di Emilio Drudi
Quattro morti tra
gli ospiti di un centro di assistenza per i profughi nell’arco di poco più di
un anno. Per motivi di salute. E c’è il sospetto che non abbiano avuto le cure
adeguate. E’ di nuovo sotto accusa la politica italiana di accoglienza per i rifugiati,
giunti nelle nostre città dopo aver attraversato mezza Africa. Ed è di nuovo
don Mussie Zerai, il presidente dell’agenzia Habeshia, a chiedere che questa
dolorosa questione non resti sottaciuta, sepolta sotto una coltre di colpevole “silenziamento”
e travolta dall'indifferenza per la sorte di questi giovani, che hanno guardato all'Europa per una scelta di libertà, fuggendo da guerre, persecuzioni, fame,
discriminazioni.
L’ultimo caso di
morte è quello di una ragazza eritrea di 28 anni, incinta di quattro mesi. Era
nel campo per richiedenti asilo (Cara) di Catania. Secondo quanto ha potuto
accertare Habeshia, la giovane si sentiva male da tempo, tanto che i medici le
hanno consigliato di sottoporsi a una Tac, avvertendola però che questo tipo di
esame avrebbe potuto essere pericoloso per il bambino che portava in grembo.
Lei ha resistito per un po’, poi la sofferenza l’ha convinta a dare il
consenso. Per poter fare l’accertamento ha dovuto girare da un ospedale
all’altro per due giorni. Infine è stata riaccompagnata al centro di
accoglienza. Poco dopo è morta.
“Pare soffrisse di
un aneurisma all’aorta – dice don Zerai – Se davvero è così, come mai è stata
riportata al centro anziché essere ricoverata? Questo è il quarto decesso di
migranti ospitati nella struttura di Catania per problemi medici o comunque di
salute. Nel novembre 2011, dopo un intervento di angioplastica, è morto Mujahid
Alid, un pachistano di 36 anni. Poi c’è la storia di Keita Abdoulaye, un
ventisettenne arrivato dal Mali. Colto da un malore dopo una colluttazione con
un altro ospite del campo, è stato portato in stato di semi-incoscienza al
pronto soccorso ospedaliero di Caltagirone, dove lo hanno dimesso con appena un
giorno di prognosi. Rientrato al campo, si è sentito male ed è spirato. Infine,
Anthony Yeboah, 22 anni, originario del Ghana. Anche lui è stato portato
dall’ambulatorio interno all’ospedale. Da qui, dopo alcuni controlli, è stato
rispedito indietro. Per i medici si trattava solo di una ubriacatura. Poi,
però, c’è stato bisogno di un nuovo ricovero, perché i medici del Cara avevano
riscontrato dei problemi neurologici. Qualche ora più tardi è arrivata la
notizia della morte, dovuta, si apprenderà a distanza di tempo, a un’ischemia
cerebrale. C’è da chiedersi, allora, come venga tutelata la salute degli ospiti
di queste strutture. Le testimonianze che arrivano da diversi Cara o centri di
accoglienza non sono confortanti: non esiste la prevenzione, non ci sono
controlli medici periodici per evitare malattie facilmente trasmissibili come
ad esempio la Tbc e in genere si tende a minimizzare. Anche quando vengono
chiesti interventi o cure denunciando determinati sintomi”.
E’ un problema
grosso quello sollevato da don Zerai. Il programma statale di accoglienza ai
profughi non si limita a promettere cibo e alloggio. Punti cardine sono
considerati anche l’assistenza medica e la tutela della salute, oltre che iniziative
per favorire l’integrazione sociale, lo studio della lingua, l’interscambio
culturale. L’inserimento, insomma, nella comunità italiana. Solo sulla carta,
però. Perché l’esperienza dell’ultimo anno e mezzo dimostra che spesso non c’è
traccia di tutto questo. Anzi, grazie all’indifferenza generale e alla mancanza
di controlli, c’è chi ha trovato modo di speculare sulla sofferenza di questa
gente, mettendo in piedi strutture di accoglienza improvvisate per intascare la
retta di 46 euro al giorno per ogni rifugiato. Uno dei casi più clamorosi è
stato scoperto in provincia di Latina, a Roccagorga, dove una cooperativa è
riuscita a farsi affidare dalla Regione decine di giovani profughi,
sistemandoli alla meno peggio in una villetta isolata e garantendo loro a
malapena un giaciglio e due pasti al giorno. Nient’altro. Ne è nata
un’inchiesta della magistratura, che ha portato all’incriminazione di alcuni
dei responsabili della cooperativa, ma senza “disturbare” troppo, almeno
finora, i politici regionali che hanno scelto quella struttura, non si capisce
bene in base a quali criteri ed evidentemente senza verificarne a fondo i requisiti.
