di Emilio Drudi
Tel Aviv. Primo
pomeriggio. Un giardinetto poco lontano da Allenby street, al margine di un
vecchio quartiere di stradine e casette basse che risale alla prima metà del
1900 e oggi circondato da brutte costruzioni cadenti degli anni 70 e dai nuovi
grattacieli. Su una panchina appartata siede assopito un giovane africano.
Dall’aspetto si direbbe eritreo o etiope. Occhi socchiusi, la testa reclinata
sul petto. Sembra abbandonarsi su se stesso. Ogni tanto sussulta, come
svegliandosi di colpo. Alla fine si distende. A metà della panca c’è un
bracciolo, un basso cerchio di ferro messo lì proprio per impedire che venga
usata come giaciglio, ma quel ragazzo ha un corpo così esile che entra bene in
quel pochissimo spazio. Dorme col viso nella penombra per una ventina di
minuti. Poi, sfilando il busto e le gambe dall’anello metallico in cui li ha
infilati, si alza stancamente, afferra con una mano un sacco arancione semitrasparente,
mezzo pieno di bottiglie e lattine, e fa il giro dei cestini portarifiuti,
recuperando qualche altra bottiglia. Non si lascia avvicinare: risponde a
monosillabi e fa capire, più a gesti che a parole, che vuole essere lasciato in
pace. Un minuto dopo si allontana, camminando a piedi nudi, le unghie nere e
screpolate, sotto un paio di jeans sporchi e sdruciti e una maglietta nera,
slabbrata da tutte le parti. Non deve avere più di vent’anni.
Meno di un
chilometro più avanti, dove l’elegante, animatissimo lungomare si apre in un vasto
giardino molto ben curato, prima di piegare verso l’antico borgo di Giaffa,
altri due giovani africani siedono nella striscia d’ombra di un’aiuola
dall’erba appena rasata. Discutono fitto con un anziano barbone bianco.
Ciascuno dei due ha accanto un sacco arancione con contenitori di plastica e
qualche bottiglia di birra vuota. Sono entrambi sui 25-30 anni, sicuramente
molti di meno del clochard che è con loro. Sembrano più disponibili. Accettano
di scambiare qualche parola. Uno dice di chiamarsi Joseph, l’altro Mike.
Vengono dal Sudan. Ma non aggiungono altro. Appena si comincia a chiedere come
siano arrivati in Israele, dove abitano, come vivono, si fanno subito
diffidenti: salutano con un sorriso, facendo capire che il colloquio è finito,
e si allontanano caricandosi su una spalla il loro sacco. Il barbone li segue a
distanza. Non si voltano nemmeno.
Due ore più tardi,
dalla parte opposta del lungomare, verso il porticciolo turistico, un altro
giovane avanza a passi lenti sul viale invaso da ragazzi che vanno o vengono
dalla spiaggia, uomini e donne che fanno jogging o si riposano sulle panchine,
godendosi la brezza di maestrale. Cammina con un paio di scarpe da ginnastica
che stentano a stare insieme. Veste jeans con un lungo strappo verticale sulla
gamba sinistra: inizia dalla tasca e arriva sotto il ginocchio. Uno strappo
vero, non come quelli “artistici” dei jeans esposti nelle vetrine dei negozi di
moda casual. Poi, una camicia scura che lascia intravedere una t-shirt nera e,
sopra a tutto, un giaccone di finta pelle, del tutto fuori luogo con la
temperatura che sfiora i 34 gradi ma che lui si porta addosso perché
probabilmente quegli abiti sono tutto il suo guardaroba, insieme a un’altra
t-shirt e a un po’ di biancheria che si intravedono in una busta annodata per i
manici. Ha la pelle ebano come i due sudanesi di prima. Si ferma un attimo, ma
non vuole parlare. Lo fa capire con un movimento eloquente della mano e
biascicando un “I do’nt understand…”. Si porta dietro l’odore di chi vive nella
miseria più dura.
