di Emilio Drudi
“Il controllo delle
frontiere e dell’immigrazione clandestina per noi è una priorità”. Lo ha
dichiarato il premier Enrico Letta al termine dell’incontro a Roma con il primo
ministro libico, Ali Zeidan Mohammed, nell’ambito delle trattative per un nuovo
trattato con Tripoli. Proprio mentre papa Francesco, con il suo viaggio di
lunedì a Lampedusa, lancia implicitamente un monito all’Italia e all’Europa a
rivedere la loro politica nei confronti del Sud del mondo, a cominciare dalle
barriere sempre più alte erette nei confronti di profughi e migranti, il
governo appare orientato a confermare la scelta di fare della Libia il
“gendarme del Mediterraneo”. Nonostante il bilancio disastroso degli ultimi
anni, segnati da centinaia di disperati scomparsi in mare durante la traversata
e da migliaia di perseguitati rinchiusi a tempo indefinito nelle carceri e nei
centri di detenzione libici, autentici lager dove la violenza è pratica
quotidiana e dove tutti i diritti, anche i più elementari, sono annullati.
Quello che conta,
evidentemente, è solo impedire che i “clandestini” arrivino in Italia. Letta
non sembra nemmeno sfiorato dall’idea che i “clandestini” che sbarcano sulle
nostre coste dall’Africa, nella stragrande maggioranza sono in realtà richiedenti
asilo che hanno diritto ad essere accolti come rifugiati. Giovani in fuga da
guerre, persecuzioni e soprusi non possono essere respinti a priori, prima
ancora di giungere in vista di Lampedusa o della Sicilia: occorre quanto meno
esaminare le ragioni che li hanno portati ad abbandonare il loro paese e a
chiedere aiuto, affrontando un viaggio pieno di rischi, che spesso dura mesi e
mesi e che per molti si conclude in fondo al Mediterraneo, in una fossa comune
nel deserto, in una tomba dimenticata, in un lager.
A imporre una
politica di accoglienza più “aperta” all’Italia sono le convenzioni
internazionali che ha firmato e, prima ancora, la stessa Costituzione
Repubblicana. Ma si continua a fingere di ignorare che chiunque fugga da un
regime che lo perseguita non può che essere un “migrante clandestino”,
costretto a sottrarsi alle normali procedure dell’immigrazione (quote e flussi
guidati, permessi, controlli e visti delle ambasciate…) proprio perché sta
scappando per salvarsi la vita o quanto meno per sottrarsi al carcere. E’ la
stessa ipocrisia posta alla base dei due precedenti accordi anti immigrazione
tra Italia e Libia: quello voluto dal ministro leghista Roberto Maroni e
firmato da Berlusconi e Gheddafi nel 2009, costato all’Italia una pesante
condanna della Corte Europea, per la pratica dei respingimenti in mare; e
quello fotocopia siglato dal ministro degli interni Anna Maria Cancellieri il 4
aprile 2012, con il governo Monti. Letta, per parte sua, non sembra
intenzionato a cambiare alcunché. Anzi, l’Italia intende intensificare il suo
supporto e la sua collaborazione con Tripoli, garantendo – ha specificato il
premier – un programma di “attività di addestramento italiano che riguarderà 5
mila unità tra le forze libiche”. La conferma è arrivata da Alì Zeidan: “In
Libia – ha dichiarato – faremo tutti gli sforzi per arginare il fenomeno
dell’immigrazione clandestina. Abbiamo concordato che questa cooperazione
comprenda il rafforzamento dei confini meridionali e marittimi con le
infrastrutture necessarie”.
Il presidente libico
non ha specificato quali siano queste “infrastrutture”, ma è facile intuire più
pattugliamenti in mare e sulle coste e magari una barriera che blindi la
frontiera del deserto, lasciando fuori i disperati che arrivano in cerca di
asilo in Europa. Anzi, Zeidan ha allargato il suo discorso proprio all’Europa, ribadendo
che il suo governo “darà piena collaborazione all’Italia e alla Ue per
affrontare e arginare l’immigrazione”, ma chiedendo “contributi anche sul piano
finanziario” a tutti gli Stati del Nord del Mediterraneo”. Esattamente come
aveva fatto Gheddafi.
