di Emilio Drudi
Aspettano da mesi di
venire in Italia, ma devono vedersela con una burocrazia ottusa, fatta di incomprensione
e diffidenza. E, forse, anche con qualche tacita disposizione “dall’alto” perché
venga adottata una linea di chiusura e respingimento. Poco importa se tutto
questo soffoca diritti consolidati, creando pesanti disagi, dolore,
ingiustizia. E’ quanto capita, denuncia l’agenzia Habeshia, ad oltre 200
giovani profughi del Corno d’Africa, in massima parte eritrei, ai quali verrebbe
negata di fatto la possibilità di ricongiungersi al marito o alla moglie già residente
nel nostro paese. Coppie condannate a restare divise, tra mille difficoltà, vittime
di una indifferenza che sa di violenza.
E’ una vicenda che
ha dell’incredibile. Al centro della contestazione è l’ambasciata italiana in
Sudan, messa sotto accusa da alcuni familiari dei migranti bloccati a Khartoum,
i quali, oltre ad essersi rivolti a don Mussie Zerai, il presidente di
Habeshia, hanno indirizzato un esposto a Laura Boldrini, l’ex portavoce del
Commissariato Onu per i rifugiati, eletta presidente della Camera due mesi fa.
“Nella speranza – spiega don Zerai – che abbia la forza di trasferire nel
Parlamento italiano la sensibilità che ha dimostrato in questi anni per i
problemi di tanti ‘ultimi della terra’ costretti a fuggire da guerra e
persecuzioni”. Non mancano gli uomini tra quei duecento disperati, ma la
maggior parte sono donne. Qualcuna con uno o più bambini. O in stato di
gravidanza. Sono arrivate quasi tutte passando il confine da clandestine, come
prima di loro i compagni, dopo aver sfidato le fucilate delle guardie di
frontiera, i posti di blocco della polizia, i divieti della dittatura di Isaias
Afewerki che, di fronte all’esodo in massa dei giovani dal paese, ormai non
consente più neanche gli spostamenti interni, da una città all’altra
dell’Eritrea. E meno che mai verso le zone di confine.
Mogli e madri, ha spinto
queste donne a fuggire e le ha sorrette fin dall’inizio, la speranza di riunire
la famiglia. Ed è ancora questa speranza tenace che induce ogni coppia a non
arrendersi: sia il coniuge che è già in Italia, sia quello ancora in Africa. “Ciascuno
dei protagonisti di questa vicenda – racconta don Zerai – ha alle spalle una
storia di patimenti e coraggio. Quando finalmente il coniuge o comunque il
familiare arrivato per primo in Italia ha risolto la lunga, faticosa trafila
prevista dalle pratiche di ricongiungimento ed ha ottenuto di farsi raggiungere
dai suoi con un permesso ‘ufficiale’, è stata una festa. Sembrava fatta: non
restava che inviare la documentazione all’ambasciata di Khartoum. Proprio qui,
invece, è iniziata un’altra odissea. Della quale non si vede la fine. Pur
prendendo atto del nulla osta al ricongiungimento rilasciato in Italia, i
funzionari del consolato pare sollevino mille difficoltà, chiedendo dei
documenti che spesso è impossibile procurarsi. In particolare l’attestato di
matrimonio rilasciato dalla municipalità del paese d’origine del profugo o
comunque dall’autorità ufficiale dello stato dove i due coniugi si sono
sposati. O, ancora, un certificato di famiglia dove risultino i rapporti di
parentela, il numero dei figli, ecc. Carte che devono poi essere tradotte e
legalizzate dall’ambasciata italiana. Detto così sembra la cosa più semplice e
normale del mondo. Solo che la maggior parte di quei giovani sono scappati
dall’Eritrea, entrando in Sudan come rifugiati o richiedenti asilo. Nessuno di
loro, al momento della fuga, aveva con sé il certificato di matrimonio. Anzi,
spesso non avevano neanche i documenti. Solo qualcuno era munito di un
passaporto o di una carta d’identità. E ovviamente, proprio perché profughi e
perseguitati, non sono nella condizione di ottenere adesso alcun tipo di attestato
in Eritrea”.
Ci sono anche
giovani che si sono sposati in Sudan, prima che uno dei due riuscisse ad
emigrare in Italia. Si sarebbe indotti a pensare che per questi è tutto più
facile, perché possono richiedere i documenti necessari alle autorità di
Khartoum. Molti lo hanno fatto, pagando tutte le tasse e i diritti
amministrativi previsti: 750 sterline sudanesi (150 euro circa) per
l’iscrizione nel registro matrimoniale della chiesa, 100 dollari per la
trasmissione degli atti alla Corte Civile e alla municipalità, altre 200
sterline sudanesi per spese varie presso il ministero degli esteri. Tutta
questa documentazione, però, non ha alcun valore legale per Asmara, che non
riconosce i matrimoni tra eritrei contratti e formalizzati all’estero. Così si blocca
tutto, perché quasi mai il consolato italiano, a quanto sostengono i profughi, ritiene
sufficiente la registrazione del matrimonio in Sudan senza la “conferma”
eritrea. Non solo. “Pochissimi di noi hanno il passaporto – si rileva
nell’esposto indirizzato a Laura Boldrini – e l’ambasciata italiana rifiuta di
fornire il visto a chi è munito soltanto della carta di rifugiato”.
