di Emilio Drudi
Quelle immagini
orribili hanno fatto il giro del mondo. Quattordici ragazzi con indosso una
tuta nera, in ginocchio, uccisi con un colpo alla nuca. Una esecuzione di massa,
da qualche parte in Libia: tutt'attorno un paesaggio desertico. Altri 14,
vestiti di una tuta arancione, sgozzati come animali al macello in riva al
mare, in un luogo imprecisato, probabilmente tra Sirte e Misurata.
E’ l’ultimo massacro
rivendicato e filmato dai miliziani dello Stato Islamico, l’Isis, che
controllano diversi punti chiave della Libia, in lotta sia con il governo di
Tobruk riconosciuto dalla comunità internazionale, sia con quello musulmano di
Tripoli, che si delegittimano a vicenda e la cui autorità reale appare sempre
più aleatoria. Una mattanza feroce. Tutti i media ne hanno parlato. Ma neanche
poi tanto: la notizia è subito scomparsa dalle prime pagine, spazzata via da
altri avvenimenti o, peggio, “ridimensionata” da una certa assuefazione
all'orrore e da un consumismo che divora tutto, persino l’informazione, sempre
più spesso ridotta a un prodotto da fast food. Così, in pratica, quasi nessuno
è andato a scavare per capire meglio, aggiungere particolari, conoscere la
storia di quei 28 ragazzi. Nessuno, tranne diversi esponenti della diaspora
eritrea e alcuni giornalisti di emittenti e testate vicini agli esuli, come
Forum Radio di Londra, stimolati dal fatto che alcuni dei giovani assassinati,
8 si diceva, erano profughi fuggiti dal regime di Asmara, mentre tutti gli
altri erano indicati come etiopi. E la ricerca ha aggiunto orrore all'orrore.
Si è scoperto che le vittime non sono 28 ma molte di più, 57, oltre il doppio,
quasi tutti giovani eritrei. E che la loro tortura si è protratta dal quattro
marzo, quando sono stati catturati, a tre giorni dopo, il sette, quando i
miliziani dell’Isis li hanno massacrati, filmando minuto per minuto la loro
esecuzione.
“Le prime notizie
del sequestro – dice Ribka Sibathu, del Coordinamento Eritrea Democratica –
sono state comunicate il 25 marzo da uno dei prigionieri, che è riuscito a contattare
con un cellulare la sua famiglia, in Eritrea, dando l’allarme. A raccontare
tutto sulla strage sono stati poi cinque ragazzini che, diverse settimane dopo
il rapimento, sono sfuggiti al controllo dei miliziani. Gli unici, finora, che si
sono salvati. Nelle mani dell’Isis restano ancora oggi 18 persone: dieci donne
e otto minorenni”.
E’ una storia
emblematica di quanto sta accadendo in questi giorni in Libia e lungo le “rotte
della speranza” percorse nel Sahara da migliaia di migranti, per cercare di
arrivare alla costa mediterranea, ad ogni passo con l’ansia di essere
sequestrati dai miliziani delle varie fazioni, da militari fedeli all’uno o
all’altro governo, da banditi, tagliagole e predoni, tutti interessati al
fiorente traffico di esseri umani che, in Libia e nell’Africa sub sahariana, è
diventato un business enorme, secondo solo al giro d’affari del petrolio.
Il gruppo di
profughi parte da Khartoum verso la fine di febbraio su un camion-bus stracarico:
72 eritrei, qualche decina di somali, 8 etiopi provenienti dall’Oromia e
dall’Ogaden, le regioni meridionali sconvolte dalla lotta autonomista contro
Addis Abeba. Puntano verso nord, per attraversare il Sahara e raggiungere il
confine libico. Un viaggio lento e lungo, in pieno deserto. Passano la
frontiera senza troppi problemi. Il camion arranca, ma va: una volta a Tripoli,
pensano, non sarà molto difficile trovare un imbarco per l’Italia. Sono appunto
sulla strada per Tripoli quando, il 4 marzo, incappano in un posto di blocco.
Non un comune posto di blocco, però: a presidiarlo ci sono almeno 30 uomini
armati. Sembra quasi che li stiano aspettando. Forse qualcuno li ha traditi e
“venduti”, forse qualcuno che si è finto profugo come loro. Certo è che i
miliziani, mitra e fucili spianati, costringono tutti a scendere dal camion. E
inizia subito la selezione. I somali e l’autista, di religione musulmana,
vengono lasciati andare. Anzi, costretti a ripartire prima possibile. Gli
altri, i 72 eritrei e gli 8 etiopi, che si sono professati cristiani, devono
restare.
