giovedì 3 ottobre 2013

Le tragedie di Lampedusa e Ragusa: non basta piangere

di Emilio Drudi

“Venga a contare i morti con me”: lo ha chiesto Giusi Nicolini, il coraggioso sindaco donna di Lampedusa, ad Enrico Letta. Già, non basta considerare che quella che si è consumata in una lucida alba autunnale ad appena 800 metri dall'isola, è “una tragedia immane” come ha dichiarato il premier. Occorre ammettere, piuttosto, che è innanzi tutto una tragedia annunciata. Certo, è la strage più grande mai registrata in Italia nella dolorosa storia dell’emigrazione dall'Africa. Ma è solo l’ultima di una lunga catena di tragedie simili, che hanno fatto del Mediterraneo un cimitero di disperati senza nome. E forse, per rendersene conto e decidere così di porre fine al massacro, il modo migliore di cominciare è proprio quello di andare a contare e a seppellire gli ultimi morti a Lampedusa: la porta dell’Europa per chi scappa dall'Africa, scacciato da guerre e persecuzioni, il piccolo lembo di terra che papa Francesco ha scelto non a caso come meta del primo viaggio ufficiale del suo pontificato, per lanciare ai potenti della terra un appello a cambiare la loro politica nei confronti del Sud del Mondo. Perché è questa politica a creare le condizioni che costringono migliaia e migliaia di giovani ad abbandonare il proprio paese, i propri cari, tutta una vita.
Quello di Giusi Nicolini non è un atto d’accusa isolato. Meno di una settimana fa il Consiglio d’Europa di Strasburgo ha criticato di nuovo duramente la politica migratoria italiana, giudicando “sbagliate e controproducenti” le misure adottate in questi ultimi anni. Appare evidente il riferimento ai respingimenti indiscriminati in mare e ai trattati bilaterali con la Libia. Misure – dice Strasburgo – non in grado di “gestire un flusso che è e resterà continuo”. Parole pesanti. Tanto più pesanti se si pensa che il nostro Paese ha già formalmente subito due condanne per come ha affrontato il problema: la prima nel febbraio 2011 da parte della Corte europea per i diritti umani in relazione ai respingimenti nel Canale di Sicilia; la seconda, pochi mesi dopo, proprio su iniziativa del Consiglio di Strasburgo, per il dramma dei 63 profughi abbandonati a morire di sete e di stenti a bordo di un gommone alla deriva per un’avaria al motore. Un episodio incredibile, quest’ultimo, per il quale ancora nessuno ha pagato: la Procura militare ha aperto un’inchiesta, ma non risulta che qualcuno sia stato condannato e comunque i responsabili politici non sono stati neanche sfiorati dal processo.
Alla luce di tutto questo, se non si adottano subito provvedimenti concreti per arrivare a una netta, rapida inversione di tendenza nella politica migratoria e per l’accoglienza, il dolore e il lutto dichiarati appaiono per molti versi un’ipocrisia. Non ha senso ed è anzi colpevole continuare sulla falsariga di oggi e del passato. Proprio all'inizio dell’estate, quattro giorni prima dell’appello lanciato da papa Francesco a Lampedusa, il governo Letta ha confermato alla Libia il ruolo di “gendarme del Mediterraneo” per il controllo dell’emigrazione. Lo stesso ruolo conferito a Tripoli dagli accordi firmati da Berlusconi nel 2009 e ribadito da quelli siglati da Monti nel 2011, all'indomani delle due condanne europee.
Il presidente Napolitano ha parlato di “strage degli innocenti”. E’ così: è proprio l’ennesima strage degli innocenti ingoiati dal nostro mare. Ma questa denuncia perde ogni significato se l’Europa e in primo luogo l’Italia non decidono di abbattere il muro sempre più alto che hanno costruito alle loro frontiere per tenere lontani quegli innocenti. Considerandoli di fatto “invasori” e non vittime in cerca di scampo. Don Mussie Zerai, il portavoce dell’agenzia Habeshia, non fa sconti a questo proposito. Da anni denuncia la tragedia dei profughi, le violenze che si consumano quotidianamente in Libia, il traffico di uomini e donne, l’orrore del mercato di organi per i trapianti clandestini. E segnala che senza una nuova, più umana politica dell’accoglienza in Italia e nell'Unione Europea, non se ne esce. Ora torna alla carica, rilanciando la battaglia che lo ha portato anche alla Casa Bianca su invito dell’allora segretario di stato Hillary Clinton e più volte all’Assemblea di Bruxelles, in audizione speciale di fronte alle Commissioni interni e per i diritti umani, alle quali ha consegnato un dossier esplosivo sulle condizioni dei centri di detenzione libici e, più in generale, sul trattamento riservato ai migranti da Tripoli.
