di Emilio Drudi
“Una strage. Sembra
quasi che debba accadere una strage per indurre ‘chi conta’ a intervenire. Non
bastano i feriti e le vittime che, purtroppo, già ci sono stati”. Don Mussie
Zerai, il presidente dell’agenzia Habeshia, trattiene a stento l’indignazione
quando denuncia la nuova emergenza esplosa in Libia, nella regione della Sirte,
nell’indifferenza delle cancellerie europee e, più in generale, della comunità
internazionale. Sono terribili le notizie che gli arrivano dal campo di
detenzione per profughi e migranti organizzato alla periferia di Sirte, la
città di Gheddafi, ai margini del deserto. I prigionieri sono costretti a
“bonificare” la grande pianura stepposa dalle mine e da altri ordigni inesplosi
lasciati dalla guerra intorno all’area urbana. A mani nude e senza alcuna
preparazione. Improvvisando alla meglio e contando solo sulla fortuna. Chi si
rifiuta viene massacrato di botte.
“Non volevo quasi
credere alle prime telefonate che mi segnalavano questo orrore – racconta don
Zerai – Ma ho dovuto convincermi che quanto raccontavano quei disperati è tutto
vero. Qualcuno di loro è riuscito a nascondere un cellulare al momento
dell’arresto. E’ l’unico mezzo che hanno per comunicare con l’esterno. Per
eludere la sorveglianza telefonano di notte o chiudendosi nel gabinetto. Oppure
mentre i compagni cercano di distrarre le guardie con qualche pretesto. Ne
vengono fuori racconti da far tremare”.
Nel campo – uno dei
tanti che l’ipocrisia europea chiama centri di accoglienza e che sono in realtà
autentici lager – sono ospitati tra i 150 e i 200 rifugiati, uomini e donne.
Una sessantina sono eritrei. Poi somali, etiopi, sudanesi, maliani e fuggiaschi
da altri paesi sub sahariani. La gestione e la custodia sono in pratica in mano
ai miliziani islamici fondamentalisti, anche se formalmente dipendono dalle
autorità governative. Ed è dei miliziani, appunto, l’iniziativa di utilizzare i
profughi come sminatori. In questa zona la guerra è stata feroce. Il fronte si
è fermato a lungo tra la costa e il deserto, con i rivoluzionari che,
provenienti da est, cercavano di puntare su Tripoli e le truppe di Gheddafi
mobilitate per respingerli. Sirte era una città chiave, quasi a metà strada tra
Bengasi, la capitale dei ribelli, e Tripoli, la capitale politica del regime. E
anche una città simbolo, perché qui era nato e si era formato Gheddafi, qui il
rais contava migliaia di fedelissimi. I combattimenti durissimi che ci sono
stati per controllarla continuano ad uccidere con le mine e i proiettili
inesplosi disseminati ovunque nella periferia urbana e, soprattutto, nei campi
e nel deserto tutt’intorno. Così i miliziani – raccontano le disperate
telefonate giunte a don Zerai – hanno deciso di usare i loro prigionieri come
carne da cannone per “ripulire” il terreno: devono essere loro, queste non
persone private di ogni diritto, a cercare, individuare e rimuovere le bombe.
Come schiavi mandati al macello.
“Ogni mattina –
specifica don Zerai, riferendo il disperato grido di aiuto di quei giovani
dimenticati da tutti – le guardie scelgono un gruppo di prigionieri. Qualche
decina. In genere soltanto uomini. Li inquadrano e li portano nei campi minati.
E’ impossibile rifiutarsi. Chi si oppone viene frustato con tranci di grossi
cavi elettrici. Il massacro continua fino a che il malcapitato cede o cade a
terra svenuto, con le carni dilaniate dai colpi. In quel deserto c’è nascosto
di tutto sotto la sabbia: mine antiuomo, mine anticarro, proiettili pronti ad esplodere,
bombe trappola. I profughi vengono costretti a cercare gli ordigni a mani nude,
senza alcuna esperienza. I militari li sorvegliano a distanza, con le armi
spianate e le fruste in pugno. Non c’è alternativa per i prigionieri: prendersi
una fucilata o una bastonatura mortale oppure tentare la sorte con le mine. Va
avanti così per ore. E qualcuno ci ha già rimesso la vita. Mi hanno raccontato
di almeno sei giovani saltati in aria: due sono morti, gli altri sono rimasti
feriti ma non ricevono cure adeguate. Qualcuno è stato portato in ospedale, ma
quelli meno gravi sono dovuti rientrare al campo. Ogni mattina si ricomincia.
