di Emilio Drudi
Massacrati di botte
sulla linea di confine. A Melilla, enclave spagnola e dunque dell’Unione
Europea nel Nord Africa, in Marocco. Un pestaggio sistematico, brutale e
assolutamente immotivato, contro un centinaio di profughi e migranti. Da parte
della polizia. Accade spesso alle frontiere. E non solo alle frontiere.
Stavolta, però, questo abuso inumano è stato documentato, trascinando sotto
accusa la Guardia Civil spagnola e le milizie ausiliare marocchine.
Era l’11 marzo di
quest’anno. Circa cento giovani fuggiti da vari paesi dell’Africa occidentale e
sub sahariana (Mali, Gabon, Camerun, Burkina Faso, Guinea, Ciad e Senegal)
tentano di attraversare la munitissima border line tra il Marocco e Melilla.
Vengono intercettati da pattuglie della Guardia Civil e della polizia
marocchina. Non hanno scampo. Pensano che li aspetti un centro di internamento
e magari un foglio di via per il rimpatrio forzato. Va molto peggio: comincia
una specie di mattanza. Il bilancio è terribile: un giovane muore dopo qualche
giorno, decine di altri risultano feriti gravemente. Respinti in Marocco,
terrorizzati, vengono raggiunti in un accampamento di fortuna da un gruppo di
volontari dell’associazione umanitaria Alecma. Tra i soccorritori c’è anche la
regista veronese Sara Creta la quale, insieme a un altro cineoperatore, Sylvin
Mbarga, camerunense, documenta le pesantissime conseguenze della violenza e
raccoglie le testimonianze delle vittime, sia scritte che registrate in
audio-video. “Hanno usato pietre e mazze di ferro per colpirci”, denunciano
molti. Uno dei feriti, Clement, profugo del Camerun, muore sotto gli occhi di
Sara Creta, prima che arrivi un’ambulanza per trasportarlo in un ospedale: ha
lesioni devastanti alla testa, un braccio e una gamba fratturati. Tutto il suo
misero guardaroba si riduce alla maglietta da calcio con il numero 9 che ha
indosso. La sua vicenda e quella dei suoi compagni diventa un documentario
agghiacciante: intitolato “N. 9”, come la t-shirt di Clement, il film, uscito
in questi giorni, sta destando una sensazione enorme ed ha dato vita in tutta
Europa alla campagna “Stop alla violenza alle frontiere”. Ma non soltanto alle
frontiere, perché la violenza è ormai quasi la norma nel rapporto delle
istituzioni con disperati come Clement e gli altri.
In Libia, promossa
dall’Europa al ruolo di “gendarme del Mediterraneo” contro l’emigrazione
clandestina, torture, pestaggi e soprusi sono la vita quotidiana dei profughi e
dei migranti rinchiusi in tutti le carceri e nei campi di detenzione, autentici
lager che l’ipocrisia europea si ostina a chiamare centri di accoglienza. E’
eloquente il dossier presentato alle commissioni affari sociali e interni della
Ue da parte di don Mussie Zerai, portavoce dell’agenzia Habeshia, circa un anno
fa e via via aggiornato con diversi rapporti integrativi. L’ultimo è di queste
settimane, corredato anche da una serie di fotografie “rubate” con un cellulare
e fatte uscire clandestinamente dal campo di Burshada. Ma l’indifferenza della
comunità internazionale non ne è stata scalfita. Nessuna reazione, in
particolare, dall’Italia, nonostante abbia stipulato con il governo Berlusconi
e rinnovato con Monti un accordo bilaterale che assegna a Tripoli il compito di
blindare con ogni mezzo il Canale di Sicilia, bloccando i profughi in mare mentre
tentano di raggiungere Lampedusa o la penisola, presidiando la costa per
impedire gli imbarchi o arrestando in massa quei disperati nelle città o appena
hanno varcato, in pieno Sahara, il confine libico. Non a caso gli oltre venti
campi di detenzione sparsi nel paese sono strapieni, già di per sé invivibili
per il sovraffollamento e la mancanza di servizi, di assistenza, cibo e persino
acqua potabile sufficiente, senza contare i continui maltrattamenti, gli abusi,
le percosse, le violenze a cui si abbandonano i militari e i miliziani di
guardia.
“Un vero inferno”,
denunciano tutti i testimoni delle organizzazioni umanitarie. Un inferno
destinato probabilmente ad inghiottire ancora migliaia di vittime. Tutto lascia
prevedere, infatti, che in Libia come nell’intera fascia dell’Africa
settentrionale il flusso di richiedenti asilo e migranti, lungi dal diminuire,
continuerà ad aumentare. Una delle vie di fuga dei profughi, specie dal Sudan e
dal Corno d’Africa, quella israeliana attraverso il Sinai, si è chiusa. Tel
Aviv ha terminato di costruire una impenetrabile barriera di filo spinato lungo
il confine egiziano, eliminando di fatto ogni possibilità di ingresso e
completando così la politica dei respingimenti nel deserto, prima della
frontiera. Contemporaneamente, il governo sta predisponendo l’espulsione di
gran parte dei 60 mila rifugiati, soprattutto sudanesi ed eritrei, arrivati
negli ultimi anni. E’ lecito attendersi dunque che, sbarrato il Sinai, anche il
flusso che passava di lì si riverserà sull’Africa settentrionale e, dunque, sul
nostro Mediterraneo. Forse anche per questo corre voce che il trattato tra
Italia e Libia verrà riesaminato per arrivare a forme ancora più restrittive.
