domenica 10 agosto 2014

Dal carcere in Sudan ai lager in Eritrea


Duecento profughi rischiano la deportazione

Duecento profughi eritrei rischiano di concludere il loro sogno di libertà nei lager del regime che li ha costretti a fuggire: carcere, torture e la fine di ogni speranza. Tra loro anche quindici minorenni, ragazzini di 16 o 17 anni ma anche meno.
Accade in Sudan. E’ una vicenda assurda, nata dal combinarsi di logiche perverse che non tengono in alcun conto i diritti fondamentali dell’uomo, a cominciare da quello alla vita stessa. Asmara li considera criminali solo perché sono “evasi” dal carcere in cui la dittatura di Isaias Afewerki ha ridotto l’intera Eritrea; Karthoum li ha arrestati, condannati e tenuti in prigione perché sono entrati clandestinamente nel paese ed ora ha manifestato l’intenzione di rispedirli in patria. Senza considerare minimamente che hanno varcato il confine sudanese per chiedere asilo: “clandestini”, certo, ma come è per forza clandestino chiunque sia costretto ad abbandonare la propria terra da guerre e persecuzioni, affidandosi all’amara sorte dell’esule e del fuoriuscito.
Duecento profughi, duecento storie che sono in realtà una storia unica. Sempre uguale. Questi ragazzi, uomini e donne, sono scappati separatamente da varie città e varie regioni dell’Eritrea, raggiungendo e traversando tra mille rischi la frontiera, dopo aver eluso la vigilanza e le fucilate della polizia e dell’esercito. Arrivati in Sudan, intendevano chiedere asilo. Lo hanno subito dichiarato alla polizia sudanese che li ha fermati o alla quale si sono addirittura rivolti. Asilo come rifugiati o comunque in base a una forma di protezione internazionale, per poter restare almeno qualche mese e poi magari proseguire l’odissea verso un altro Stato disposto ad accoglierli e ad aiutarli.
La risposta di Karthoum è stata il carcere. Sono stati tutti arrestati in varie circostanze e in diverse località: in buona parte nella stessa capitale ma anche in altre città. Si sono poi ritrovati tutti insieme imputati per ingresso illegale nel paese e gettati in una prigione situata a circa 35 chilometri da Karthoum, in pieno deserto. Il processo è stato rapido e sommario, la sentenza uguale per tutti: 500 pound di ammenda e un mese di galera da scontare nella stesso lager nel quale erano stati rinchiusi al momento dell’arresto, insieme a criminali comuni e in condizioni degradanti, umilianti per la dignità umana. Non ci sono state eccezioni: hanno subito questa sorte terribile anche i ragazzini minorenni. E molti, in quell’inferno fatto di maltrattamenti, condizioni igieniche indicibili, di fame e sete, costretti a bere acqua salmastra, si sono ammalati: dissenteria, malaria, deperimento.
Nonostante tutto, hanno scontato la pena: sono riusciti a racimolare i 500 pound per l’ammenda ed hanno superato in qualche modo il mese di inferno nel lager. Ma non sono stati liberati. Quell’inferno si è inaspettatamente prolungato perché la magistratura e la polizia sudanesi hanno deciso di tenerli ancora in carcere in attesa di riconsegnarli al regime di Asmara. Una detenzione del tutto illegale e arbitraria, decisa di fatto solo per poterli controllare e non rischiare di perderne le tracce. Il Governo, nel frattempo, ha preso contatto con l’ambasciata eritrea di Karthoum ed ora, a tre mesi di distanza da quando quei duecento disperati avrebbero dovuto essere rimessi in libertà, è stata raggiunta l’intesa per il rimpatrio. Senza tener conto che riconsegnarli alla dittatura dalla quale hanno cercato di fuggire significa di fatto condannarli a una galera ancora più dura, a rappresaglie, torture, forse la morte.
Non c’è un minuto da perdere. La “riconsegna” è ormai questione di giorni. Forse di ore. Chiediamo con forza, allora, a tutta la comunità internazionale di intervenire per bloccare questa che si configura come un’autentica deportazione, contro ogni diritto e ogni logica. La deportazione di giovani “colpevoli” solo di aver lasciato il proprio paese in cerca di libertà e che ora rischiano la vendetta della dittatura dalla quale volevano sottrarsi. Bisogna intervenire al più presto, chiedendo spiegazioni e un ripensamento immediato al governo sudanese. Ricordando, ammonendo anzi che il Sudan ha firmato la convenzione di Ginevra del 1951 sui diritti dei rifugiati e dei migranti e che è tenuto dunque a rispettare le richieste di asilo, consegnando tutte queste persone ed altre che si trovassero nelle stesse condizioni all’Unhcr, l’Alto Commissariato Onu per i rifugiati, perché possa esaminarne le domande di aiuto, assistenza e protezione internazionale.

                                               don Mussie Zerai
                                                                                  

                                        presidente dell’Agenzia Habeshia 

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