Magari non scegliendo sempre gli stessi, ma si ricomincia. Così è un incubo
continuo. Appena si sveglia, ogni prigioniero sa che, se viene selezionato per
la squadra di schiavi sminatori, deve scegliere se rischiare di saltare in aria
o finire massacrato di botte. Qualcuno, mi hanno raccontato, si è suicidato per
la disperazione. D’altra parte sono in tanti ormai ad aver perso ogni speranza.
Quei ragazzi sono scappati da dittature e persecuzioni, sperando di conquistare
libertà e dignità. Sono finiti, invece, in lager terribili. E l’unico futuro
che vedono giorno per giorno è un lungo, interminabile tunnel nero di soprusi e
sofferenze. Non solo a Sirte, dove si sta consumando questa atrocità. Tutti i
centri di detenzione libici sono un inferno, anche se l’uso di schiavi da usare
come sminatori improvvisati finora è stato segnalato soltanto lì, nel deserto
della Sirte”.
Proprio questi campi
sono stati al centro del voluminoso, documentatissimo dossier di soprusi
consegnato da don Zerai, a nome dell’agenzia Habeshia, alle commissioni europee
per gli affari interni e per i diritti umani. C’è stata un’apposita audizione a
Bruxelles, con l’impegno, da parte dei vertici dell’Unione Europea, di
istituire delle commissioni da inviare in Nord Africa e di fare pressioni sui
singoli governi nazionali della Ue – a cominciare dall’Italia – per recedere
dagli accordi bilaterali che hanno affidato alla Libia il compito di “gendarme
del Mediterraneo” per arginare l’emigrazione verso le coste italiane, francesi,
spagnole, greche.
“Da allora, era
l’ottobre del 2012 – denuncia don Zerai – non si è mosso nulla. Intanto la
situazione continua a peggiorare. In tutti i 22 centri di detenzione libici e,
in particolare, proprio in quelli indicati nel dossier come i più duri e
disumani. Il campo di Sheba, ad esempio, una struttura aperta in pieno deserto,
nel centro del paese, è così affollato che in celle di 40-50 metri quadrati
vengono ammassati un centinaio di prigionieri. Meno di un metro quadrato a
testa, quasi senza servizi, con pochissima acqua, cibo scarso e spesso
immangiabile. ‘Siamo costretti a dormire a turno, perché non c’è spazio
sufficiente per stare sdraiati tutti insieme’, mi ha telefonato piangendo
qualche notte fa un ragazzo eritreo. E un altro: ‘La nostra giornata è sempre
la stessa: botte, umiliazioni e frustate senza alcun motivo. Basta un pretesto
qualsiasi per scatenare la violenza. Magari un’occhiata. O una lamentela per il
pane ammuffito o l’acqua che manca anche per dissetarsi’. Anche solo per
telefonare ci vuole coraggio. E’ pericolosissimo. Chi viene sorpreso con un
cellulare subisce un pestaggio tremendo. L’ultimo che mi ha contattato sapeva
di rischiare tantissimo, ma telefonare per chiedere aiuto è rimasto ormai
l’unico lumicino che tiene in vita quei poveretti. Ha raccontato che è riuscito
a chiamare con la complicità di altri detenuti: qualcuno ha distratto
l’attenzione del miliziano di guardia; altri, fingendo di conversare tra di
loro, hanno fatto cerchia in piedi intorno a lui che, accovacciato a terra col
telefonino nascosto nel palmo della mano, si è messo in comunicazione con me
per qualche minuto. Mi ha detto che i pestaggi sono così violenti che qualcuno
non riesce più ad alzarsi per giorni. A parte gli amici, nessuno se ne prende
cura. Così come nessuno si prende cura dei malati. Ogni tanto arriva un medico,
ma il più delle volte non entra nemmeno nelle celle: si limita a scambiare
qualche parola con il prigioniero che dovrebbe assistere attraverso la porta
socchiusa o il finestrino della cella e poi magari prescrive qualche anti
dolorifico. Nient’altro. Ciò che accade a Sheba si ripete, a quanto mi dicono,
anche negli altri centri di detenzione, come quelli di Twaisha e Sibrata nei
sobborghi di Tripoli, a Bengasi, Gianfuda, Homs, Mishrata, Kufra… E’ terribile.