“Uno dei
sequestratori era di origine eritrea – racconta Ribka Sibathu – Ha cercato di
presentarsi come un amico e di tranquillizzarli, dicendo che erano soldati
dello Stato Islamico libico e che li avrebbero aiutati ad attraversare il
Mediterraneo. In realtà li hanno portati in una macchia poco lontano, tenendoli
nascosti e costantemente sotto controllo per tutto il giorno. Ore
interminabili, senza né acqua né cibo e con una paura sempre più angosciante. Finché
è arrivato quello che sembrava il capo di quei miliziani dell’Isis…”.
L’arrivo di questo
personaggio è la premessa del massacro. Il gruppo viene trasferito verso il
Sahara e poi diviso: prima le dieci donne e poi dieci minorenni sono separati
dagli altri. Le prime scelte come “vergini”, i ragazzini per convincerli
gradualmente ad aderire all’Islam. La conversione immediata all’Islam sarebbe
stata invece l’unica possibilità di salvezza per tutti gli altri 60
prigionieri: il loro rifiuto è diventato
una condanna a morte, come dice esplicitamente un miliziano con il volto
coperto e in divisa mimetica nel filmato trasmesso dall’Isis sul web verso la
metà di aprile. “La mattanza – riferisce Ribka in base alla testimonianza dei
cinque ragazzi fuggiti – è iniziata il 7 marzo. Tra quei 60 uomini, legati gli
uni agli altri con cavi elettrici, ne hanno scelti 14, vestendoli con una tuta
arancione. Agli altri è stata imposta una tuta nera. Sono stati questi i primi
a morire: li hanno costretti a inginocchiarsi a gruppi più piccoli e gli hanno
sparato. La prima fase dell’esecuzione è stata filmata. Solo tre si sono
salvati, dichiarando all’ultimo momento di essere pronti a convertirsi. Li
hanno aggregati ai minorenni, costringendo tutti ad assistere al massacro. Come
monito. Ai quattordici in tuta arancione è toccata una sorte ancora più
orrenda: li hanno portati verso la costa e sgozzati in riva al mare”. Anche
questa scena terribile è stata filmata e inserita nel “comunicato” di metà
aprile sul web. La località del massacro dovrebbe essere un punto del litorale
tra Sirte e Misurata, forse lo stesso dove i miliziani dell’Isis hanno eseguito
“sentenze” analoghe contro altri prigionieri e “apostati”.
Per oltre un mese i
superstiti si comportano da musulmani neoconvertiti: studiano il Corano,
pregano secondo la liturgia islamica. Poi si presenta l’occasione per fuggire.
La banda di miliziani che li ha sequestrati si scontra con un altro gruppo
armato. I carcerieri sono costretti ad allentare la sorveglianza e cinque
ragazzi ne approfittano per scappare verso il Sahara. Camminano per tre giorni
nel deserto. Quando sono allo stremo per la stanchezza, la sete, la fame, la
sabbia che penetra dappertutto e soffoca il respiro, raggiungono un piccolo
centro abitato. Un uomo, un sudanese, li aiuta: non sa che sono ex prigionieri
sfuggiti a una banda dell’Isis, pensa che siano cinque dei tanti profughi che
arrivano di continuo dal Sahara. Li accoglie in casa, offre acqua e cibo, li fa
riposare perché riprendano le forze, promettendo anzi trovare il modo di farli
arrivare fino alla costa. Qualche giorno dopo, però, invade il villaggio una
schiera di miliziani: stanno cercando i cinque evasi e cominciano a ispezionare
casa per casa. Il sudanese capisce al volo che si tratta dei ragazzi che sta
ospitando. Non li tradisce ma chiede loro di andarsene subito.
“Vedendo i miliziani
– racconta Ribka Sibathu – quell’uomo è tornato subito a casa. ‘Voi siete
scappati dai D’ash, dice ai ragazzi,
Volete farmi ammazzare!...’. Così li ha scacciati. Era fuori di sé perché non
gli avevano raccontato tutto. Però ha indicato la strada per proseguire la fuga
con un minimo di sicurezza. Hanno camminato per tutto il giorno, senza un attimo
di sosta, per allontanarsi il più possibile. Senza mangiare e senza bere. Alla
fine si sono rivolti a un libico, che li ha accompagnati fino alla periferia di
Sirte”.