Mentre nessuno sembra ricordarsi e tener conto di violenze tremende come quelle
denunciate a Melilla o nelle carceri di Tripoli.
Ci sono, del resto,
anche altre forme di violenza. Spesso direttamente in Europa, frutto di
indifferenza, burocrazia, insensibilità, norme e procedure assurde. Magari
hanno meno eco, tra la gente e sui giornali, delle torture e dei maltrattamenti
feroci che di tanto in tanto riescono a portare alla luce le denunce del
Commissariato Onu per i rifugiati e delle organizzazioni umanitarie. Tuttavia
finiscono anch’esse per “uccidere dentro”, a poco a poco, centinaia, migliaia
di giovani che hanno lanciato il loro grido d’aiuto all’Occidente, in nome dei
diritti umani e delle convezioni internazionali. E’ quanto emerge da una nuova
protesta di don Mussie Zerai, questa volta a proposito dei Cara, i Centri di
accoglienza per i richiedenti asilo. In particolare, quello di Caltanissetta.
Il caso è stato portato direttamente all’attenzione del ministro dell’interno
Angelino Alfano.
In base alle
procedure, dopo aver ottenuto dalla Commissione territoriale lo status di
rifugiato o la protezione sussidiaria, i profughi dovrebbero essere trasferiti
nei circuiti dello Sprar, il Servizio per la protezione dei richiedenti asilo,
o in altri centri simili, per aiutarne il processo di integrazione in Italia,
fino al pieno inserimento nella società. Secondo le testimonianze raccolte
direttamente da don Zerai, invece, a Caltanissetta starebbe accadendo
esattamente il contrario: “Dopo il pronunciamento della Commissione – racconta
il sacerdote eritreo – i migranti vengono messi fuori dal Centro di accoglienza
senza aver nemmeno ricevuto tutti i documenti previsti. Per averli devono
tornare dopo 40 giorni. Ma nessuno si preoccupa di come, privi di qualsiasi
risorsa, senza un alloggio, senza soldi, senza lavoro, potranno vivere in quei
40 giorni. Ovvero, vengono di fatto consegnati ad ogni genere di sfruttamento o
anche peggio. Non solo. Per il rilascio del primo permesso e del biglietto per
il viaggio verso la località indicata per il soggiorno, è richiesto il
pagamento di 127 euro. Può sembrare una cifra non elevata. Ma bisogna tener
conto che queste persone sono state letteralmente ‘pescate in mare’, senza un
solo euro in tasca. Dal giorno del loro arrivo in Italia sono stati ospiti di
centri di accoglienza e, dunque, non hanno avuto alcuna possibilità di lavorare
e di mettere insieme qualche soldo per le necessità più urgenti. Ecco perché
non hanno quei 127 euro. E’ essenziale, allora, che il rilascio del primo
permesso e del documento di viaggio sia a carico dello Stato. Come avviene del
resto in tutta Europa. Altrimenti, una volta usciti dal Cara, questa gente si
ritroverà allo sbando, per volontà dello Stato stesso. Con in tasca il parere
positivo della Commissione territoriale sulla loro domanda di asilo, ma senza
denaro, senza cibo, senza alloggio. Costretti a mendicare un piatto di minestra
e a dormire dove capita: per strada, in un portone, in una delle infinite
baraccopoli di ‘invisibili’ e ‘non persone’ sparse in tutta Italia. Braccia da
sfruttare in nero e rischi infiniti di ogni genere”.
E’ difficile non
definire anche questa una violenza. Sia pure con tutte le “procedure” legali
formalmente a posto. E, ovviamente, con effetti immediati sulle persone e un
impatto “esterno” molto minori del massacro di Melilla o delle torture libiche.
Si potrebbe obiettare che, in tempi di crisi e di ristrettezze come quelli che
stiamo vivendo, è difficile per lo Stato accollarsi queste spese. Sarà bene,
allora, fare un po’ di conti per capirne l’entità. Secondo i rapporti annuali
della Caritas, ogni anno in Italia vengono presentate in media 35 mila
richieste di asilo. Nonostante l’opinione diffusa, molte di meno di quante ne
ricevano altre nazioni, a cominciare dalla Francia, prima in Europa con una
media di 50-55 mila l’anno. Di queste 35 mila, in genere ne vengono accolte la
metà circa. Dunque, 17 o 18 mila che, moltiplicate per 127 euro a testa,
portano a un totale di 2 milioni 286 mila euro l’anno. Sembra tanto. Ma è in
realtà molto meno dei 3 milioni e 310 mila euro che costituiscono l’ammontare
totale delle diarie (3.503 euro ciascuna) per soggiorno, viaggi, ecc. assegnate
ogni mese ai 945 senatori e deputati del nostro Parlamento. Se si aggiunge poi
il rimborso spese previsto per “l’esercizio del mandato”, pari a 3.690 euro a
testa ogni trenta giorni, si arriva a quasi 6 milioni e 800 mila euro. Sempre
al mese, è bene ripeterlo. E senza contare i benefit indiretti delle tessere
gratis di autostrade, treni, aerei e linee marittime per gli spostamenti
nazionali. Ovvero, in soli 30 giorni le “spese” di deputati e senatori
ammontano a quasi il triplo di quelle annuali che lo Stato dovrebbe affrontare
per consegnare gratis permessi e documenti ai rifugiati. Anzi, per “coprire”
questi 2 milioni e 286 mila euro, basterebbe ridurre di soli 200 euro i 7.193
che tra diaria e rimborsi riceve a fine mese ciascun parlamentare. Sarebbe un
“taglio” di appena il 2,78 per cento.
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