Da parte delle forze
politiche non ci sono state reazioni. Non c’era da aspettarsele. Il Pdl e la
Lega sono da sempre per la linea dura contro tutti gli immigrati. Il Pd ha
votato a favore sia dell’accordo Berlusconi-Maroni che di quello
Monti-Cancellieri, soffocando le voci contrarie che si erano levate nel gruppo
parlamentare alla Camera: a maggior ragione tace ora che la trattativa è
condotta da Letta. Il movimento5 Stelle non ha mai mostrato di volersi far
carico di questo problema. Al contrario: tra le sue fila si sono levate voci
tutt’altro che amichevoli nei confronti dei migranti. Resta Sel, ma finora non
si è sentito. Con l’eccezione della presidente della Camera Laura Boldrini la
quale, in una significativa intervista rilasciata alla Stampa alla vigilia del
vertice Italia-Libia, ha dichiarato: “La visita del papa a Lampedusa è un
messaggio epocale, che restituisce dignità alle migliaia di vittime della
guerra a bassa intensità che da quindici anni si combatte nel Mediterraneo. Ma
è anche un monito contro le campagne ideologiche che disgregano la coesione
sociale, denunciando una invasione inesistente, e diffondo la paura chiamando
gli immigrati ‘clandestini’ invece che rifugiati”.
Le uniche voci
contrarie sono così quelle delle organizzazioni umanitarie. A cominciare da
Amnesty International. L’associazione ha già contestato duramente le intese
precedenti, presentando anche una petizione a livello europeo che, forte di
decine di migliaia di firme, ha sollecitato al ministro Cancellieri la revoca
del “patto” 2012. Senza fortuna. Ora è stata di nuovo la prima a sollevare il
caso, chiedendo non solo di non sottoscrivere accordi sull’immigrazione ma di
bloccare anche i trattati di sostegno e cooperazione economica fino a che non
sarà garantito in Libia il rispetto dei diritti umani e, in particolare, dei
profughi e dei migranti, sulla base della convenzione di Ginevra del 1951. I
motivi della protesta, inviati a Letta il giorno stesso del suo incontro con
Alì Zeidan, sono riassunti nel documento che, presentato il 20 giugno in
occasione della “Giornata mondiale del Rifugiato”, è il frutto di una visita
effettuata in Libia da rappresentanti di Amnesty tra aprile e maggio. Vi si
denuncia, in particolare, “la detenzione a tempo indeterminato di rifugiati,
richiedenti asilo e migranti (compresi bambini) in prigioni, definite centri di
trattenimento”, dove le condizioni di vita sono pesantissime.
Al momento della
visita – specifica Amnesty – nel paese erano operativi 17 “centri di
trattenimento” gestiti dal ministero dell’interno, con almeno 5 mila prigionieri,
senza contare però i campi affidati alle milizie armate. Anzi, secondo
l’agenzia Habeshia, le milizie sono in realtà “padrone” anche di diversi centri
formalmente amministrati dal ministero. Dei 17 centri “ufficiali”, Amnesty ne
ha potuti visitare sette. Il rapporto è eloquente: “In tre di essi c’erano
anche minori non accompagnati, alcuni di 10 anni, detenuti da mesi. A Sabha,
dove a maggio si trovavano 1.300 persone, i detenuti erano ammassati in celle
sporche e sovraffollate. La prigione risultava priva di un servizio di
fognature, mentre i corridoi erano pieni di immondizie. Circa 80 prigionieri,
presumibilmente affetti da scabbia, erano sottoposti a ‘trattamento’ in un
cortile, sotto al sole, in condizioni di disidratazione”. E ancora: “Sono stati
documentati numerosi casi di detenuti, uomini e donne, sottoposti a brutali
pestaggi con cavi elettrici o tubi dell’acqua. In almeno due centri è stato
riferito dell’uso di munizioni letali per controllare le proteste. Un uomo che
era stato raggiunto da un proiettile a un piede, è stato legato a un letto e
poi colpito con il calcio del fucile: per quattro mesi non ha potuto
camminare”.
