono controlli medici periodici per evitare malattie facilmente trasmissibili come ad esempio la Tbc e in genere si tende a minimizzare. Anche quando vengono chiesti interventi o cure denunciando determinati sintomi”.
E’ un problema grosso quello sollevato da don Zerai. Il programma statale di accoglienza ai profughi non si limita a promettere cibo e alloggio. Punti cardine sono considerati anche l’assistenza medica e la tutela della salute, oltre che iniziative per favorire l’integrazione sociale, lo studio della lingua, l’interscambio culturale. L’inserimento, insomma, nella comunità italiana. Solo sulla carta, però. Perché l’esperienza dell’ultimo anno e mezzo dimostra che spesso non c’è traccia di tutto questo. Anzi, grazie all’indifferenza generale e alla mancanza di controlli, c’è chi ha trovato modo di speculare sulla sofferenza di questa gente, mettendo in piedi strutture di accoglienza improvvisate per intascare la retta di 46 euro al giorno per ogni rifugiato. Uno dei casi più clamorosi è stato scoperto in provincia di Latina, a Roccagorga, dove una cooperativa è riuscita a farsi affidare dalla Regione decine di giovani profughi, sistemandoli alla meno peggio in una villetta isolata e garantendo loro a malapena un giaciglio e due pasti al giorno. Nient’altro. Ne è nata un’inchiesta della magistratura, che ha portato all’incriminazione di alcuni dei responsabili della cooperativa, ma senza “disturbare” troppo, almeno finora, i politici regionali che hanno scelto quella struttura, non si capisce bene in base a quali criteri ed evidentemente senza verificarne a fondo i requisiti.
Non c’è da stupirsi, dunque, che alla fine si sia inceppato l’intero piano di emergenza varato dal governo quando i profughi in arrivo si sono moltiplicati in seguito alle rivolte in Nord Africa. Non si è riusciti, infatti, ad esaminare entro il termine previsto del 31 dicembre le domande di asilo, oltre 20 mila, presentate nel 2012. Sono ancora “in attesa” di risposta parecchie richieste di prima istanza ma, soprattutto, migliaia di ricorsi presentati contro le sentenze sfavorevoli e, in sostanza, i respingimenti. C’è stata una sollevazione perché tutta quella gente rischiava di essere espulsa o condannata a una vita da clandestini e “non persone” in qualche baraccopoli sparsa per l’Italia. E diverse associazioni di assistenza, tra l’altro, hanno segnalato che spesso le richieste di protezione sono state “bocciate” senza esaminare a fondo le situazioni prospettate dai profughi. Per vari motivi: inesperienza, indifferenza, fretta ma, c’è da temere, anche pregiudizio. Palazzo Chigi è stato costretto, dunque, a concedere una proroga di due mesi, sino al 28 febbraio. Ma è arrivato un colpo di coda: la retta è stata ridotta da 46 a 35 euro al giorno e il timore ora è che molte strutture non siano più disposte, per questa cifra, ad assicurare l’alloggio e l’assistenza previsti. “In questo modo – ha denunciato la Caritas diocesana di Milano – si rischia di gettare per strada, in pieno inverno, centinaia, forse miglia di uomini, donne, anche ragazzini o bambini. Ai quali non resterà che rivolgersi ai servizi dei Comuni o della Caritas locale, già oberati dall’aumento enorme delle persone da assistere che si è registrato negli ultimi anni, a causa della crisi e dei tagli al welfare”.
Ovvero: ancora restrizioni al programma di accoglienza, proprio mentre, invece, ne servirebbe una verifica generale, per metterlo in condizione di funzionare meglio, collegandolo alle strutture territoriali, a cominciare dagli ospedali e dai centri medici. Lo conferma anche la denuncia di don Zerai, che continua a ricevere segnalazioni allarmanti sul livello di assistenza sanitaria nei Cara e nei centri di prima accoglienza. “L’ultima denuncia – afferma – è arrivata da Anguillara, dove una donna all’ottavo mesi di gravidanza ha potuto fare finora due soli controlli medici. Racconta di aver chiesto invano più volte di consultare periodicamente un ginecologo. Le è sempre stato risposto di stare tranquilla, con rassicurazioni generiche: ‘Basta che il feto si muova’, le dicevano. Se è così, mi sembra una negazione evidente del diritto alla salute, sia per la donna come per il bambino. Ma arrivano di continuo racconti di situazioni come questa: uomini e donne bisognosi di cure mediche ma le cui esigenze vengono trascurate o ignorate dagli enti gestori dei centri o dei campi in cui vivono. E’ una questione che investe direttamente il ministero degli interni, a cui fanno capo i Cara, e gli enti locali, che si occupano di vari centri di accoglienza: sono loro i primi responsabili della tutela della salute degli ospiti di quelle strutture”.
Il ministero degli interni e gli enti locali. Lo Stato, dunque. Cioè tutti noi. Il Paese. C’è da chiedersi, allora, che paese sia mai diventata questa Italia, che riconosce nella sua stessa Costituzione i diritti fondamentali dell’uomo ma poi, nella pratica quotidiana e nell’agenda politica, se ne dimentica o ne fa un capitolo secondario. Salvo a stupirsi o magari a indignarsi se all’estero parlano di “paradosso italiano”

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