CASA
16.41 23/10/2007
Ponte Mammolo, se questo è abitare...
Pareti di vecchie ante di armadi, tettoie di nylon e plastica, baracche tenute insieme da reti di letti arrugginite. Reportage fotografico in una delle tante favelas di Roma, alla scoperta delle condizioni di vita di 50 eritrei e 30 ucraini
La baraccopoli di Ponte Mammolo a Roma © Gabriele Del Grande
ROMA – Pareti di vecchie ante di armadi inchiodate una sull’altra, tettoie di nylon e plastica, baracche tenute insieme da reti di letti arrugginite recuperate dai cassonetti. Contro il cielo i cavi degli allacci abusivi alla corrente elettrica, qua e là parabole e sugli alberi i segni dell’ultimo incendio. Un paio di donne scambiano due parole mentre aspettano il proprio turno per riempire le taniche d’acqua all’unico rubinetto appeso a un tubo nero di plastica che spunta dagli alberi dietro le baracche. Poco distante un ragazzo si fa la barba, davanti a uno specchio inchiodato a vecchi pannelli di legno, mentre due gatti fanno le fusa su una vecchia cassa usata come tavolino in quello che d’estate potrebbe essere un giardino. Redattore sociale ha visitato una delle tante favelas di Roma, a Ponte Mammolo, per scoprire le condizioni di vita delle 80 persone che vi abitano, a due passi dalla stazione della metropolitana, dietro il capolinea degli autobus. Baracche di fortuna, separate dagli sguardi degli automobilisti da un doppio giro di alberi tutto intorno, ma sotto il costante sguardo curioso e indispettito degli inquilini dei piani alti dei palazzoni che si ergono intorno. Sono soprattutto uomini, ma non mancano donne con bambini e interi nuclei familiari. Due le nazionalità principali: eritrei, una cinquantina di persone, ed ucraini, circa 30. D’estate convivono con le zanzare e d’inverno fanno i conti con il freddo. Qui non c’è riscaldamento né elettricità, salvo qualche allaccio abusivo. Si rimedia con le candele e con qualche coperta in più per il freddo. I bagni sono due per tutto il campo, la doccia si fa con i secchi dell’acqua presa da una fontana vicina.
Zerit è un rifugiato politico. È fuggito dall’Eritrea dopo aver abbandonato l’esercito in guerra con l’Etiopia. In Italia è arrivato nel 2003. Qui vive da due anni. Ha i documenti in regola, ma da due anni non riesce a trovare un lavoro stabile e quindi a permettersi una stanza nella capitale degli sfratti. Lavorava come facchino negli alberghi per una cooperativa di servizi, ha perso il lavoro, adesso sopravvive con piccoli commerci nelle bancarelle di amici. Come lui molti si appoggiano qui. Un signore rientra con il bambino piccolo, appena tornato da scuola. Non gli va di parlare. Ne hanno abbastanza dei giornalisti. Le baracche furono visitate anche dal vescovo ausiliare della diocesi di Roma, Ernesto Mandara, nel 2005. Ma niente è cambiato. Alcuni vivono qui da anni. C’è chi ha un permesso di soggiorno per motivi umanitari, chi è rifugiato e chi invece è senza nessun documento, specie tra gli ucraini. Altri invece sono appena arrivati, come Goitom, che è sbarcato a Lampedusa ad agosto e che qui ha trovato un tetto per quanto precario.
“Il sistema d’accoglienza dei rifugiati in Italia ha duemila posti, ma nel 2006 i rifugiati erano più di diecimila – dice Mussiè Zerai (Agenzia Habeshia) -. Vi siete mai chiesti dove finiscono gli altri ottomila? Eccoli!”. Anche a Goitom è successo. Dopo lo sbarco a Lampedusa è stato trasferito in un centro di identificazione e da lì, una volta ottenuto il permesso per motivi umanitari ha preso il primo treno per Roma ed è arrivato qui grazie al passaparola dei connazionali. Secondo un rapporto dell’Anci sullo Sprar (Sistema di protezione dei richiedenti asilo e rifugiati), nel 2006 sono state accolte 5.347 persone tra titolari di protezione umanitaria (43%), richiedenti asilo (43%) e rifugiati (14%), a fronte di 2.428 posti disponibili. Il 20% in più rispetto al 2005, eppure ancora troppo poco rispetto alle 10.348 richieste d’asilo presentate nel 2006.
“Manca un anello di congiunzione – continua Zerai – tra i centri d’identificazione (cdi, ndr.) dove vengono portati i richiedenti asilo una volta sbarcati in Sicilia, e i centri di accoglienza. Così succede che molti si ritrovano completamente soli una volta usciti dai cdi e vanno a ingrossare le fila di posti come questi che poi rischiano di diventare veri ghetti”. I rami bruciati di un grande albero secco salgono al cielo, al centro delle baracche di legno e lamiere da cui pendono un paio di parabole. Sono la memoria di un incendio divampato nella favelas proprio il 20 giugno del 2006. Uno scherzo del destino? In tutto il mondo si celebrava la giornata dei rifugiati, e a pochi chilometri dal centro di Roma, cinquanta rifugiati rischiavano la vita per le fiamme divampate da qualche fornello a gas che qui usano per cucinare. (gdg)
BARACCOPOLI DI PONTE MAMMOLO, GUARDA LE FOTO (© Gabriele del Grande): (1), (2), (3), (4), (5), (6), (7), (8)
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