di Emilio Drudi
“Venga a contare i
morti con me”: lo ha chiesto Giusi Nicolini, il coraggioso sindaco donna di
Lampedusa, ad Enrico Letta. Già, non basta considerare che quella che si è
consumata in una lucida alba autunnale ad appena 800 metri dall'isola, è “una
tragedia immane” come ha dichiarato il premier. Occorre ammettere, piuttosto,
che è innanzi tutto una tragedia annunciata. Certo, è la strage più grande mai
registrata in Italia nella dolorosa storia dell’emigrazione dall'Africa. Ma è
solo l’ultima di una lunga catena di tragedie simili, che hanno fatto del
Mediterraneo un cimitero di disperati senza nome. E forse, per rendersene conto
e decidere così di porre fine al massacro, il modo migliore di cominciare è
proprio quello di andare a contare e a seppellire gli ultimi morti a Lampedusa:
la porta dell’Europa per chi scappa dall'Africa, scacciato da guerre e
persecuzioni, il piccolo lembo di terra che papa Francesco ha scelto non a caso
come meta del primo viaggio ufficiale del suo pontificato, per lanciare ai
potenti della terra un appello a cambiare la loro politica nei confronti del
Sud del Mondo. Perché è questa politica a creare le condizioni che costringono
migliaia e migliaia di giovani ad abbandonare il proprio paese, i propri cari,
tutta una vita.
Quello di Giusi
Nicolini non è un atto d’accusa isolato. Meno di una settimana fa il Consiglio
d’Europa di Strasburgo ha criticato di nuovo duramente la politica migratoria
italiana, giudicando “sbagliate e controproducenti” le misure adottate in
questi ultimi anni. Appare evidente il riferimento ai respingimenti
indiscriminati in mare e ai trattati bilaterali con la Libia. Misure – dice
Strasburgo – non in grado di “gestire un flusso che è e resterà continuo”.
Parole pesanti. Tanto più pesanti se si pensa che il nostro Paese ha già
formalmente subito due condanne per come ha affrontato il problema: la prima
nel febbraio 2011 da parte della Corte europea per i diritti umani in relazione
ai respingimenti nel Canale di Sicilia; la seconda, pochi mesi dopo, proprio su
iniziativa del Consiglio di Strasburgo, per il dramma dei 63 profughi
abbandonati a morire di sete e di stenti a bordo di un gommone alla deriva per
un’avaria al motore. Un episodio incredibile, quest’ultimo, per il quale ancora
nessuno ha pagato: la Procura militare ha aperto un’inchiesta, ma non risulta
che qualcuno sia stato condannato e comunque i responsabili politici non sono
stati neanche sfiorati dal processo.
Alla luce di tutto
questo, se non si adottano subito provvedimenti concreti per arrivare a una
netta, rapida inversione di tendenza nella politica migratoria e per
l’accoglienza, il dolore e il lutto dichiarati appaiono per molti versi
un’ipocrisia. Non ha senso ed è anzi colpevole continuare sulla falsariga di
oggi e del passato. Proprio all'inizio dell’estate, quattro giorni prima
dell’appello lanciato da papa Francesco a Lampedusa, il governo Letta ha
confermato alla Libia il ruolo di “gendarme del Mediterraneo” per il controllo
dell’emigrazione. Lo stesso ruolo conferito a Tripoli dagli accordi firmati da
Berlusconi nel 2009 e ribadito da quelli siglati da Monti nel 2011,
all'indomani delle due condanne europee.
Il presidente
Napolitano ha parlato di “strage degli innocenti”. E’ così: è proprio
l’ennesima strage degli innocenti ingoiati dal nostro mare. Ma questa denuncia
perde ogni significato se l’Europa e in primo luogo l’Italia non decidono di abbattere
il muro sempre più alto che hanno costruito alle loro frontiere per tenere
lontani quegli innocenti. Considerandoli di fatto “invasori” e non vittime in
cerca di scampo. Don Mussie Zerai, il portavoce dell’agenzia Habeshia, non fa
sconti a questo proposito. Da anni denuncia la tragedia dei profughi, le
violenze che si consumano quotidianamente in Libia, il traffico di uomini e
donne, l’orrore del mercato di organi per i trapianti clandestini. E segnala
che senza una nuova, più umana politica dell’accoglienza in Italia e
nell'Unione Europea, non se ne esce. Ora torna alla carica, rilanciando la
battaglia che lo ha portato anche alla Casa Bianca su invito dell’allora
segretario di stato Hillary Clinton e più volte all’Assemblea di Bruxelles, in
audizione speciale di fronte alle Commissioni interni e per i diritti umani,
alle quali ha consegnato un dossier esplosivo sulle condizioni dei centri di
detenzione libici e, più in generale, sul trattamento riservato ai migranti da
Tripoli.