Non c’è da stupirsi,
dunque, che alla fine si sia inceppato l’intero piano di emergenza varato dal
governo quando i profughi in arrivo si sono moltiplicati in seguito alle
rivolte in Nord Africa. Non si è riusciti, infatti, ad esaminare entro il termine
previsto del 31 dicembre le domande di asilo, oltre 20 mila, presentate nel
2012. Sono ancora “in attesa” di risposta parecchie richieste di prima istanza ma,
soprattutto, migliaia di ricorsi presentati contro le sentenze sfavorevoli e,
in sostanza, i respingimenti. C’è stata una sollevazione perché tutta quella
gente rischiava di essere espulsa o condannata a una vita da clandestini e “non
persone” in qualche baraccopoli sparsa per l’Italia. E diverse associazioni di
assistenza, tra l’altro, hanno segnalato che spesso le richieste di protezione
sono state “bocciate” senza esaminare a fondo le situazioni prospettate dai
profughi. Per vari motivi: inesperienza, indifferenza, fretta ma, c’è da
temere, anche pregiudizio. Palazzo Chigi è stato costretto, dunque, a concedere
una proroga di due mesi, sino al 28 febbraio. Ma è arrivato un colpo di coda:
la retta è stata ridotta da 46 a 35 euro al giorno e il timore ora è che molte
strutture non siano più disposte, per questa cifra, ad assicurare l’alloggio e
l’assistenza previsti. “In questo modo – ha denunciato la Caritas diocesana di
Milano – si rischia di gettare per strada, in pieno inverno, centinaia, forse
miglia di uomini, donne, anche ragazzini o bambini. Ai quali non resterà che
rivolgersi ai servizi dei Comuni o della Caritas locale, già oberati
dall’aumento enorme delle persone da assistere che si è registrato negli ultimi
anni, a causa della crisi e dei tagli al welfare”.
Ovvero: ancora
restrizioni al programma di accoglienza, proprio mentre, invece, ne servirebbe
una verifica generale, per metterlo in condizione di funzionare meglio,
collegandolo alle strutture territoriali, a cominciare dagli ospedali e dai
centri medici. Lo conferma anche la denuncia di don Zerai, che continua a
ricevere segnalazioni allarmanti sul livello di assistenza sanitaria nei Cara e
nei centri di prima accoglienza. “L’ultima denuncia – afferma – è arrivata da
Anguillara, dove una donna all’ottavo mesi di gravidanza ha potuto fare finora
due soli controlli medici. Racconta di aver chiesto invano più volte di
consultare periodicamente un ginecologo. Le è sempre stato risposto di stare
tranquilla, con rassicurazioni generiche: ‘Basta che il feto si muova’, le
dicevano. Se è così, mi sembra una negazione evidente del diritto alla salute,
sia per la donna come per il bambino. Ma arrivano di continuo racconti di
situazioni come questa: uomini e donne bisognosi di cure mediche ma le cui
esigenze vengono trascurate o ignorate dagli enti gestori dei centri o dei
campi in cui vivono. E’ una questione che investe direttamente il ministero
degli interni, a cui fanno capo i Cara, e gli enti locali, che si occupano di
vari centri di accoglienza: sono loro i primi responsabili della tutela della
salute degli ospiti di quelle strutture”.
Il ministero degli
interni e gli enti locali. Lo Stato, dunque. Cioè tutti noi. Il Paese. C’è da
chiedersi, allora, che paese sia mai diventata questa Italia, che riconosce
nella sua stessa Costituzione i diritti fondamentali dell’uomo ma poi, nella
pratica quotidiana e nell’agenda politica, se ne dimentica o ne fa un capitolo
secondario. Salvo a stupirsi o magari a indignarsi se all’estero parlano di
“paradosso italiano”
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