di Emilio Drudi
Una barriera in mare
e sulle sponde africane del Mediterraneo, rinforzata da una blindatura del
confine meridionale della Libia, in pieno deserto, perché i migranti, bloccati
prima ancora di entrare nel paese o subito dopo, non possano nemmeno giungere
in vista della costa per imbarcarsi verso l’Italia e l’Europa. Sembra questa la
sostanza del nuovo accordo tra Roma e Tripoli per il controllo dell’emigrazione
nel canale di Sicilia. Ne hanno discusso il premier Letta e il presidente
libico Ali Zeidan Mohammed il 4 luglio scorso. I termini precisi dell’intesa
non sono ancora noti. Forse ci si limiterà ad aggiornare quella firmata
nell’aprile del 2011 dall’allora ministro dell’interno Anna Maria Cancellieri.
Di certo nessun documento è finora pervenuto per l’approvazione alle Camere, il
cui parere, trattandosi di trattati internazionali, è indispensabile. Il
sospetto è che si stia procedendo quasi in segreto. Le dichiarazioni rese al
termine dell’incontro bilaterale sono tuttavia di per sé eloquenti.
“Il controllo delle
frontiere e dell’immigrazione clandestina per noi è una priorità”, ha detto
Letta, annunciando anche che l’Italia si farà carico di addestrare “cinquemila
unità tra le forze libiche”. Ali Zeidan Mohammed gli ha fatto eco ribadendo che
la Libia “farà tutti gli sforzi necessari per arginare il fenomeno
dell’immigrazione clandestina”. Ha accettato in pieno, insomma, il ruolo di
“gendarme” che l’Italia ha assegnato al suo paese fin dal 2009 con il governo
Berlusconi e ribadito poi da Monti nel 2011. Non ha mancato, poi, di battere
cassa in Europa: “Crediamo – ha detto – che questi sforzi debbano coinvolgere
tutti gli Stati del Mediterraneo del nord, con contributi anche sul piano
finanziario”. Ed è stato proprio lui a rivelare che la cooperazione con
l’Italia comprende il rafforzamento, “con le infrastrutture necessarie”, non
solo dei confini marittimi ma della frontiera meridionale, quella in pieno
deserto dalla quale entrano in Libia i migranti e i profughi in fuga
dall’Africa sub sahariana e dal Corno d’Africa. Quali siano le infrastrutture a
cui fa riferimento Ali Zeidan non è stato specificato, ma è facile pensare a
motovedette e naviglio minore per il Mediterraneo; automezzi, jeep, fuoristrada,
strutture fisse e recinzioni, ecc. per il deserto. E c’è chi sospetta anche
armi ed equipaggiamenti militari.
Non una parola, da
parte di Letta, per pretendere da Tripoli, come condizione essenziale per
qualsiasi tipo di accordo bilaterale, la garanzia dei diritti umani e, in
particolare, dei diritti dei rifugiati. Silenzio assoluto sul fatto che la
Libia continua a non riconoscere la convenzione di Ginevra del 1951 sui profughi.
Totalmente ignorate la terribili condizioni di vita delle migliaia di migranti
finiti nelle carceri e nei circa 20 campi di detenzione, che l’ipocrisia del
governo italiano continua a chiamare centri di accoglienza, ma che sono in
realtà autentici lager, dove i prigionieri subiscono ogni genere di soprusi e
violenze, come testimoniano le continue denunce di numerose organizzazioni
umanitarie. In particolare Amnesty International, l’agenzia Habeshia, il gruppo
Everyone, la stessa Commissione Onu.
“La situazione in
Libia è così grave – protesta don Mussie Zerai, portavoce di Habeshia – che non
solo gli accordi specifici sull’immigrazione, ma l’intero trattato di
collaborazione Italia-Libia, in tutti i suoi aspetti, anche economici e
politici, dovrebbero essere subordinati al rispetto effettivo dei diritti più
elementari degli africani ‘neri’ che sono entrati a vario titolo nel paese: in
fuga da persecuzioni politiche o religiose, per lavoro, come luogo di transito.