“Due tragedie in una
settimana, centinaia di morti, ci lasciano senza parole – dice affranto,
controllando a stento l’emozione – Ma vogliamo urlare che queste tragedie si
sarebbero evitate se fossero stati ascoltati gli appelli che da anni lanciano
Habeshia, Amnesty, tante altre organizzazioni umanitarie. O, almeno, la voce
del Santo Padre. Vanno cambiate, rese più umane, le leggi che regolano i
rapporti tra il Nord e il Sud del mondo. Serve un impegno comune per rendere
l’Africa vivibile. In Africa, la mia terra, si sta verificando un esodo di
proporzioni bibliche. I morti di Lampedusa e Ragusa sono un capitolo di questo
esodo: sono giovani fuggiti dalla guerra in Somalia, da un regime dispotico in
Eritrea, dalla fame in Etiopia. L’Italia ha precise responsabilità. I trattati
bilaterali che ha firmato a più riprese con Tripoli, l’ultimo appena tre mesi
fa, hanno avuto come unico risultato quello di favorire i trafficanti di uomini
e i militari o i miliziani corrotti che si stanno arricchendo sulla pelle dei profughi.
I centri di detenzione libici sono affollati di disperati: basta pagare per
essere liberati e riempire altri barconi, ‘carrette’ che tentano la traversata
del Mediterraneo senza alcun criterio di sicurezza, col rischio di perpetuare
all’infinito drammi come quello che stiamo piangendo in queste ore”.
L’unica soluzione
immediata, a giudizio di don Zerai, è cambiare radicalmente la politica
dell’accoglienza. “La stragrande maggioranza dei giovani in fuga dall'Africa –
spiega – hanno i requisiti per ottenere lo status di rifugiato. Serve allora un
progetto comune europeo per i richiedenti asilo: una specie di corridoio
umanitario protetto per chi ha bisogno della protezione internazionale. Solo se
si creano strumenti di ingresso legale in Italia e in Europa si potrà combattere
davvero e stroncare il traffico di esseri umani, sottraendo migliaia di
disperati dalle mani di organizzazioni criminali sempre più potenti e diffuse.
L’Unione Europea finora ha fatto esattamente il contrario, chiudendo le porte
in faccia a chi chiedeva il suo aiuto, preoccupata solo di proteggere la sua
‘fortezza’. Ma di fronte alla disperazione non c’è fortezza che possa reggere.
Bisogna invece lavorare per prevenire ed eliminare le cause di tanta
disperazione: le dittature, le guerre, la fame che costringono intere
generazioni a fuggire. E per pretendere dai paesi di transito come la Libia il
rispetto dei diritti umani: molti africani sub sahariani rimarrebbero a
lavorare in Tripolitania o in Cirenaica se non fossero discriminati per il
colore della pelle o per la fede cristiana oppure costretti a una condizione di
schiavitù sul lavoro”.
La conclusione è
amarissima: “Queste tragedie sono ogni anno più frequenti. Eppure, passata
l’emozione del momento, vengono presto dimenticate. I responsabili dei governi
europei esprimono il loro cordoglio, prendono impegni e poi tutto resta come
prima, abbandonando i familiari delle vittime al loro dolore e lasciando senza
risposta una domanda che ne lacera il cuore: ‘Dov'è finita la solidarietà che
gli Stati si sono impegnati ad assicurare ai profughi e ai rifugiati in base
alle convenzioni internazionali che loro stessi hanno promosso e firmato?’.
Ecco, dov'è finita? Chiediamo che l’Europa agisca in fretta. Si è già perso
troppo tempo prezioso. Ed ogni giorno perso è contrassegnato dalla perdita di
vite umane, sofferenze, soprusi”.
In fretta. Bisogna
fare in fretta, insiste don Zerai. E invece, proprio in questi giorni, mentre
maturavano le condizioni che hanno portato alle stragi di Lampedusa e Ragusa,
una delegazione militare italiana è stata in Libia per dare ancora più
consistenza al trattato bilaterale, con la consegna, a quanto pare, dei mezzi
navali e terrestri richiesti da Tripoli e per impostare i programmi di
addestramento della polizia. Ancora una volta senza tener conto la Libia non ha
mai firmato la convenzione di Ginevra del 1951 sulla tutela e i diritti dei
rifugiati. Che la Libia tratta i profughi e i migranti come criminali,
gettandoli in prigioni che solo la nostra ipocrisia può definire campi di accoglienza.
Che la Libia non fa nulla per arginare la violenza xenofoba e razzista esplosa
nel paese contro gli “africani neri” dopo la caduta di Gheddafi. Che la Libia
non ha alcun rispetto dei diritti umani.
“Pagando un riscatto
variabile tra i mille e i duemila dollari – hanno raccontato a don Zerai
diversi profughi – si può essere liberati dai centri di detenzione. I miliziani
stessi talvolta indicano come arrivare agli scafisti sulla costa. O, in ogni
caso, è evidente che chi può uscire dai quei campi poi cercherà un passaggio in
mare verso l’Italia, pagando dai 3 ai 5 mila dollari. I più fortunati riescono
a passare. Per molti altri il Canale di Sicilia diventa la loro tomba. Altri
ancora, intercettati prima di imbarcarsi o in mare oppure respinti dalle navi
italiane, vengono ricondotti in carcere e il ciclo ricomincia…”. Di fronte a
racconti di questo genere ha senso limitarsi a spargere lacrime per l’ennesima
tragedia consumata alle soglie o in vista delle nostre coste?
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