mercoledì 12 agosto 2009

Profughi pronti a lasciare l’ex S. Paolo: "Qui è bello, ma molte cose non vanno"

Torino I problemi segnalati «Una cucina comune e manca un locale dove pregare» m.nei. Elegante e quieta, via Asti ha paura che la caserma dalla tetra memoria diventi Centro di Accoglienza Straordinaria. Però mansueti e umili non sono convinti di volerci andare proprio loro, i duecento profughi somali che ora si spartiscono stanze, sale d’attesa e ambulatori dell’ex clinica San Paolo in corso Peschiera. Sembra un controsenso: la Lamarmora (Fanteria, Bersaglieri ciclisti, poi dall’8 settembre 1943 sede delle torture repubblichine) è un austero palazzo calato nell’eleganza che lo contorna, ma vista all’interno, con gli occhi dei rifugiati politici, non ha abbastanza spazi vitali, è una strettoia del vivere pur non essendo detenzione. La clinica deve essere comunque sgomberata e fra le alternative lo Stato ha offerto questa. Ieri pomeriggio l’assessore ai Servizi sociali del Comune, Marco Borgione, con buon senso, ha invitato le Associazioni e una delegazione di somali a visitare la Lamarmora e a dire la loro. Che ne è venuto fuori? Non sono convinti. Corso Peschiera ha molti problemi, ma «c’è il fiato, c’è il respiro». Yassiin ha 31 anni, per 17 ha visto guerre in Somalia, è fuggito dieci mesi fa lasciando con il nonno una bimba e un bimbo di 8 e 9 anni: «Noi chiediamo aiuto, quindi non c’è pretese da noi. Non vogliamo un albergo, no. Ma qui ci sono camere di cinque metri per quattro dove mettere anche quattordici persone con i letti a castello. Duecento profughi e una cucina per tutti, una sola, vietato cucinare nelle camere. Come si fa a mangiare tutti?». E’ scritto nelle norme per «l’ingresso e il funzionamento»: «Un locale destinato a uso cucina e mensa, nel quale è possibile, a cura degli ospiti, preparare e consumare piccoli pasti dalle 6 alle 22,30». E quando arriva il Ramadan, chiede? «Si digiuna di giorno, per religione, poi la cucina è chiusa?». Fosse solo per quello, ma come ci si giostra quella cucina? Ora vivono in una struttura dove s’incrociano spezie e sapori da ogni stanza, sono duecento e per applicare le «norme» («non introdurre fornelli, non consumare pasti fuori dal locale mensa») quale girandola di turni inventare? L’assessore: «Ci sono punti da aggiustare, come Ramadan o un luogo per pregare. E ci sono regole di convivenza all’interno e con l’esterno. Non si crea un ghetto. Non voglio uno sgombero, ma un trasferimento concordato». E loro non avanzano grandi richieste, ma «la dignità», dice uno dei più silenziosi: «Non c’entra il Comune di Torino, ma l’Italia. Danimarca, Svezia, Olanda per i rifugiati hanno un programma vero. Li accolgono per i diritti umani. L’Italia accoglie più volentieri Gheddafi, invece. Venite a vedere torture, sevizie, malattie, violenze, i segni che portano tanti passati in Libia».

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