Non bastano assicurazioni generiche: alla luce di quanto è accaduto finora,
occorre chiedere un efficace sistema di verifica e controlli affidato a
commissioni europee o dell’Onu. E’ l’unico modo per non diventare complici o
addirittura mandanti di fatto dei continui soprusi che si verificano”.
Tutto lascia
credere, invece, che il governo Letta seguirà la linea inaugurata da Berlusconi
con Gheddafi e ribadita poi da Monti con il primo governo rivoluzionario,
affidandosi in toto alla Libia. Così il “lavoro sporco” dei respingimenti a
priori, per i quali l’Italia ha già subito una condanna dalla Corte europea per
i diritti umani, verrà svolto dalle milizie e dalla polizia di Tripoli, lontano
dai confini e dai mari italiani. E senza che i richiedenti asilo abbiano alcuna
possibilità di farsi ascoltare. Cancellati e basta. Costretti al di là anche
della frontiera del Sahara, in modo che non riescano a mettere piede nemmeno in
Libia. E’ l’esatto opposto dell’appello all’apertura e alla comprensione, a una
politica diversa nei confronti delle “periferie”, che papa Francesco ha
lanciato da Lampedusa, la piccola isola “porta dell’Europa” per i profughi
africani, scelta come meta del suo primo viaggio ufficiale proprio per dar voce
agli ultimi della terra. Tutti in Italia hanno applaudito le parole del
pontefice. Anche nel governo e nel Parlamento. C’è da chiedersi, allora, come
si concili questo consenso con le linee del nuovo accordo che si profila con la
Libia. Forse ancora più pesante di quello firmato da Berlusconi e da Monti.
A dettare questa
linea dura forse è il fatto che in realtà tutto il Nord del mondo sta alzando
muri sempre più alti contro profughi e migranti. L’ultimo caso è quello di
Israele, che ha completato nei mesi scorsi l’impenetrabile barriera di filo
spinato nel Sinai, lungo il confine egiziano, intensificando anche controlli e
pattugliamenti. E’ stata chiusa, di fatto, la via percorsa in questi anni da
decine di migliaia di disperati in fuga dal Sudan, dall’Eritrea, dall’Etiopia e
dalla Somalia. “Il flusso verso Israele – conferma don Zerai – è pressoché
cessato. Quasi nessuno fugge ormai attraverso il Sinai dai campi profughi del
Sudan e dell’Etiopia, perché le speranze di riuscire a passare sono
praticamente nulle. L’unica strada rimasta è quella verso il Nord Africa e in
particolare la Libia. Forse per questo l’Italia pensa di spostare la barriera
il più a sud possibile, magari lungo la frontiera meridionale della Libia”.