Sono quattro dei
circa 60 mila profughi o migranti irregolari africani approdati in Israele. La
metà circa sono sudanesi. Tra gli altri prevalgono gli eritrei, poi i somali e
gli etiopi. Sono arrivati attraverso il deserto del Sinai, eludendo la
vigilanza della polizia di frontiera e sfidando le fucilate dei militari
egiziani o, peggio, l’insidia dei trafficanti di schiavi che catturano questi
disperati – uomini, donne, bambini – per chiederne il riscatto: 40 mila dollari
a testa. Chi non ha amici o familiari in grado di pagare rischia di essere
consegnato al mercato degli organi per i trapianti clandestini o, le ragazze,
ai giri della prostituzione internazionale. La maggior parte è a Tel Aviv, poi
ad Eilat, Gerusalemme, Hadera e Gadera. Abitano nei quartieri più modesti e
periferici, in genere in piccoli appartamenti presi in affitto, anche 8-10 per
stanza. Malvisti e mal sopportati dalla gente. In particolare dai vicini. Non
sono mancati episodi di violenza. Incluso qualche assalto alle loro case, con
pestaggi e “punizioni” collettive. Come giusto un anno fa a Gerusalemme, dove è
stato incendiato l’appartamentino di tre eritrei, tutti e tre presi e picchiati
duramente da un gruppo di “giustizieri”, sulla scia di un’accusa di stupro
attribuita a giovani africani e poi rivelatasi senza fondamento.
La contestazione più
ricorrente è che “rubano il lavoro” agli israeliani. In realtà vivono di quello
che possono. Come, appunto, la raccolta di vetro e plastica da recuperare.
Anche gli addetti alla nettezza urbana selezionano e mettono insieme questo
materiale. Passano in genere verso sera. I migranti africani probabilmente ne
hanno studiato gli orari e li precedono, in concorrenza con qualche barbone
bianco. Deve esserci qualche organizzazione alla quale fanno capo: potrebbe
confermarlo anche il fatto che quasi tutti usano per la raccolta gli stessi
sacchi semitrasparenti di colore arancione. Forse qualcuno fa da intermediario
tra questi “recuperanti” improvvisati e la compagnia incaricata del servizio.
Sta di fatto che i due sudanesi del lungomare dopo un po’ hanno raggiunto un
camion fermo in una strada laterale, accanto al cantiere di un palazzo in
costruzione. Un operaio, con tanto di pettorina gialla per distinguersi nel
traffico, stava caricando numerosi sacchi di bottiglie e lattine usate. Loro si
sono fermati qualche istante, giusto il tempo di consegnare i loro sacchi, e
poi via verso un altro vagare di cestino in cestino, per mettere insieme una
manciata di shekel. Ma, a parte espedienti del genere, la maggior parte di
questi giovani sono braccia a buon mercato per molti settori: bassa manovalanza
in edilizia, nella ristorazione, nelle campagne. E alimentano – denunciano
l’agenzia Habeshia o Hotline for Migrant Workers – un vasto giro di caporalato
e di sfruttamento in nero del loro bisogno. E della loro vita.
Sono le norme stesse
di accoglienza ad alimentare questo paradosso. I profughi, una volta in
Israele, ricevono un visto di soggiorno provvisorio, in genere di tre mesi, ma
a parte un alloggio temporaneo, non hanno diritto ad assistenza e lavoro. Quasi
tutti inoltrano la richiesta di asilo, per essere tutelati come rifugiati
politici, in base alla convenzione Onu, che Israele è stato tra i primi governi
al mondo a firmare. Sono pochissimi, però, quelli che riescono a strappare
questo riconoscimento. Quanto ai migranti clandestini sfuggiti ai controlli
dell’esercito lungo la frontiera, sono abbandonati a se stessi. E anche quelli
regolari vivono sempre nell’incertezza. Il loro permesso di soggiorno è legato
strettamente al lavoro: se lo perdono rischiano l’espulsione entro breve tempo.
Sui documenti di ogni badante, ad esempio, è riportato il nome della persona
assistita che fa come da garante ed è, di fatto, il vero titolare del permesso.
Se l’anziano o il malato vengono a mancare, viene meno anche la “garanzia” e si
può finire di colpo nella lista degli illegali.
La situazione non è
mai stata facile, ma nell’ultimo anno è diventata per moltissimi addirittura
drammatica. Giusto dodici mesi fa, il 3 giugno 2012, è entrata in vigore una
legge che consente di chiudere in campi di internamento per un periodo fino a 3
anni, senza processo, gli immigrati irregolari. Anzi, può essere condannato a
pesanti pene detentive – come ha scritto in una bella inchiesta giornalistica
Dana Weiler-Polak per il quotidiano Haaretz – anche chi “aiuti i migranti o
fornisca loro un rifugio”: si va dai 5 ai 15 anni di carcere. Una mazzata per
quanti, arrivati dal confine egiziano, contavano sull’assistenza di parenti e
amici già residenti in Israele. Sono state inoltre inasprite le pene per reati
minori attribuiti dalla “voce comune” ai migranti, magari furtarelli come la
sottrazione di una bicicletta. “Infrazioni – afferma Dana Weiler-Polak – per le
quali in precedenza non sarebbero stati detenuti”.