Di fronte a denunce
di questo genere, vari esponenti del governo e della maggioranza hanno spesso
ribattuto che comunque “l’immigrazione va gestita” e non può essere una
questione abbandonata a se stessa o allo “spontaneismo”. “Ma gestire il
problema – protesta don Mussie Zerai, portavoce dell’agenzia Habeshia – non
significa delegare tutto alla Libia come si sta facendo da anni, senza
pretendere la garanzia del rispetto dei diritti umani più elementari per
migliaia di persone, tenute prigioniere in autentici lager e consegnate di
fatto all’arbitrio della polizia di Tripoli o, peggio, delle milizie ausiliarie
armate che vigilano sui centri di detenzione. Questa delega totale equivale a
rendersi complici dei crimini commessi ogni giorno contro quei disperati, come
documentano ormai decine e decine di denunce. Se si volesse davvero gestire il
problema, basterebbe organizzare vie di ingresso legale in Italia e in Europa,
sotto il controllo della Ue. Penso, ad esempio, all’opportunità di stabilire in
Libia, magari presso le ambasciate, i consolati o altre sedi europee e d’intesa
con l’Onu e la Ue, le commissioni incaricate di esaminare le richieste di
asilo. Garantendo nel frattempo condizioni di vita dignitose e pretendendo da
Tripoli la libertà di ispezionare in ogni momento e senza preavviso i centri di
accoglienza”.
Come dire: va
cambiata radicalmente tutta la politica di accoglienza. E’ difficile pensare
che il governo dia risposte in questo senso. Tutto lascia credere, piuttosto,
che sul contenuto preciso dei nuovi accordi finirà per attivarsi un processo di
“silenziamento” simile a quello che ha coperto di fatto il trattato
sull’immigrazione del 2012. Un “silenziamento” che riguarda anche l’inferno
delle carceri e dei campi di accoglienza sparsi in tutta la Libia, una notizia
scomoda che sulla stampa trova molto meno spazio, ad esempio, dei resoconti
“buonisti” sui salvataggi e sul recupero in mare dei barconi carichi di
migranti da parte della nostra Guardia Costiera. Anche se si tratta della
sofferenza e della vita stessa di migliaia di uomini e donne. Ed è sintomatico,
forse, che questo nuovo accordo arrivi proprio in questi giorni. Magari è solo
un caso, ma nei mesi scorsi Israele ha completato la lunghissima, impenetrabile
barriera di filo spinato sul confine egiziano, nel deserto del Sinai. Non solo:
ora sta prendendo provvedimenti per espellere quasi tutti i 60 mila rifugiati,
in massima parte sudanesi ed eritrei, arrivati negli anni scorsi. Si è chiusa
definitivamente, insomma, la via del Sinai, percorsa da migliaia di profughi
fuggiti da Eritrea, Somalia, Etiopia e Sudan. Così, sbarrata la “porta” di
Israele, l’unica strada rimasta è quella del nostro Mediterraneo. Nasce il
sospetto, allora, che possa essere proprio questo il motivo guida alla base del
nuovo accordo tra Italia e Libia. E quella dichiarazione lapidaria del premier
Letta – “Il controllo delle frontiere e dell’immigrazione clandestina è per noi
una priorità” – potrebbe essere la spia che si sta puntando sulla stessa linea
dura adottata da Israele. Solo che Tel Aviv ha almeno il coraggio di farsi da
sola il “lavoro sporco”. Roma lo delega a Tripoli.
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