A barriere come
questa bussano già adesso migliaia e migliaia di disperati. Pensare di
bloccarli con un muro è illusorio, tanto più che continuano a moltiplicarsi i
conflitti e le persecuzioni che alimentano il flusso di altre migliaia di
disperati. Basta scorrere le cronache. L’onda lunga della crisi di Damasco è
arrivata ormai anche sulle nostre coste, come dimostra il numero crescente di
richiedenti asilo siriani. La rivolta tuareg e la guerra che ne è seguita in
Mali hanno “prodotto” almeno 800 mila sfollati. La maggioranza si è stabilita
nei paesi limitrofi: soprattutto in Niger e in Mauritania. Ma non è finita:
arrivano notizie di vendette e persecuzioni etniche e religiose e molti
guardano ormai all’Europa come unica via di salvezza. Per non dire delle
situazioni occulte o sottaciute, come quella dell’Eritrea, dominata da oltre
vent’anni dalla dittatura militare di Isaias Afewerki. Solo in Etiopia sono 65
mila i rifugiati eritrei, concentrati in quattro campi di accoglienza, tutti
nella regione del Tigrai: Shimelba, il primo ad essere aperto, nel 2004, a 30
chilometri dal confine; Mai Ayni e Adi Harish, più all’interno, ciascuno con 20
mila ospiti; e un quarto, più piccolo e ancora in fase di realizzazione, non
lontano da Mai Ayni. Le condizioni di vita sono dure, poverissime. Il governo
etiope cerca di fare qualcosa. Ha messo a disposizione, ad esempio, mille borse
di studio per i ragazzi, in modo che possano frequentare le scuole o
l’università ad Addis Abeba o in una delle altre principali città del paese,
facendosi carico di tutto: alloggio, vitto, costo dei corsi, ecc. Consente
inoltre ai profughi che hanno parenti in Etiopia di raggiungerli e vivere con
loro, lasciando i centri di raccolta. Sono migliaia, in aggiunta ai 65 mila
censiti a Shimelba, Mai Ayni e Adi Harish. “E il flusso continua – rileva don
Zerai, appena rientrato da un viaggio nel Tigrai e ad Addis Abeba – In Etiopia
arrivano dall’Eritrea almeno mille nuovi rifugiati al mese. Il problema grosso
è costituito da quelli che vivono nei campi. Lì non hanno alcuna prospettiva.
Il paese è povero. Difficilmente lo Stato potrà fare più di quello che sta
facendo”.
Nei campi si vive
come si vive: baracche di fortuna come casa, un solo centro medico ogni 20 mila
persone, servizi quasi inesistenti, nessuna possibilità di lavoro, libertà di
movimento limitata, condizioni di grave insicurezza, specie per le ragazze e le
donne o per i minorenni, che sono tantissimi, spesso senza genitori o comunque senza
adulti che si prendano cura di loro. La polizia garantisce solo la sorveglianza
esterna. All’interno del campo non ci sono controlli: può accadere di tutto, è
come avere una città di migliaia di abitanti senza alcun presidio.
Don Zerai non si
stanca di dirlo: “Vista la vita a cui si è condannati in queste strutture, è
normale che alla prima occasione molti tentino di andarsene, puntando verso
l’Europa per chiedere asilo come rifugiati, proseguendo la fuga iniziata in
Eritrea. La risposta dell’Europa non può essere quella di innalzare barriere
sempre più alte e munite, chiudendosi nella sua ‘fortezza’. Quello che occorre
è invece una politica di accoglienza più aperta, regolando i flussi
direttamente dall’Africa: dall’Etiopia, dal Sudan, dal Mali, dalla Libia.
Tramite le ambasciate o con apposite commissioni incaricate di esaminare le
domande e i requisiti dei richiedenti asilo, in collaborazione con l’Onu. Si
tratta, insomma, di riaprire la strada alla speranza. Perché, sapendo che le
richieste di emigrare verranno prese in considerazione, penso che sarebbero molti
di meno quelli disposti a sfidare la fortuna, pagando migliaia di dollari a un ‘passatore’,
per attraversare clandestinamente prima il deserto e poi il mare, con il
rischio di bruciarsi ogni possibilità di essere ascoltati e accolti.
Naturalmente vanno migliorate anche le condizioni di vita nei campi, facendone
veri centri di accoglienza attrezzati. La soluzione globale, come ha ammonito
il papa, è sicuramente nel cambiamento della politica del Nord del mondo nei
confronti delle periferie africane, asiatiche e sudamericane. Ma nell’immediato
non vedo altre vie per ridurre e riuscire a gestire questo flusso crescente verso
l’Europa di uomini e donne costretti ad abbandonare il proprio paese da guerre
e persecuzioni, da fame e miseria. Da situazioni terribili spesso create dalle
ingerenze e dagli interessi di quegli stessi paesi che poi alzano barriere
sempre più alte per respingere e ‘tenere fuori’ migliaia di esseri umani ai
quali non resta che la fuga per trovare scampo e un futuro migliore”.
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