di Emilio Drudi
“Voglio annunciare
che Roma prenderà un’iniziativa concreta: i 155 superstiti saranno accolti qui,
grazie alla collaborazione del ministero dell’Interno”: lo ha detto il sindaco
Ignazio Marino durante la veglia in ricordo delle vittime della tragedia di Lampedusa,
assicurando che il Campidoglio si farà carico direttamente del programma di
aiuti e assistenza immediato e futuro. Sono già state indicate soluzioni per le
necessità più urgenti, a cominciare dall’alloggio: i profughi saranno ospitati
in due strutture appartenenti al Comune. Per vestiario, beni di prima
necessità, ecc. si sta provvedendo a cura dei servizi sociali capitolini e con
l’aiuto di volontari e varie organizzazioni umanitarie. Lo stesso Marino ha
spiegato le ragioni di questa scelta: “Il destino dei migranti – ha detto – è
anche il nostro. Io dico basta ai messaggi di cordoglio ai quali non seguono
azioni tangibili, perché è solo ipocrisia”. Sulla stessa linea il presidente
della Regione, Nicola Zingaretti il quale, oltre ad assicurare il suo sostegno
all’iniziativa, ha ampliato il discorso, invocando “leggi più umane e più
civili” per costruire in Italia e in Europa un sistema di accoglienza più
efficiente e, soprattutto, più vicino ai bisogni reali dei migranti.
Può essere
finalmente l’inizio di un discorso nuovo. Il punto di svolta sollecitato con
forza, direttamente da Lampedusa, dal sindaco Giusi Nicolini e dalla presidente
della Camera Laura Boldrini (non a caso due donne da sempre in prima linea
nella battaglia sui diritti dei profughi), per fare in modo che d’ora in poi le
cose cambino veramente. Per un domani diverso. Ecco perché appare nobile e di
grande spessore umano e civile la decisione del sindaco Marino. Di più: è anche
una risposta netta ai tanti distinguo che già cominciano ad emergere, dopo il
coro di parole di cordoglio e la profusione di lacrime “pubbliche”. A
cominciare dai tanti tentennamenti e dalle resistenze all'abrogazione della
legge Bossi-Fini. Quella legge assurda che, come primo atto, nel momento stesso
in cui i sopravvissuti sono sbarcati con negli occhi l’orrore che stavano
vivendo, li ha incriminati per immigrazione clandestina. E che minaccia di
mettere sotto accusa per favoreggiamento dello stesso reato chiunque presti
soccorso e porti a terra migranti naufragati in pieno Mediterraneo o
intercettati, stipati a centinaia, su carrette non più in grado di reggere il
mare. Basti citare il discorso fatto alla Camera dal ministro degli interni
Angelino Alfano, che è tornato a parlare di “difesa” delle frontiere, come se
l’Italia e l’Europa avessero di fronte un esercito armato di invasori e non
disperati in cerca di aiuto per sottrarsi a guerre e persecuzioni, a carcere e
torture. In una parola, per poter sopravvivere.
Eppure, resta un
“però”. La decisione e l’appello del sindaco sarebbero stati forse ancora più
significativi ed efficaci o, meglio, più davvero “rivoluzionari”, se accanto ai
155 superstiti di Lampedusa fossero stati messi anche tutti gli altri profughi
abbandonati a se stessi a Roma. Ce ne sono a decine, a centinaia. Hanno
ottenuto il riconoscimento dello status di rifugiato e il diritto alla
protezione internazionale, ma poi nessuno si è più ricordato di loro.
Cancellati come se non esistessero. “Non persone” condannate a trascinare i
loro giorni nei rifugi di fortuna degli “invisibili”, da usare al massimo come
manovalanza in nero, salvo a riemergere di colpo “visibili”, anzi, ad essere
messi sotto i riflettori, quando se ne occupa la cronaca nera: allora diventano
i “responsabili” di tutto, il “capro” su cui scaricare colpe e frustrazioni che
in realtà con loro non hanno nulla a che fare.
E’ emblematico a
questo proposito il caso, esploso qualche anno fa, dell’ex consolato della
Somalia. Nella grande villa liberty sulla via Nomentana, a due passi da Porta
Pia, che ospitava gli uffici diplomatici, chiusi e abbandonati dopo la caduta
del dittatore Siad Barre e la disgregazione della Repubblica Somala, avevano
trovato rifugio numerosi profughi. Soprattutto somali, etiopi ed eritrei. Una
“invasione” che si è protratta a lungo, in condizioni di assoluta indigenza e
insicurezza, in pratica senza servizi, con uno o due bagni al massimo per tutti
e persino quasi senz’acqua. Una bomba pronta a scoppiare nel cuore della città,
anche perché in quella villa, dopo i richiedenti asilo che avevano promosso
inizialmente l’occupazione, si erano stabiliti nei mesi successivi pure personaggi
equivoci di ogni genere, minacciando e spesso pestando a sangue chiunque
cercasse di opporsi. Lo sapevano tutti. Polizia e vigili urbani, e quindi
Governo e Comune, non potevano non sapere. Però nessuno è intervenuto e non se
ne è mai parlato. Fino a quando non si è verificato un episodio drammatico, lo
stupro di una ragazza che aveva seguito un amico in quella “casa di disperati” trasformata
in polveriera. Allora, di colpo, la città ha scoperto quel gorgo di umanità
sconfitta con il quale aveva convissuto indifferente sino a quel momento e ne è
scoppiato il solito, effimero “scandalo”. La vicenda ha riempito per qualche
giorno le cronache, si sono rincorse le immancabili dichiarazioni di fuoco
contro il “pericolo dei migranti”, la villa è stata evacuata, gli occupanti
identificati uno per uno. Scoprendo che tra di loro c’erano molti profughi che,
indirizzati a Roma dai centri di accoglienza del Sud Italia con in tasca solo
un biglietto ferroviario e qualche euro, non avevano trovato altra strada che
cercare riparo in quegli uffici abbandonati e arrangiarsi con lavori in nero
per sopravvivere. Rifugiati regolari eppure soltanto “fantasmi” per le
istituzioni italiane. Poi il clamore si è placato e il problema è rimasto
irrisolto. Si è solo spostato. I profughi si sono trasferiti in altri ricoveri
di fortuna: alcuni nelle baraccopoli di periferia, soprattutto quella sorta a
Ponte Mammolo, sugli argini dell’Aniene; altri, ancora di più, in un palazzone
in disuso alla Romanina, già occupato da centinaia di disperati come loro. Di
nuovo invisibili in mezzo ad altri invisibili. Specie per chi non vuole vedere
e si ostina a chiudere gli occhi.
