di Emilio Drudi
“Non esiste una
soluzione militare per porre fine all’emergenza creata dal traffico di uomini
nel Canale di Sicilia”: così si è espresso nei giorni scorsi Ban Ki Moon. Sullo
stesso concetto il segretario generale delle Nazioni Unite ha insistito, con
forza ancora maggiore, in occasione della fugace ispezione nel Mediterraneo
nella quale, a bordo della nave San Giusto, della Marina Militare, l’hanno
accompagnato il premier italiano Matteo Renzi e Federica Mogherini,
responsabile della politica estera dell’Unione Europea. “Le autorità – ha
dichiarato – devono focalizzarsi sul salvataggio delle vite umane”. Questa
priorità assoluta, sottolineata a nome dell’Onu, nelle parole di Renzi – come
ha riferito la Repubblica – è diventata invece “fermare i trafficanti di esseri
umani per evitare una catastrofe umanitaria”.
Non sembra
esattamente la stessa cosa. Ma, in ogni caso, come fermarli questi trafficanti?
La strategia prospettata è nota: andare in Libia a bombardare e distruggere i
barconi, con la “giustificazione”, tutt’altro che condivisa dall’Onu e da
praticamente tutti gli esperti di diritto internazionale, che si tratterebbe
non di un atto di guerra ma di una operazione di polizia. Sembra passata in
subordine, invece, l’ipotesi, ventilata a più riprese, di un enorme blocco
navale davanti alle coste africane. Un altro evidente atto di guerra.
Sta di fatto che
entrambe le opzioni, alla resa dei conti, si configurano in realtà come
respingimenti indiscriminati, più o meno mascherati. Questa politica è già
costata due condanne all’Italia da parte della Corte europea per i diritti
dell’uomo. Ma tant’è: si continuano a mettere in cantiere interventi volti a
dare risposte alle “paure” immotivate del Nord del mondo e non al problema
generale dell’immigrazione né, tantomeno, ai diritti, alle esigenze alla tutela
della vita stessa dei profughi, che si pensa di rimandare in Africa se
intercettati in mare o di costringere a rimanere a terra, nell’inferno libico.
Riconsegnati, insomma, al ricatto dei trafficanti o ai paesi dai quali sono
fuggiti per sottrarsi a dittature, guerre, persecuzioni, terrorismo, fame e
miseria endemiche. Condizioni terribili, spesso provocate proprio dalle scelte
di egemonia neocoloniale fatte in Africa e in Medio Oriente proprio da quel
Nord del mondo che ora alza barriere nei confronti dei migranti. Ed è una
barriera anche Triton, l’operazione di vigilanza delle frontiere (che non ha il
mandato di organizzare una rete di soccorsi), per la quale l’Unione Europea
proprio in questi giorni ha triplicato i mezzi e i finanziamenti, arrivando ad
oltre 9 milioni al mese, la stessa spesa che invece è stata giudicata eccessiva
per Mare Nostrum.
Ecco, Mare Nostrum.
Nell’incontro con Ban Chi Moon, Renzi non ne ha fatto parola. Eppure proprio
questa sarebbe stata la migliore risposta alle raccomandazioni del segretario
delle Nazioni Unite. Non sembrano esserci dubbi, infatti, che con le navi di
Mare Nostrum mobilitate, avrebbero avuto molte più speranze di salvezza le
centinaia di vite inghiottite dal mare negli ultimi quattro mesi, incluse le
circa 800 del naufragio del 19 aprile. Non a caso sono mesi che chiedono il
ripristino di questa operazione istituzioni in prima linea come l’Alto
Commissariato Onu per i rifugiati (Unhcr), l’Organizzazione internazionale per
le migrazioni (Oim) e praticamente tutte le più importanti e attive istituzioni
umanitarie, a cominciare da Amnesty, Human Rights Watch, Medici senza
Frontiere, Medici per i diritti umani. E tutti, proprio in occasione
dell’arrivo di Ban Chi Moon, hanno rilanciato la richiesta. Significativo, in
particolare, l’intervento di William Lacy Swing, direttore generale dell’Oim, che
ha ricordato come, dall’inizio dell’anno a oggi, si siano registrati ben 1.750
morti e dispersi in mare contro 56 dello scorso anno: oltre trenta volte di
più. Eppure niente: silenzio a Roma e silenzio a Bruxelles.
Contro questa scelta
italiana ed europea sta montando la protesta: manifestazioni, sottoscrizioni,
dibattiti, appelli, presidi, manifesti. Sta crescendo cioè, sia pure in maniera
slegata e confusa, un vasto movimento di opinione, che fa magari fatica a
trovare voce e spazio nei media, ma che c’è e sta cercando la strada per farsi
sentire. Il punto è trovare un momento di sintesi per tradurre questa istanza di
cambiamento in azione politica. O comunque in un’azione capace di indurre,
quasi costringere, le “stanze del potere” a confrontarsi e a tenerne conto.
Una delle analisi
più lucide, corredata di proposte operative concrete da attuare al più presto,
appare quella di Sos Sterminio in Mare, un gruppo promosso da Barbara Spinelli,
eurodeputata della sinistra, al quale hanno aderito intellettuali e uomini di
cultura, giuristi, giornalisti, politici. Ad esempio, Erri De Luca, Lorenza
Carlassere, Sandra Bonsanti, Fulvio Vassallo Paleologo, Gustavo Zagrebelsky.
“Quello che è accaduto la notte tra il 18 e il 19 aprile, il più grande
sterminio in mare del dopoguerra - scrivono
– ha segnato una svolta. A partire da quella data occorre mettere la parola urgenza al posto di emergenza. Bisogna dare alla realtà il nome che merita: siamo di
fronte a crimini di guerra e sterminio in tempo di pace. Il crimine non è
episodico ma sistemico e va messo sullo stesso piano delle guerre e delle
carestie acute e prolungate. Il Mediterraneo non smette di riempirsi di morti.
