Duecento profughi rischiano
la deportazione
Duecento profughi
eritrei rischiano di concludere il loro sogno di libertà nei lager del regime
che li ha costretti a fuggire: carcere, torture e la fine di ogni speranza. Tra
loro anche quindici minorenni, ragazzini di 16 o 17 anni ma anche meno.
Accade in Sudan. E’
una vicenda assurda, nata dal combinarsi di logiche perverse che non tengono in
alcun conto i diritti fondamentali dell’uomo, a cominciare da quello alla vita
stessa. Asmara li considera criminali solo perché sono “evasi” dal carcere in
cui la dittatura di Isaias Afewerki ha ridotto l’intera Eritrea; Karthoum li ha
arrestati, condannati e tenuti in prigione perché sono entrati clandestinamente
nel paese ed ora ha manifestato l’intenzione di rispedirli in patria. Senza
considerare minimamente che hanno varcato il confine sudanese per chiedere
asilo: “clandestini”, certo, ma come è per forza clandestino chiunque sia
costretto ad abbandonare la propria terra da guerre e persecuzioni, affidandosi
all’amara sorte dell’esule e del fuoriuscito.
Duecento profughi,
duecento storie che sono in realtà una storia unica. Sempre uguale. Questi
ragazzi, uomini e donne, sono scappati separatamente da varie città e varie
regioni dell’Eritrea, raggiungendo e traversando tra mille rischi la frontiera,
dopo aver eluso la vigilanza e le fucilate della polizia e dell’esercito.
Arrivati in Sudan, intendevano chiedere asilo. Lo hanno subito dichiarato alla
polizia sudanese che li ha fermati o alla quale si sono addirittura rivolti.
Asilo come rifugiati o comunque in base a una forma di protezione
internazionale, per poter restare almeno qualche mese e poi magari proseguire
l’odissea verso un altro Stato disposto ad accoglierli e ad aiutarli.
La risposta di
Karthoum è stata il carcere. Sono stati tutti arrestati in varie circostanze e
in diverse località: in buona parte nella stessa capitale ma anche in altre
città. Si sono poi ritrovati tutti insieme imputati per ingresso illegale nel
paese e gettati in una prigione situata a circa 35 chilometri da Karthoum, in
pieno deserto. Il processo è stato rapido e sommario, la sentenza uguale per
tutti: 500 pound di ammenda e un mese di galera da scontare nella stesso lager
nel quale erano stati rinchiusi al momento dell’arresto, insieme a criminali
comuni e in condizioni degradanti, umilianti per la dignità umana. Non ci sono
state eccezioni: hanno subito questa sorte terribile anche i ragazzini
minorenni. E molti, in quell’inferno fatto di maltrattamenti, condizioni
igieniche indicibili, di fame e sete, costretti a bere acqua salmastra, si sono
ammalati: dissenteria, malaria, deperimento.
Nonostante tutto,
hanno scontato la pena: sono riusciti a racimolare i 500 pound per l’ammenda ed
hanno superato in qualche modo il mese di inferno nel lager. Ma non sono stati
liberati. Quell’inferno si è inaspettatamente prolungato perché la magistratura
e la polizia sudanesi hanno deciso di tenerli ancora in carcere in attesa di
riconsegnarli al regime di Asmara. Una detenzione del tutto illegale e
arbitraria, decisa di fatto solo per poterli controllare e non rischiare di
perderne le tracce. Il Governo, nel frattempo, ha preso contatto con
l’ambasciata eritrea di Karthoum ed ora, a tre mesi di distanza da quando quei
duecento disperati avrebbero dovuto essere rimessi in libertà, è stata
raggiunta l’intesa per il rimpatrio. Senza tener conto che riconsegnarli alla
dittatura dalla quale hanno cercato di fuggire significa di fatto condannarli a
una galera ancora più dura, a rappresaglie, torture, forse la morte.
Non c’è un minuto da
perdere. La “riconsegna” è ormai questione di giorni. Forse di ore. Chiediamo
con forza, allora, a tutta la comunità internazionale di intervenire per
bloccare questa che si configura come un’autentica deportazione, contro ogni
diritto e ogni logica. La deportazione di giovani “colpevoli” solo di aver
lasciato il proprio paese in cerca di libertà e che ora rischiano la vendetta
della dittatura dalla quale volevano sottrarsi. Bisogna intervenire al più
presto, chiedendo spiegazioni e un ripensamento immediato al governo sudanese.
Ricordando, ammonendo anzi che il Sudan ha firmato la convenzione di Ginevra
del 1951 sui diritti dei rifugiati e dei migranti e che è tenuto dunque a
rispettare le richieste di asilo, consegnando tutte queste persone ed altre che
si trovassero nelle stesse condizioni all’Unhcr, l’Alto Commissariato Onu per i
rifugiati, perché possa esaminarne le domande di aiuto, assistenza e protezione
internazionale.
don Mussie Zerai
presidente dell’Agenzia Habeshia
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