Gli occhi delle
istituzioni e dei media sono rimasti ostinatamente chiusi anche quando Nils
Muiznieks, commissario per i diritti umani del Consiglio d’Europa, all’inizio
dell’estate 2012 ha scritto un rapporto di fuoco, dopo aver constatato di
persona come sono costretti a vivere quegli uomini e quelle donne a Roma, in
realtà come l’edificio cadente della Romanina o il campo di baracche e di tende
di Ponte Mammolo ed altre ancora: sulla via Collatina, ad esempio, e in altre
zone della più estrema periferia. Ogni tanto, tuttavia, qualcosa gli occhi
costringe ad aprirli. Anche a chi non vorrebbe guardare. Qualche mese fa ci ha
pensato l’Herald Tribune, con un’inchiesta giornalistica che, partendo dal caso
della Romanina, ha portato in prima pagina lo sbando a cui sono condannati,
nella capitale d’Italia, centinaia di rifugiati ed altri migranti. Un servizio
che ha fatto il giro d’Europa, inducendo la Commissione per i diritti umani e
l’Assemblea di Bruxelles a chiedere ancora una volta conto all’Italia della sua
politica di accoglienza. Il governo ha risposto con l’impegno, da parte
dell’allora ministro degli interni Anna Maria Cancellieri, a varare subito
interventi di emergenza, oltre che un piano futuro più vasto di “inclusione
sociale”. In realtà, non è stato fatto nulla o quasi: quei profughi sono sempre
lì, a popolare da invisibili quei palazzoni semi diroccati e quelle
baraccopoli. Ancora non persone abbandonate da tutti.
Ecco il punto. E’
vero che si tratta di episodi accaduti e denunciati prima che Ignazio Marino
diventasse sindaco di Roma. Ma, ammesso che non gliene sia arrivata almeno
un’eco quando era al Parlamento, prima di dimettersi proprio per proporsi come
guida della Capitale, nell’amministrazione pubblica c’è comunque una continuità
e c’è da credere, bisogna credere, che qualcuno in Campidoglio lo abbia
informato di quelle situazioni dimenticate. Adesso che è lui il sindaco di Roma
quel problema è diventato un suo problema. Urgente come quello dei 155
superstiti di Lampedusa. Anzi, è esattamente lo stesso problema: il dramma di
centinaia di uomini e donne che hanno diritto alla protezione internazionale,
con alle spalle storie del tutto simili a quelle dei fratelli appena arrivati.
Gente che non di rado solo il caso ha portato viva sulle sponde italiane e non
sepolto in fondo al Mediterraneo. L’unica differenza è che il capitolo
Lampedusa occupa ancora, come è giusto, le pagine di tutti i giornali e sta
scuotendo le coscienze nell’Europa intera, mentre i campi spontanei di Roma sono
stati fatti sparire a poco a poco sotto una spessa coltre di “silenziamento”.
Allora, se davvero
si vuole voltare pagina nella politica dell’accoglienza e si è convinti che
dall’ecatombe di Lampedusa in poi il rapporto con i migranti in Italia e in
Europa non potrà più essere quello che è stato finora, non ci si può limitare a
seguire l’emozione del momento. Proprio per le parole che ha detto alla veglia in
ricordo delle ultime vittime di questa tragedia italiana ed europea, a Marino
non è concesso perdere l’opportunità di estendere il suo progetto di amicizia,
prima ancora che di assistenza, a tutti i profughi e i rifugiati ospiti della
sua città. E’ difficile? Certo che lo è: anzi, è molto difficile. Lo dicono le
resistenze che già si manifestano a vari livelli, a cominciare dal Parlamento e
da quasi tutta la destra politica. Ma Marino può farcela perché avrà al suo
fianco l’Italia migliore e perché è una battaglia giusta. Da combattere
spendendo tutta l’autorità e il prestigio che ha come sindaco della Capitale
per coinvolgere altri comuni, la Provincia, la Regione, il ministero degli
interni, lo stesso governo. La nuova politica dell’accoglienza, invocata da
tantissimi nel Paese, può cominciare proprio da qui: da Roma e dal Lazio.
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