Lo sterminio dura da almeno 18 anni: più delle due guerre mondiali messe
insieme, più della guerra del Vietnam. E’ indecenza parlare di ‘cimitero
Mediterraneo’. Parliamo piuttosto di fossa
comune: non c’è lapide che riporti i nomi dei fuggitivi che abbiamo
lasciato morire. Le azioni di massima urgenza da intraprendere devono essere,
tutte, all’altezza di questo crimine… Non sono all’altezza le missioni
diplomatiche o militari in Libia, dove – anche per colpa dell’Unione, dei suoi
governi, degli Stati Uniti – non c’è più interlocutore statale. Ancor meno lo
sono i blocchi navali, gli aiuti alle dittature da cui scappano i richiedenti
asilo, il silenzio sulla vasta destabilizzazione nel Mediterraneo (dalla Siria
e l’Iraq alla Palestina, dall’Egitto al Marocco) di cui l’Occidente è
responsabile da anni”.
Le “azioni di
massima urgenza” invocate puntano a predisporre vie legali di fuga presidiate
dall’Unione Europea e dalle Nazioni Unite, in modo da togliere ai trafficanti
il “monopolio” dei viaggi della speranza; operazioni di pattugliamento e
salvataggio in mare sull’esempio di Mare Nostrum; interventi dei caschi blu
dell’Onu per portare aiuto agli sfollati nei paesi di transito e prima sosta; la
revisione dei regolamenti di Dublino che vincolano i rifugiati al primo paese
al quale chiedono asilo e l’adozione di un nuovo sistema di accoglienza in
Europa.
A Sos Sterminio in
Mare ha aderito anche don Mussie Zerai a nome dell’agenzia Habeshia. E anche
don Zerai parla di guerra, in termini ancora più crudi: “L’Unione Europea,
premio Nobel per la Pace, sta conducendo una guerra non dichiarata contro i
migranti e i profughi disarmati che bussano alle sue porte in cerca di
protezione. Il rifiuto di Bruxelles di mettere in campo un programma
equivalente a Mare Nostrum, rifiuto ribadito anche con il recente potenziamento
di Triton, equivale infatti a una chiara dichiarazione di guerra contro i
richiedenti asilo e gli immigrati. Di questo si tratta: lasciare morire in mare
questa gente disperata è un modo passivo di combattere una guerra che non si
vuole dichiarare. E il conto delle vittime è, appunto, da vera e propria
guerra: 1750 dal primo gennaio a oggi, secondo l’Oim. Ma in realtà sono molte
di più. L’Oim si riferisce solo ai morti e agli scomparsi in mare. Altri
‘censimenti’ che, come quello del Comitato Nuovi Desaparecidos, cercano di
monitorare anche i ‘morti a terra’ (in Libia, durante la traversata del Sahara,
nel tentativo di superare le barriere di filo spinato che ‘difendono’ le
frontiere di terra dell’Europa, ecc.) parlano di oltre 1.900. E la stima è
ancora al ribasso, perché poco o nulla filtra dalla Libia e da altri paesi
africani. Sono vite spezzate che esigono giustizia. Dopo la strage di
Lampedusa, nell’ottobre 2013, abbiamo visto e sentito politici di grande
responsabilità istituzionale promettere “mai più tragedie come questa”. E
invece oggi siamo di nuovo a piangere centinaia, migliaia di vittime. Una
mattanza continua alle porte dell’Europa. Di un’Europa che sta tradendo i
valori fondanti della sua storia. Al punto di essere arrivata a ipotizzare, per
bocca di alcuni dei suoi esponenti più rappresentativi a Bruxelles, la liceità
di ‘accordi con i dittatori’africani, pur di tenere i migranti lontani dai suoi
confini”.
Sul “che fare”,
Habeshia concorda con le richieste di Sos Sterminio in Mare, con in più la
proposta di un piano straordinario da attuare subito. “E’ evidente – spiega don
Zerai – che il problema maggiore e più urgente, in questo momento, sono i
profughi ammassati in Libia, in attesa di un imbarco. Non ha senso ipotizzare
l’ennesima barriera, bombardando e distruggendo i barconi. Qualsiasi tipo di
barriera è destinata a cadere. Il risultato sarebbe solo un ulteriore
peggioramento della condizione dei migranti. Si tratta di varare, allora, un
programma condiviso per l’accoglienza di quei profughi e la loro distribuzione
proporzionale per quote in tutti i 28 paesi dell’Unione Europea. Non sono un
milione come amano ‘sparare’ certi politici. Valutazioni più appropriate
parlano di 300, 400, al massimo 500 mila persone. Bene, se fossero davvero 500
mila, la stima più alta, ad ognuno degli Stati europei ne toccherebbero in
media meno di 18 mila. Facendo le dovute compensazioni, sulla base di vari
criteri di ripartizione delle quote (popolazione, economia e Pil, estensione
geografica, ecc.) ognuno dei singoli paesi europei sarebbe perfettamente in
grado di assorbire un flusso del genere. Questo piano dovrebbe essere insieme
un punto di arrivo e di ripartenza: una sorta di ‘sanatoria’ per azzerare una
situazione che rischia altrimenti di diventare ingovernabile e per varare poi
un sistema di interventi diverso per far fronte al problema. Interventi
‘strutturali’ perché si tratta di un problema ‘strutturale’, che è esploso
negli ultimi anni ma che è solo all’inizio: basta considerare l’escalation del
numero mondiale dei profughi, arrivati alla cifra record di 53 milioni”.
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