Sembra un rompicapo privo
di soluzioni. Costruito con richieste magari formalmente ineccepibili, ma
impossibili da esaudire. A volte lo stop avrebbe motivazioni paradossali. Nell’esposto
presentato alla presidente della Camera, ad esempio, viene citato il caso di
una coppia che non riesce a riunirsi perché, pur essendosi sposata alla fine
del 2012, la registrazione è slittata al gennaio 2013, come risulterebbe anche
dai documenti “legalizzati” dall’ambasciata italiana di Asmara. “In questo modo
– denuncia don Zerai – passano mesi e mesi, anni, senza poter trovare una via
d’uscita”. E più passa il tempo, più si aggrava la posizione di questi
profughi. In Sudan ci sono due tipi di permesso di soggiorno per gli stranieri:
per lavoro, da rinnovare di anno in anno pagando una tassa di 4.500 sterline
sudanesi; oppure per transito, con una validità massima di sei mesi. Essendo
entrati nel paese con l’obiettivo di proseguire per l’Italia, quasi tutti hanno
questo secondo tipo di documento.
“Le lungaggini e gli
ostacoli creati dall’ambasciata italiana – afferma don Zerai riprendendo le
segnalazioni dei portavoce dei profughi – stanno facendo saltare il tetto limite
di sei mesi. Il rischio che si prospetta è enorme. Per gli stranieri sorpresi
dalla polizia con il visto scaduto scatta l’arresto immediato. Dopo il carcere
vengono avviati nei campi profughi. Gli eritrei, in particolare, in quello di
Shagarab, a non grande distanza dal confine sud-orientale, diventato ormai un
agglomerato enorme di baracche, tende, case di fortuna, dove vivono ammassate circa
15 mila persone (quasi la metà di tutti i rifugiati presenti nel Sudan) e dove
fame, soprusi e violenza sono la norma quotidiana. Una tragedia infinita, con
questa massa enorme di giovani abbandonati a se stessi per anni, senza
possibilità di emigrare né di tornare indietro, perché in Eritrea li aspettano
il carcere o addirittura la morte. Non è un caso che proprio da Shagarab parta
la maggior parte di coloro che, affidandosi a finte guide al servizio di
organizzazioni criminali internazionali, vengono rapiti e finiscono preda dei
trafficanti di uomini. Il riscatto preteso per liberarli è arrivato ormai a 40
mila dollari. Quelli che non riescono a pagare sono messi in vendita: gli
uomini diventano schiavi per il lavoro forzato, le ragazze prostitute schiave
destinate allo sfruttamento sessuale in tutto il mondo. Oppure, uomini e donne,
diventano una fonte inesauribile per i trapianti clandestini, sacrificati per
alimentare il mercato degli organi”.
Ogni giorno perduto,
dunque, può diventare fatale. “Ecco perché non si possono giustificare in alcun
modo certe lungaggini”, protesta don Zerai. Ma quando qualcuno prova anche
soltanto a chiedere spiegazioni – denunciano i profughi a Laura Boldrini – ai
ritardi e agli ostacoli si aggiungono spesso violenze verbali e psicologiche da
parte di qualche funzionario consolare di Khartoum. E un’assoluta mancanza di
rispetto. Come nel caso di una giovane donna in stato di gravidanza che
chiedeva se, per favorire il ricongiungimento col marito in Italia, fosse
possibile per lei una procedura prioritaria, tenendo conto delle sue condizioni:
anziché ascoltarla un impiegato le avrebbe risposto: “Non mi interessa. Io non
so nemmeno se tuo figlio sia davvero il figlio di tuo marito”. E quando alcuni
rifugiati, visto che un loro esposto non era stato accettato, sono andati
all’ambasciata per cercare di essere ascoltati, lo stesso impiegato li avrebbe
scacciati facendo intervenire la polizia.
“Laura Boldrini –
afferma don Zerai – si è subito fatta carico del problema, promettendo di
intervenire presso il ministero degli esteri ed eventualmente presso la stessa
ambasciata a Khartoum. Ora l’importante è fare presto. In Sudan la situazione è
esplosiva. Nei campi profughi ci sono più di 30 mila stranieri. Altri, a
migliaia, vivono nelle principali città con permessi di lavoro. E continuano ad
arrivare: mille al mese solo dall’Eritrea. La polizia, dunque, non fa sconti
con gli irregolari: ha l’ordine di usare la linea dura. Gran parte di quei giovani
eritrei bloccati da mesi ne sono terrorizzati: il loro visto temporaneo di
soggiorno sta per scadere e non hanno la possibilità di rinnovarlo. Questa
gente ha il diritto di entrare in Italia: i loro familiari hanno ottenuto il
nulla osta per il ricongiungimento. Non si può continuare a rispondere ‘Non ci
interessa’, come pare abbiano fatto più volte all’ambasciata italiana quando qualcuno
ha prospettato il pericolo di restare senza documenti validi proprio a causa
delle lungaggini burocratiche consolari. Ne va forse della vita stessa di oltre
duecento ragazzi”.
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