“Due tragedie in una settimana, centinaia di morti, ci lasciano senza parole – dice affranto, controllando a stento l’emozione – Ma vogliamo urlare che queste tragedie si sarebbero evitate se fossero stati ascoltati gli appelli che da anni lanciano Habeshia, Amnesty, tante altre organizzazioni umanitarie. O, almeno, la voce del Santo Padre. Vanno cambiate, rese più umane, le leggi che regolano i rapporti tra il Nord e il Sud del mondo. Serve un impegno comune per rendere l’Africa vivibile. In Africa, la mia terra, si sta verificando un esodo di proporzioni bibliche. I morti di Lampedusa e Ragusa sono un capitolo di questo esodo: sono giovani fuggiti dalla guerra in Somalia, da un regime dispotico in Eritrea, dalla fame in Etiopia. L’Italia ha precise responsabilità. I trattati bilaterali che ha firmato a più riprese con Tripoli, l’ultimo appena tre mesi fa, hanno avuto come unico risultato quello di favorire i trafficanti di uomini e i militari o i miliziani corrotti che si stanno arricchendo sulla pelle dei profughi. I centri di detenzione libici sono affollati di disperati: basta pagare per essere liberati e riempire altri barconi, ‘carrette’ che tentano la traversata del Mediterraneo senza alcun criterio di sicurezza, col rischio di perpetuare all’infinito drammi come quello che stiamo piangendo in queste ore”.
L’unica soluzione immediata, a giudizio di don Zerai, è cambiare radicalmente la politica dell’accoglienza. “La stragrande maggioranza dei giovani in fuga dall'Africa – spiega – hanno i requisiti per ottenere lo status di rifugiato. Serve allora un progetto comune europeo per i richiedenti asilo: una specie di corridoio umanitario protetto per chi ha bisogno della protezione internazionale. Solo se si creano strumenti di ingresso legale in Italia e in Europa si potrà combattere davvero e stroncare il traffico di esseri umani, sottraendo migliaia di disperati dalle mani di organizzazioni criminali sempre più potenti e diffuse. L’Unione Europea finora ha fatto esattamente il contrario, chiudendo le porte in faccia a chi chiedeva il suo aiuto, preoccupata solo di proteggere la sua ‘fortezza’. Ma di fronte alla disperazione non c’è fortezza che possa reggere. Bisogna invece lavorare per prevenire ed eliminare le cause di tanta disperazione: le dittature, le guerre, la fame che costringono intere generazioni a fuggire. E per pretendere dai paesi di transito come la Libia il rispetto dei diritti umani: molti africani sub sahariani rimarrebbero a lavorare in Tripolitania o in Cirenaica se non fossero discriminati per il colore della pelle o per la fede cristiana oppure costretti a una condizione di schiavitù sul lavoro”. 
La conclusione è amarissima: “Queste tragedie sono ogni anno più frequenti. Eppure, passata l’emozione del momento, vengono presto dimenticate. I responsabili dei governi europei esprimono il loro cordoglio, prendono impegni e poi tutto resta come prima, abbandonando i familiari delle vittime al loro dolore e lasciando senza risposta una domanda che ne lacera il cuore: ‘Dov'è finita la solidarietà che gli Stati si sono impegnati ad assicurare ai profughi e ai rifugiati in base alle convenzioni internazionali che loro stessi hanno promosso e firmato?’. Ecco, dov'è finita? Chiediamo che l’Europa agisca in fretta. Si è già perso troppo tempo prezioso. Ed ogni giorno perso è contrassegnato dalla perdita di vite umane, sofferenze, soprusi”.
In fretta. Bisogna fare in fretta, insiste don Zerai. E invece, proprio in questi giorni, mentre maturavano le condizioni che hanno portato alle stragi di Lampedusa e Ragusa, una delegazione militare italiana è stata in Libia per dare ancora più consistenza al trattato bilaterale, con la consegna, a quanto pare, dei mezzi navali e terrestri richiesti da Tripoli e per impostare i programmi di addestramento della polizia. Ancora una volta senza tener conto la Libia non ha mai firmato la convenzione di Ginevra del 1951 sulla tutela e i diritti dei rifugiati. Che la Libia tratta i profughi e i migranti come criminali, gettandoli in prigioni che solo la nostra ipocrisia può definire campi di accoglienza. Che la Libia non fa nulla per arginare la violenza xenofoba e razzista esplosa nel paese contro gli “africani neri” dopo la caduta di Gheddafi. Che la Libia non ha alcun rispetto dei diritti umani.

“Pagando un riscatto variabile tra i mille e i duemila dollari – hanno raccontato a don Zerai diversi profughi – si può essere liberati dai centri di detenzione. I miliziani stessi talvolta indicano come arrivare agli scafisti sulla costa. O, in ogni caso, è evidente che chi può uscire dai quei campi poi cercherà un passaggio in mare verso l’Italia, pagando dai 3 ai 5 mila dollari. I più fortunati riescono a passare. Per molti altri il Canale di Sicilia diventa la loro tomba. Altri ancora, intercettati prima di imbarcarsi o in mare oppure respinti dalle navi italiane, vengono ricondotti in carcere e il ciclo ricomincia…”. Di fronte a racconti di questo genere ha senso limitarsi a spargere lacrime per l’ennesima tragedia consumata alle soglie o in vista delle nostre coste?

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