di Emilio Drudi
Hanno vissuto in
diretta l’orrore dell’ultimo massacro attuato dai miliziani dello Stato
Islamico in Libia, costretti ad assistere all’esecuzione in massa di 43
compagni, uccisi con un colpo alla nuca, in ginocchio davanti ai loro
carnefici. Altri 14, vestiti di una tuta arancione, sono stati sgozzati e
decapitati. Sono seguiti giorni, settimane terribili, passati a studiare il
Corano, con la morte negli occhi e nel cuore, dopo essere stati testimoni
obbligati della sorte che li attendeva rifiutando di abbracciare l’Islam. Alla
prima occasione sono fuggiti. I carcerieri li stanno braccando: se verranno ripresi,
non avranno scampo. L’unica speranza di salvezza è lasciare al più presto la
Libia. Finora, però, hanno trovato tutte le vie sbarrate. Per mare e per terra.
E ogni ora, ogni minuto che passa, è una scommessa con la morte.
Sono cinque ragazzi
– quattro minorenni e uno poco più che ventenne – che facevano parte del gruppo
di 80 profughi bloccati dai guerriglieri islamisti all’inizio di marzo mentre,
provenienti da Khartoum, tentavano di raggiungere Tripoli. E’ stato sicuramente
un agguato. I miliziani armati, più di trenta, li aspettavano al varco: hanno
bloccato il camion su cui viaggiavano insieme ad altre decine di migranti e
selezionato accuratamente le vittime da sequestrare, scegliendo solo gli
eritrei e gli etiopi. Tutti di religione cristiana. E tutti ammazzati senza
pietà, tranne dieci donne e i tredici uomini più giovani, risparmiati come
“vergini” e ragazzi da convertire. Oltre un mese dopo, almeno quei cinque sono
riusciti a scappare, sfruttando l’opportunità di uno scontro a fuoco con un’altra
formazione armata, che ha costretto i loro aguzzini ad allentare la vigilanza.
Hanno camminato per tre giorni nel deserto, quasi senza fermarsi e sempre con
l’incubo di essere rintracciati. Quando, esausti, hanno deciso di cercare un
po’ di riposo in un villaggio ai margini del Sahara, nel sud della Libia, poco
è mancato che i miliziani li catturassero di nuovo: hanno lasciato appena in
tempo la casa dove un contadino sudanese li aveva accolti. Da lì hanno
raggiunto la costa, non lontano da
Sirte.
Durante la fuga si è
unito a loro un altro ragazzo, anch’egli eritreo, ma di religione islamica, e a
sua volta scappato da un gruppo di terroristi dell’Isis. Pare sia stato proprio
lui a trovare il modo di stabilire un contatto telefonico tra i cinque e alcuni
amici della diaspora in Europa, per dare l’allarme e chiedere aiuto,
raccontando le circostanze precise dell’agguato, della strage (nel frattempo
resa nota anche dai miliziani con un filmato diffuso sul web) e dell’evasione. Fermarsi
a Sirte, però, era troppo rischioso: la zona è controllata in gran parte proprio
dalle bande armate dello Stato Islamico. Hanno puntato a ovest. Sempre a piedi
e sempre con il cuore gonfio di paura.
Arrivati a Tripoli, hanno scartato subito l’idea di tentare la traversata del
Mediterraneo su un barcone: nessuno di loro ha soldi sufficienti per coprire la
“tariffa” pretesa dai trafficanti. Non restava che la via di terra, verso la Tunisia, nella
speranza di riuscire a passare il confine.
Alla frontiera sono
arrivati il 18 maggio, al valico di Ras Gdair. Pensavano di avere buone
chances, anche perché una loro amica eritrea esule a Londra aveva nel frattempo
preso contatto con la sede di Tunisi dell’Unhcr,, il Commissariato dell’Onu per
i rifugiati, ottenendone l’impegno a farsi carico dei sei giovani non appena
avessero messo piede nel paese, proprio per i rischi mortali che corrono in
Libia. Invece non hanno avuto fortuna. Hanno spiegato alla polizia tunisina che
stavano scappando dall’Isis, che sono forse gli unici scampati all’ultima
strage di ostaggi, le cui immagini hanno fatto il giro del mondo. Che l’Unhcr
li avrebbe accolti. Che restare in Libia può diventare una condanna a morte.
Non c’è stato nulla da fare: respinti.
Non era finita. Rientrando
dal posto di confine tunisino, i sei ragazzi sono stati fermati da due agenti
della polizia libica. Temevano di essere arrestati. Sono stati ricattati: lo
hanno raccontato loro stessi all’amica “londinese” che in questi giorni si è
stabilita in Tunisia per cercare di aiutarli. I due poliziotti, dopo averli
interrogati, hanno detto che sarebbero stati in grado di procurare a tutti un
imbarco sicuro. Era solo questione di soldi. Se poi non avevano abbastanza
denaro, avrebbero potuto pagare le spese lavorando per un certo periodo per
loro o per alcuni loro conoscenti. Per quanto tempo e che tipo di lavoro? Tutto
da stabilire. Dovevano però decidere presto, perché lì, al posto di frontiera,
non potevano restare. Hanno rifiutato, ma il ricatto continua: gli agenti non hanno cessato di tormentarli con le loro
richieste e pressioni. Con minacce sempre più esplicite.
Ora quei giovani
sono sempre al valico di Ras Gdair. Abbandonati a se stessi. Quasi senza nulla
da mangiare, dormendo dove capita. Chiusi in una trappola senza uscita. E tra
due fuochi: il rischio di essere ripresi dai miliziani dell’Isis e il pericolo
che i poliziotti che li stanno ricattando decidano di “venderli” a qualche
gruppo di trafficanti. Come lavoratori-schiavi. L’agenzia Habeshia ha lanciato
un appello alle cancellerie europee e in particolare all’Italia, che vanta
saldi rapporti di antica data con la Tunisia: chiede di adoperarsi in qualche
modo per convincere le autorità tunisine a concedere un visto temporaneo di
accesso a tutti e sei, come richiedenti asilo. Prima che sia troppo tardi. Poi
sarà l’Unhcr a prendersi cura del loro caso, cercando di trovare una soluzione
stabile: lo ha assicurato anche la sede centrale di Ginevra.
E’ l’unica speranza
rimasta. Sempre più flebile, via via che passano i giorni. Si tratta della vita
di sei ragazzi: il più grande ha 25 anni, il più piccolo appena quindici.
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