di Emilio Drudi
Duecento profughi
eritrei rischiano di concludere il loro sogno di libertà nei lager del regime
che li ha costretti a fuggire: carcere, torture e la fine di ogni speranza. Tra
loro anche una quindicina di minorenni, ragazzini di 16 o 17 anni o addirittura
di meno.
Accade tra Sudan ed
Eritrea. Non se ne sarebbe saputo nulla se non fosse arrivata una disperata
richiesta di aiuto ad Habeshia, l’agenzia che da anni denuncia la tragedia dei
migranti del Corno d’Africa e dell’Africa sub sahariana. Proprio dell’Eritrea,
in particolare. Silenzio. Eppure è difficile considerare questa storia solo una
“fastidiosa notizia di routine”, come accade troppo spesso per la sorte di
tanti popoli e tanti profughi africani. Se non altro perché riguarda il Sudan e
l’Eritrea. Due degli Stati che – come hanno insistito vari esponenti del nostro
Governo dopo i colloqui dei giorni scorsi del viceministro Lapo Pistelli a
Khartoum e ad Asmara – dovrebbero segnare una svolta nella politica dell’Italia
in Africa.
E’ una vicenda assurda,
nata dal combinarsi di logiche perverse che non tengono in alcun conto i
diritti fondamentali dell’uomo, a cominciare da quello alla vita stessa. Asmara
considera criminali quei duecento ragazzi solo perché sono “evasi” dalla galera
in cui la dittatura di Isaias Afewerki ha ridotto l’intero paese; Khartoum li
ha arrestati, condannati e tenuti in prigione perché sono entrati
clandestinamente nel suo territorio ed ora ha intenzione di rispedirli in
patria. Senza considerare minimamente che hanno varcato il confine sudanese per
chiedere asilo: “clandestini”, certo, ma come è per forza clandestino chiunque sia
costretto ad abbandonare la propria terra per sottrarsi a guerre e persecuzioni,
affidandosi all'amara sorte dell’esule e del fuoriuscito.
Duecento profughi,
duecento storie che sono in realtà una storia unica. Sempre uguale. Questi giovani,
uomini e donne, sono scappati separatamente da varie città e da varie regioni
dell’Eritrea, raggiungendo e traversando tra mille rischi la frontiera, dopo
aver eluso la vigilanza e le fucilate della polizia e dell’esercito. Arrivati
in Sudan, intendevano chiedere asilo. Lo hanno subito dichiarato alla polizia
sudanese che li ha fermati o alla quale tanti si sono loro stessi rivolti.
Asilo come rifugiati o comunque in base a una delle varie forme di protezione previste
dal diritto internazionale, in modo da poter restare almeno per qualche mese e
poi magari proseguire la marcia verso un altro Stato disposto ad accoglierli e
ad aiutarli. Qualcuno inseguiva il sogno di raggiungere l’Europa, la “terra dei
diritti”, dove ha amici o familiari. Tanti pensavano di fermarsi comunque in
Africa, non troppo lontani da “casa”, nella speranza che le cose possano cambiare
presto ad Asmara e dunque fare ritorno. “Il regime è isolato da tutti gli Stati
democratici – pensavano – La terribile situazione che sta attraversando il
paese è stata denunciata al mondo intero anche dalla Chiesa. La dittatura di
Afewerki non può durare ancora a lungo…”.
La risposta di Khartoum
è stata il carcere. Sono stati tutti arrestati in varie circostanze e in
diverse località: in buona parte nella stessa capitale ma anche in altre città.
Si sono poi ritrovati tutti insieme imputati per ingresso illegale in Sudan e
gettati in una prigione situata a circa 35 chilometri da Khartoum, in pieno
deserto. Il processo è stato rapido e sommario, la sentenza uguale per tutti:
500 sterline sudanesi di ammenda e un mese di galera da scontare nella stesso lager nel
quale erano stati rinchiusi al momento dell’arresto, insieme a criminali comuni
e in condizioni degradanti, umilianti per la dignità umana. Non ci sono state
eccezioni: hanno subito questa sorte terribile anche i ragazzini minorenni. “Molti
– denuncia don Mussie Zerai, presidente dell’agenzia Habeshia – in quell'inferno
fatto di maltrattamenti e soprusi continui, di condizioni igieniche indicibili,
di cibo scarso e spesso immangiabile, si sono ammalati. Dissenteria, malaria,
deperimento. Mali che si manifestano spesso in forma acuta. Ma vedere un medico
è difficilissimo. Talvolta bruciano di febbre, ma non c’è nemmeno di che placare
la sete: soltanto qualche ciotola di acqua fangosa e salmastra”.
