domenica 28 aprile 2013

Esposto a Laura Boldrini: “Profughi bloccati in Sudan dalla nostra ambasciata”


 di Emilio Drudi
Aspettano da mesi di venire in Italia, ma devono vedersela con una burocrazia ottusa, fatta di incomprensione e diffidenza. E, forse, anche con qualche tacita disposizione “dall’alto” perché venga adottata una linea di chiusura e respingimento. Poco importa se tutto questo soffoca diritti consolidati, creando pesanti disagi, dolore, ingiustizia. E’ quanto capita, denuncia l’agenzia Habeshia, ad oltre 200 giovani profughi del Corno d’Africa, in massima parte eritrei, ai quali verrebbe negata di fatto la possibilità di ricongiungersi al marito o alla moglie già residente nel nostro paese. Coppie condannate a restare divise, tra mille difficoltà, vittime di una indifferenza che sa di violenza.
E’ una vicenda che ha dell’incredibile. Al centro della contestazione è l’ambasciata italiana in Sudan, messa sotto accusa da alcuni familiari dei migranti bloccati a Khartoum, i quali, oltre ad essersi rivolti a don Mussie Zerai, il presidente di Habeshia, hanno indirizzato un esposto a Laura Boldrini, l’ex portavoce del Commissariato Onu per i rifugiati, eletta presidente della Camera due mesi fa. “Nella speranza – spiega don Zerai – che abbia la forza di trasferire nel Parlamento italiano la sensibilità che ha dimostrato in questi anni per i problemi di tanti ‘ultimi della terra’ costretti a fuggire da guerra e persecuzioni”. Non mancano gli uomini tra quei duecento disperati, ma la maggior parte sono donne. Qualcuna con uno o più bambini. O in stato di gravidanza. Sono arrivate quasi tutte passando il confine da clandestine, come prima di loro i compagni, dopo aver sfidato le fucilate delle guardie di frontiera, i posti di blocco della polizia, i divieti della dittatura di Isaias Afewerki che, di fronte all’esodo in massa dei giovani dal paese, ormai non consente più neanche gli spostamenti interni, da una città all’altra dell’Eritrea. E meno che mai verso le zone di confine.
Mogli e madri, ha spinto queste donne a fuggire e le ha sorrette fin dall’inizio, la speranza di riunire la famiglia. Ed è ancora questa speranza tenace che induce ogni coppia a non arrendersi: sia il coniuge che è già in Italia, sia quello ancora in Africa. “Ciascuno dei protagonisti di questa vicenda – racconta don Zerai – ha alle spalle una storia di patimenti e coraggio. Quando finalmente il coniuge o comunque il familiare arrivato per primo in Italia ha risolto la lunga, faticosa trafila prevista dalle pratiche di ricongiungimento ed ha ottenuto di farsi raggiungere dai suoi con un permesso ‘ufficiale’, è stata una festa. Sembrava fatta: non restava che inviare la documentazione all’ambasciata di Khartoum. Proprio qui, invece, è iniziata un’altra odissea. Della quale non si vede la fine. Pur prendendo atto del nulla osta al ricongiungimento rilasciato in Italia, i funzionari del consolato pare sollevino mille difficoltà, chiedendo dei documenti che spesso è impossibile procurarsi. In particolare l’attestato di matrimonio rilasciato dalla municipalità del paese d’origine del profugo o comunque dall’autorità ufficiale dello stato dove i due coniugi si sono sposati. O, ancora, un certificato di famiglia dove risultino i rapporti di parentela, il numero dei figli, ecc. Carte che devono poi essere tradotte e legalizzate dall’ambasciata italiana. Detto così sembra la cosa più semplice e normale del mondo. Solo che la maggior parte di quei giovani sono scappati dall’Eritrea, entrando in Sudan come rifugiati o richiedenti asilo. Nessuno di loro, al momento della fuga, aveva con sé il certificato di matrimonio. Anzi, spesso non avevano neanche i documenti. Solo qualcuno era munito di un passaporto o di una carta d’identità. E ovviamente, proprio perché profughi e perseguitati, non sono nella condizione di ottenere adesso alcun tipo di attestato in Eritrea”.
Ci sono anche giovani che si sono sposati in Sudan, prima che uno dei due riuscisse ad emigrare in Italia. Si sarebbe indotti a pensare che per questi è tutto più facile, perché possono richiedere i documenti necessari alle autorità di Khartoum. Molti lo hanno fatto, pagando tutte le tasse e i diritti amministrativi previsti: 750 sterline sudanesi (150 euro circa) per l’iscrizione nel registro matrimoniale della chiesa, 100 dollari per la trasmissione degli atti alla Corte Civile e alla municipalità, altre 200 sterline sudanesi per spese varie presso il ministero degli esteri. Tutta questa documentazione, però, non ha alcun valore legale per Asmara, che non riconosce i matrimoni tra eritrei contratti e formalizzati all’estero. Così si blocca tutto, perché quasi mai il consolato italiano, a quanto sostengono i profughi, ritiene sufficiente la registrazione del matrimonio in Sudan senza la “conferma” eritrea. Non solo. “Pochissimi di noi hanno il passaporto – si rileva nell’esposto indirizzato a Laura Boldrini – e l’ambasciata italiana rifiuta di fornire il visto a chi è munito soltanto della carta di rifugiato”.
