di Emilio Drudi
“Andare verso le
periferie”. Lo ha detto papa Francesco all’indomani della sua elezione. Un
programma esplicito di umiltà e solidarietà. Di più: una rivoluzione che pone
al centro la necessità di guardare ai problemi con gli occhi degli ultimi. Gli
ultimi lasciati indietro dalla nostra società, dove i ricchi diventano sempre
più ricchi e i poveri sempre più poveri e che non si fa scrupolo di abbandonare
al loro destino i più deboli e i più sfortunati. E gli ultimi del Sud del
mondo, la gente di paesi troppo spesso sfruttati, tenuti in soggezione, privati
di fatto della propria sovranità nazionale ed economica, per alimentare la
prosperità e il modello di vita del Nord del mondo. Quei milioni di uomini e
donne che lo stesso papa Francesco, non a caso latino-americano, ha definito
“fratelli in stato di estremo bisogno”. Ora, con il suo primo viaggio ufficiale
fuori dal Vaticano, in Italia, il pontefice sembra voler concretizzare il suo
messaggio: proprio questo può significare, infatti, la decisione di andare,
lunedì prossimo, a Lampedusa. La quale, per volontà del sindaco Giusi Nicolini,
lo accoglierà senza feste, operazioni di make-up e “belletti”, per mostrarsi
così com’è, nella vita di tutti i giorni. Come quando accoglie i migranti che
guardano alle sue sponde dall’Africa.
Lampedusa è la porta
dell’Europa per centinaia, migliaia di giovani in fuga da fame, carestia,
guerre, persecuzioni politiche, razziali, religiose, xenofobe. Ne stanno
arrivando numerosi anche in queste ore: sanno che migliaia di loro coetanei,
altrettanto pieni di speranza, sono stati inghiottiti dal mare durante la
traversata, ma la voglia di libertà e di futuro che li anima è più forte della
paura. Ragazzi che hanno il diritto di essere accolti come rifugiati ed aiutati
a costruirsi una vita migliore, ma che troppe volte vengono scacciati con
respingimenti indiscriminati o soffocati nell’indifferenza. Mentre l’Europa
tende a rinchiudersi sempre di più dentro i propri confini. Come in una
fortezza. O in un ghetto di lusso, al cui interno però cominciano ad aprirsi
profonde crepe e contraddizioni. Ed egoismi, ingiustizie palesi. In contrasto
con le sue stesse costituzioni e con i principi di rispetto dell’uomo e dei
suoi diritti ai quali dice di ispirarsi.
Diventa un messaggio
pesante, allora, il viaggio che Jorge Mario Bergoglio farà lunedì in questa
piccolissima isola italiana nel cuore del Mediterraneo, più vicina all’Africa
che alla Sicilia. Può essere interpretato come la richiesta di cambiare
radicalmente il rapporto tra il Nord e il Sud del mondo. Ed è rivolto
all’intera Europa, all’Occidente “sviluppato” e ricco. L’Italia per prima non
può chiamarsene fuori. Anzi, alla luce delle scelte fatte negli ultimi anni nei
confronti dei migranti, può considerarsi uno dei paesi che più dovrebbero
riflettere su questa visita inattesa, che ha spiazzato la Curia stessa ed ha
costretto qualche giorno fa il vicepremier e ministro degli interni Angelino
Alfano a precipitarsi a Lampedusa, per assicurarsi che nel centro di prima
accoglienza almeno una volta tanto ci siano condizioni di vita dignitose per i
profughi, senza il sovraffollamento, i disagi, le proteste, le sofferenze,
l’isolamento che hanno raccontato le cronache negli ultimi anni. Perché
l’Italia – a parte il “caso Lampedusa”, non di rado creato ad arte per
giustificare certi provvedimenti capestro di fronte all’opinione pubblica
internazionale – ha tantissime cose da farsi perdonare nei rapporti con i
rifugiati e i migranti. Per almeno due motivi: la politica del respingimento e
l’abbandono nel nulla dei disperati che riescono a “entrare”; la complicità di
fatto con le atrocità alle quali gli immigrati “respinti” sono sottoposti nelle
carceri e nei centri di detenzione libici.