Da allora quei
cinque ragazzi sono lì, insieme a un altro giovane migrante eritreo, anche lui
sfuggito all’Isis. E da lì si sono messi in contatto con alcuni amici della
diaspora per raccontare tutta la storia. La loro storia e quella del gruppo di
profughi che è stato massacrato. Ora
aspettano l’occasione per imbarcarsi verso l’Europa.
“Questa drammatica
vicenda – fa notare l’agenzia Habeshia – dimostra come siano prive di senso
tutte le proposte di bloccare in Libia i profughi, rispedendo indietro i
barconi o addirittura impedendo che possano salpare. Ad esempio, l’idea
formulata dal premier Matteo Renzi a Bruxelles di coinvolgere nel
pattugliamento del Mediterraneo la marina tunisina e quella egiziana, con
l’intesa di riportare sulla sponda africana i migranti intercettati. O, peggio
ancora, quella di bombardare e distruggere pescherecci, barche e gommoni, che
tra l’altro è a tutti gli effetti un atto di guerra, non un’operazione di
polizia internazionale come si vuol far credere. Intrappolare a terra migliaia
di donne e uomini significa condannarli all’inferno libico: riconsegnarli al
ricatto dei trafficanti, all’orrore dei terroristi, alla violenza dei miliziani
delle diverse fazioni. Significa, in una parola, farne degli schiavi senza
diritti, merce umana di cui tutti possono disporre. Significa, sempre più
spesso, condannarli a morte. Un crimine di lesa umanità”.
Proprio sulla base
di queste considerazioni si è fatta strada la proposta di varare un piano
straordinario per la Libia, ispirato a criteri di soccorso-accoglienza in
contrapposizione a quelli di soccorso-respingimento ventilati dalla politica
italiana ed europea. Habeshia ne parla ormai da settimane: “Pensiamo a un
programma condiviso per l’accoglienza dei profughi attualmente presenti in
Libia e la loro distribuzione proporzionale per quote in tutti i 28 paesi
dell’Unione Europea. Se anche fossero davvero un milione come si dice, a ognuno
degli Stati europei ne toccherebbero in media da 35 a 36 mila. Facendo le
dovute compensazioni sulla base di vari criteri di ripartizione (economia, Pil,
popolazione, estensione geografica), ognuno dei singoli paesi Ue risulterebbe
perfettamente in grado di assorbire questo flusso. Sarebbe insieme un punto di
arrivo e di ripartenza: una sorta di sanatoria per azzerare una situazione che
rischia altrimenti di diventare ingovernabile e per varare poi, prima
possibile, un sistema diverso per far fronte al problema, con interventi da
attuare subito, a breve e a lungo termine: il varo immediato di un’operazione
di soccorso sul modello di Mare Nostrum; l’istituzione di “canali umanitari” di
immigrazione, con la collaborazione delle ambasciate di tutti gli Stati
dell’Unione Europea nei paesi africani più affidabili, abolendo quanto prima i
processi di Khartoum e di Rabat, che creano l’ennesima barriera, sempre più a
sud, della Fortezza Europa; un modello europeo unico di asilo e accoglienza,
con un livello di trattamento omogeneo in ogni Stato, libertà di movimento,
residenza e lavoro e con il conseguente superamento del regolamento di Dublino;
una politica di stabilizzazione e pacificazione nei vari punti di crisi da cui
sono costretti a fuggire i profughi”.
Proprio in questi
giorni il ministro degli esteri Paolo Gentiloni ha presentato ai paesi europei
del Consiglio di sicurezza dell’Onu (oltre a Gran Bretagna e Francia, membri
permanenti, in questo momento anche Spagna e Lituania) una proposta di
risoluzione “sull’emergenza emigrazione” nel Mediterraneo. La risposta dovrebbe
arrivare entro il 18 maggio. Nel frattempo la Farnesina non ha detto granché
sulle linee guida: il ministro ha precisato solo che l’obiettivo è ottenere “un
quadro legale che consenta di colpire i trafficanti”. Tutto lascia credere che
si sia scelta l’opzione militare: l’ormai famosa “distruzione dei barconi”.
L’uso della forza, insomma, anziché il principio del soccorso-accoglienza.
Nonostante le indicazioni del segretario generale dell’Onu, Ban Ki Moon. Contro
le aspettative degli stessi profughi. E, in definitiva, ribadendo la vecchia
“politica delle barriere”, dettata dalle assurde paure della Fortezza Europa.
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