Sembra un rompicapo privo di soluzioni. Costruito con richieste magari formalmente ineccepibili, ma impossibili da esaudire. A volte lo stop avrebbe motivazioni paradossali. Nell’esposto presentato alla presidente della Camera, ad esempio, viene citato il caso di una coppia che non riesce a riunirsi perché, pur essendosi sposata alla fine del 2012, la registrazione è slittata al gennaio 2013, come risulterebbe anche dai documenti “legalizzati” dall’ambasciata italiana di Asmara. “In questo modo – denuncia don Zerai – passano mesi e mesi, anni, senza poter trovare una via d’uscita”. E più passa il tempo, più si aggrava la posizione di questi profughi. In Sudan ci sono due tipi di permesso di soggiorno per gli stranieri: per lavoro, da rinnovare di anno in anno pagando una tassa di 4.500 sterline sudanesi; oppure per transito, con una validità massima di sei mesi. Essendo entrati nel paese con l’obiettivo di proseguire per l’Italia, quasi tutti hanno questo secondo tipo di documento.
“Le lungaggini e gli ostacoli creati dall’ambasciata italiana – afferma don Zerai riprendendo le segnalazioni dei portavoce dei profughi – stanno facendo saltare il tetto limite di sei mesi. Il rischio che si prospetta è enorme. Per gli stranieri sorpresi dalla polizia con il visto scaduto scatta l’arresto immediato. Dopo il carcere vengono avviati nei campi profughi. Gli eritrei, in particolare, in quello di Shagarab, a non grande distanza dal confine sud-orientale, diventato ormai un agglomerato enorme di baracche, tende, case di fortuna, dove vivono ammassate circa 15 mila persone (quasi la metà di tutti i rifugiati presenti nel Sudan) e dove fame, soprusi e violenza sono la norma quotidiana. Una tragedia infinita, con questa massa enorme di giovani abbandonati a se stessi per anni, senza possibilità di emigrare né di tornare indietro, perché in Eritrea li aspettano il carcere o addirittura la morte. Non è un caso che proprio da Shagarab parta la maggior parte di coloro che, affidandosi a finte guide al servizio di organizzazioni criminali internazionali, vengono rapiti e finiscono preda dei trafficanti di uomini. Il riscatto preteso per liberarli è arrivato ormai a 40 mila dollari. Quelli che non riescono a pagare sono messi in vendita: gli uomini diventano schiavi per il lavoro forzato, le ragazze prostitute schiave destinate allo sfruttamento sessuale in tutto il mondo. Oppure, uomini e donne, diventano una fonte inesauribile per i trapianti clandestini, sacrificati per alimentare il mercato degli organi”.
Ogni giorno perduto, dunque, può diventare fatale. “Ecco perché non si possono giustificare in alcun modo certe lungaggini”, protesta don Zerai. Ma quando qualcuno prova anche soltanto a chiedere spiegazioni – denunciano i profughi a Laura Boldrini – ai ritardi e agli ostacoli si aggiungono spesso violenze verbali e psicologiche da parte di qualche funzionario consolare di Khartoum. E un’assoluta mancanza di rispetto. Come nel caso di una giovane donna in stato di gravidanza che chiedeva se, per favorire il ricongiungimento col marito in Italia, fosse possibile per lei una procedura prioritaria, tenendo conto delle sue condizioni: anziché ascoltarla un impiegato le avrebbe risposto: “Non mi interessa. Io non so nemmeno se tuo figlio sia davvero il figlio di tuo marito”. E quando alcuni rifugiati, visto che un loro esposto non era stato accettato, sono andati all’ambasciata per cercare di essere ascoltati, lo stesso impiegato li avrebbe scacciati facendo intervenire la polizia.
“Laura Boldrini – afferma don Zerai – si è subito fatta carico del problema, promettendo di intervenire presso il ministero degli esteri ed eventualmente presso la stessa ambasciata a Khartoum. Ora l’importante è fare presto. In Sudan la situazione è esplosiva. Nei campi profughi ci sono più di 30 mila stranieri. Altri, a migliaia, vivono nelle principali città con permessi di lavoro. E continuano ad arrivare: mille al mese solo dall’Eritrea. La polizia, dunque, non fa sconti con gli irregolari: ha l’ordine di usare la linea dura. Gran parte di quei giovani eritrei bloccati da mesi ne sono terrorizzati: il loro visto temporaneo di soggiorno sta per scadere e non hanno la possibilità di rinnovarlo. Questa gente ha il diritto di entrare in Italia: i loro familiari hanno ottenuto il nulla osta per il ricongiungimento. Non si può continuare a rispondere ‘Non ci interessa’, come pare abbiano fatto più volte all’ambasciata italiana quando qualcuno ha prospettato il pericolo di restare senza documenti validi proprio a causa delle lungaggini burocratiche consolari. Ne va forse della vita stessa di oltre duecento ragazzi”. 

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