Alla politica del
respingimento sono legati centinaia di morti in mare. Uomini e donne che non ce
l’hanno fatta ad attraversare il canale di Sicilia su una “carretta”. Inclusi i
63 eritrei, somali, etiopi, sudanesi, tra cui due bambini, abbandonati alla
deriva su un gommone a morire di fame e di sete, tra la fine di marzo e
l’inizio di aprile del 2011: la tragedia che è costata all’Italia la pesante
condanna del Consiglio d’Europa, ma per la quale ancora nessuno ha pagato.
Accadeva quando era la nostra polizia di frontiera a costringere quei
fuggiaschi a invertire la rotta o a consegnarli alla Libia. Accade ancora oggi
che l’Italia ha eletto la Libia a “gendarme del Mediterraneo” contro
l’emigrazione, fornendole motovedette, assistenza tecnica, consulenza e mezzi
per i pattugliamenti in mare e sulla costa, sussidi per quelli che vengono
ipocritamente chiamati centri di accoglienza ma sono in realtà autentici lager.
L’unica differenza è che ora il “lavoro sporco” lo fanno i libici.
Ed ecco il secondo
punto. L’accordo sull’immigrazione, firmato da Berlusconi e rinnovato da Monti,
abbandona di fatto rifugiati e migranti in balia della polizia e delle milizie
di Tripoli. Senza tener conto che la Libia non ha mai riconosciuto la
convenzione del 1951 sui diritti dei profughi, senza pretendere alcuna garanzia
sul loro trattamento e, anzi, senza nemmeno preoccuparsi di verificare le
condizioni di vita a cui vanno incontro dopo essere stati intercettati,
arrestati, condotti nei centri di detenzione. Cosa accade in realtà in quei
lager lo raccontano le continue denunce di varie organizzazioni umanitarie:
sovraffollamento invivibile, servizi inesistenti, mancanza di assistenza medica
e farmaci anche per i malati e i feriti più gravi, insufficienza di cibo e
persino di acqua da bere. E poi, la soggezione totale ai carcerieri, con
continui soprusi, maltrattamenti, pestaggi al minimo cenno di protesta.
Persino, talvolta, torture gratuite, per puro sadismo. C’è un voluminoso
dossier presentato dall’agenzia Habeshia, su tutto questo, alle commissioni
europee per gli affari interni e l’assistenza. Ma l’Italia continua a tacere.
Ed è un silenzio assordante. Che, di fatto, la rende complice di questi crimini.
Di una violenza infinita alla quale si aggiunge, in Italia, una indifferenza
colpevole delle istituzioni per la sorte degli stranieri accolti come profughi
ma consegnati a un’odissea di sofferenza anziché a un percorso di accoglienza e
di integrazione. Sono migliaia quelli che vengono abbandonati a se stessi,
nonostante i milioni di euro, 22 negli ultimi tre anni, stanziati per l’Italia
dal Fondo Europeo per i rifugiati: “non persone” con in tasca il nulla osta per
la richiesta di asilo, ma privi di tutto. Senza soldi, senza alloggio, senza
possibilità di lavoro, sono destinati a finire nelle decine di baraccopoli di
“invisibili” sorte nelle periferie, sfruttati come manodopera in nero ed
esposti a mille rischi.
Non c’è da
aspettarsi che tutto questo abbia un’eco esplicita lunedì, nella “giornata di
Lampedusa”. Ma la scelta di papa Francesco di iniziare i suoi viaggi “nel
mondo”, fuori dal Vaticano, proprio da qui, sembra lanciare un monito evidente:
sono in tanti a pensare che urli all’Italia e all’Europa, all’Occidente, che
non possono continuare a chiudersi in se stessi e a gettare le sofferenze di
migliaia, milioni di “fratelli in stato di estremo bisogno” al di là del muro.
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