Nonostante tutto,
hanno scontato la pena: sono riusciti a racimolare i 500 sterline sudanesi per l’ammenda ed
hanno superato in qualche modo i trenta giorni di inferno nel lager. Ma non
sono stati liberati. Quell'inferno si è inaspettatamente prolungato perché la
magistratura e la polizia sudanesi hanno deciso di tenerli ancora in carcere in
attesa di riconsegnarli al regime di Asmara. Una detenzione del tutto illegale
e arbitraria, decisa di fatto solo per poterli controllare e non rischiare di
perderne le tracce. Il Governo, nel frattempo, ha preso contatto con
l’ambasciata eritrea di Khartoum ed ora, a tre mesi di distanza da quando quei
duecento disperati avrebbero dovuto essere rimessi in libertà, è stata
raggiunta l’intesa per il rimpatrio. Eppure, riconsegnarli alla dittatura dalla
quale hanno cercato di fuggire, significa di fatto condannarli a una galera
ancora più dura, a rappresaglie, torture, forse la morte.
“Non c’è un minuto
da perdere – insiste don Zerai – La ‘riconsegna’ è ormai questione di giorni.
Forse di ore. Chiediamo con forza, allora, a tutta la comunità internazionale
di intervenire per bloccare questa che si configura come un’autentica
deportazione, contro ogni diritto e ogni logica. La deportazione di giovani
“colpevoli” soltanto di aver lasciato il proprio paese in cerca di libertà e
che ora rischiano la vendetta della dittatura alla quale volevano sottrarsi.
Bisogna intervenire al più presto, pretendendo spiegazioni e un ripensamento
immediato dal governo sudanese. Ricordando, ammonendo anzi, che il Sudan ha
firmato la convenzione di Ginevra del 1951 sui diritti dei profughi e dei
migranti e che è tenuto dunque a rispettare le richieste di asilo, consegnando
tutte queste persone, ed altre che si trovassero nelle stesse condizioni,
all’Unhcr, l’Alto Commissariato Onu per i rifugiati, perché possa esaminarne le
domande di aiuto, assistenza e protezione internazionale”.
Questo appello è
stato lanciato sabato mattina. Non ha ancora ricevuto risposte. Silenzio da
parte dell’Onu, dell’Unione Europea, dei singoli Stati. Inclusa l’Italia. Che
pure, proprio in queste settimane, sulla scia della recente, rapida visita di
Renzi in vari Stati africani, vanta il “successo” della sua “mutata politica in
Africa” e, in particolare, la “svolta” registrata proprio con l’Eritrea e con
il Sudan. Si cita, a conferma di questo cambiamento, la “disponibilità al
dialogo” manifestata al viceministro Lapo Pistelli da parte di Afewerki e di
Amhad al Bashir, il presidente sudanese, nell'ambito di un nuovo “disegno
strategico” di cooperazione economica e di governance. “L’esempio più evidente
di questo successo diplomatico è stato l’arrivo in Italia di Meriam Ibrahum”,
ha scritto una parlamentare Pd a proposito del Sudan. Giusto. E’ sicuramente un
fatto di grande rilievo aver ottenuto la liberazione della giovane condannata a
morte come apostata. Non a caso questa vicenda ha commosso milioni di persone
ed attirato l’attenzione dei media di tutto il mondo. Ma forse è proprio qui il
punto. Quei duecento ragazzi sono soli e ignorati dai media e dalla politica:
sepolti sotto una coltre pesante di silenzio. O, peggio, di silenziamento
voluto. Abbandonati al loro destino, senza clamori. Magari perché la loro
vicenda ingombrante dà ombra a certi “disegni strategici”?
Non è, del resto, un
caso isolato. Sempre in Sudan e sempre in questi giorni ce n’è almeno un altro,
che chiama in causa non il regime di Khartoum ma direttamente l’Italia: decine,
centinaia di giovani mogli eritree, spesso con bambini piccoli, alle quali la
nostra ambasciata rifiuta il visto per il ricongiungimento familiare, nonostante
i loro uomini abbiano ottenuto il nulla osta dal ministero dell’interno,
attraverso le prefetture delle province in cui risiedono e lavorano ormai da
anni. Lo stesso – ha denunciato la diaspora eritrea – accade all’ambasciata di
Addis Abeba, in Etiopia, altra meta del recente viaggio di Pistelli. E’ un
abuso evidente, che si trascina da mesi. Senza spiegazioni plausibili. Non ne
ha fornite e probabilmente non ne ha cercate, nella sua visita a Khartoum e negli
altri Stati del Corno d’Africa, nemmeno il viceministro. Eppure è noto che fine
rischiano di fare queste donne se, stanche di aspettare il diritto di
riabbracciare il marito, decideranno di affidarsi ai mercanti di esseri umani per
tentare la traversata del Sahara e del Mediterraneo verso l’Europa. Spesso, in
queste odissee della disperazione, le attende una sorte non dissimile da quella
di Meriam. Sui pick-up dei predoni del Sahara, nei lager libici controllati da
miliziani fanatici, nelle mani di poliziotti corrotti, sulle carrette degli scafisti…
Ma loro, come i giovani profughi detenuti a Khartoum e in procinto di essere
riconsegnati ad Asmara, non sono sotto i riflettori dei media. Nessuno ne parla
e, dunque, non esistono.
Forse allora la nuova
politica italiana in Africa dovrebbe ricominciare proprio da qui. Dai diritti
di quei profughi e di quelle donne sconosciute. E di migliaia, milioni di altri
come loro. Rompendo la cortina di silenzio che li cancella e li fa “sparire”. Soltanto
così sarà davvero “nuova”.
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