I migranti arrestati
dai militari lungo il confine del Sinai sono stati sempre accompagnati al
centro di detenzione di Saharonim, nel Negev, capace di 2.000 posti. Quasi in
concomitanza con la nuova legge, l’estate scorsa, il complesso è stato più che
raddoppiato, tanto da poter ospitare ora 5.400 persone. L’internamento è
l’anticamera dell’espulsione verso i paesi d’origine. Si è cominciato con i
sudanesi. In particolare quelli originari del nuovo stato del Sud Sudan,
istituito con capitale Giuba nel luglio del 2011. Israele ha sempre sostenuto,
in funzione anti islamica, i gruppi rivoluzionari, di religione cristiana, che
hanno portato alla scissione. Per questo molti, prima dell’indipendenza, hanno
chiesto rifugio a Tel Aviv. Ma ora il governo israeliano ritiene che siano
venute meno le condizioni per ospitarli ed ha cominciato ad ordinarne il
trasferimento in massa. Senza tener conto che in realtà la situazione nel Sud
Sudan è tutt’altro che pacificata: la regione è tormentata ancora da scontri,
combattimenti, incursioni di bande di miliziani, persecuzioni, rapimenti. Con
migliaia di sfollati che vagano senza pace. E l’impressione è che, subito dopo
i sudanesi meridionali, la stessa sorte toccherà agli eritrei. Anche a questi
profughi, infatti, non è permesso chiedere asilo, probabilmente sempre a causa
di interessi di politica internazionale, nonostante ad Asmara continui la
dittatura spietata di Isaias Afewerki.
Contro questo regime
duro è esplosa la protesta delle organizzazioni umanitarie, che contestano sia
la nuova legge che il sistema di detenzione. “Invece di comportarsi come tutti
i paesi civili – ha dichiarato Hotline for Migrants Workers a Dana Weiler-Polak
– e di verificare le richieste di asilo, garantendo lo status di rifugiato a
chi ne ha diritto, cosa che Israele è obbligata a fare in base alla convenzione
dell’Onu, lo Stato considera la carcerazione di massa di migliaia di persone,
donne e bambini la cui sola colpa è stata il cercare di fuggire da regimi
sanguinari, come la soluzione del problema. Questa soluzione non risolverà
nulla, poiché non è né umana né efficace”. Il governo, tuttavia, non demorde.
Le autorità carcerarie garantiscono di essere in grado “di inserire nelle
proprie strutture tanti immigrati illegali quanti ne arrivano”. In verità ne
arrivano sempre di meno e il problema riguarda semmai i clandestini già
presenti nel Paese. Il che spiegherebbe perché questi giovani siano così
diffidenti e non si lascino avvicinare facilmente da nessuno. Il flusso,
arrivato in passato a registrare fino a 2.000 ingressi al mese, è rallentato e
poi si è di fatto quasi interrotto da quando è stata completata la grande
barriera al confine del Sinai: un muro di filo spinato pressoché invalicabile,
lungo centinaia di chilometri, che completa la politica dei respingimenti nel
deserto applicata negli ultimi tempi nei confronti dei fuggiaschi, disperati
giunti fortunosamente in vista di quella che credevano la salvezza, dopo un
viaggio denso di mille pericoli, pagato migliaia di dollari a guide e
“passatori” pronti a tradirli e ad abbandonarli al minimo pericolo.
La linea autoritaria
ha il pieno sostegno dell’attuale ministro degli esteri Eli Yishai, già alla
guida del dicastero degli interni fino al marzo scorso, che un anno fa,
intervistato dal quotidiano Maariv, ha dichiarato: “Useremo tutti gli strumenti
per espellere gli stranieri, fino a quando non rimarrà alcun infiltrato”.
Aggiungendo, secondo vari organi di stampa: “I musulmani che arrivano qui non
pensano neppure che questo paese appartiene a noi, all'uomo bianco”.
La maggior parte
della gente non condivide una posizione così oltranzista. Ma in genere
giustifica la politica delle espulsioni sostenendo che Israele è troppo piccolo
per essere in grado di sostenere un flusso intenso di emigrazione dall'Africa o
da altri paesi. Solo che, di contro, le porte restano aperte all'emigrazione di
ebrei di tutto il mondo. Anzi, questo genere di arrivi è favorito e sostenuto.
La differenza, allora, sembra essere solo tra l’essere o no ebrei. E’ questo il
vero nodo. Che stringe il cuore di chiunque, anche non israeliano né ebreo, ami
davvero Israele e quello che la sua nascita nel maggio del 1948, sessantacinque
anni fa, ha significato per il mondo intero.