Sarebbe terribile anche se fossero fondate appena un decimo delle denunce che
mi arrivano. Ma l’Unione Europea continua a ignorare tutto questo”.
Eppure sono state
inviate delle commissioni in Libia. E a Tripoli opera l’organizzazione Onu per
i rifugiati.
“E’ vero – insiste
don Zerai – a Tripoli c’è il Commissariato Onu per i rifugiati, ma non mi
risulta che i suoi funzionari possano muoversi liberamente per fare ispezioni
vere nei centri di detenzione, senza permessi preventivi e senza l’intervento
di rappresentanti del governo libico. Lo stesso accade per i delegati inviati
da Bruxelles i quali, oltre tutto, non arrivano in Libia per indagare a tutto
campo, ma solo per verificare che i contributi elargiti a Tripoli vengano
impegnati nel modo più corretto possibile. Così il governo ha gioco facile:
porta i commissari a visitare certe realtà tenute abbastanza bene, magari
sistemate appositamente in vista dell’ispezione, e poi tutto va avanti come
prima. Ecco perché dopo l’audizione di Bruxelles non è cambiato nulla. C’è
stata, anzi, una escalation di violenze, fino al caso degli schiavi sminatori
di Sirte. Ne è stato informato anche il Commissariato dell’Onu. Io stesso
gliel’ho segnalato. Ora spero che almeno questo induca a fare qualcosa che vada
molto al di là dei controlli di routine”.
Vista l’inerzia
seguita all’audizione di Bruxelles dedicata espressamente ai centri di
detenzione libici, c’è da chiedersi a questo punto che cosa si può fare.
Don Zerai: “Io vedo
solo due strade. La prima è che l’Unione Europea istituisca una vera
commissione d’inchiesta e controllo con poteri ampi, pretendendo dal governo
libico che i suoi componenti abbiano piena libertà di movimento in tutto il
paese e di accesso ad ogni centro di detenzione e ad ogni carcere dove ci sono
profughi e migranti tra i prigionieri. Insomma, ispezioni vere, con la
minaccia, in caso contrario, di tagliare tutti i finanziamenti e i contributi
che continuano ad essere stanziati per i cosiddetti campi di accoglienza e per
l’assistenza agli stranieri presenti nel paese. Anzi, meglio ancora, di
revocare tutti i trattati di collaborazione. Inclusi quelli economici. E qui,
secondo punto, entra in ballo la politica degli accordi stipulati con Tripoli
dalla Ue e da diversi governi nazionali. L’Europa ha delegato alla polizia
libica il controllo dell’emigrazione nel Mediterraneo. Ha spostato di fatto le
sue frontiere sulla sponda sud, oltre il canale di Sicilia, e a guardia ci ha
messo la Libia, fornendole anche i mezzi: armi, istruttori, navi. Lo sanno
tutti che Tripoli non ha mai firmato le convenzioni internazionali per il
rispetto dei diritti umani e, in particolare, di quelli dei rifugiati e dei
migranti. Ma, a quanto pare, non interessa. Ciò che conta, per l’Europa, è che
quella frontiera resti sbarrata. E fare affari. Non importa come e a che
prezzo. Non interessa se questa chiusura provoca ogni giorno morti,
maltrattamenti, carcerazioni illegali, torture, riduzione in schiavitù.
L’importante è che non passi nessuno o comunque meno migranti possibile. Non
credo di essere lontano dal vero a dire che questo è un crimine contro
l’umanità. L’Europa e i governi europei che, come l’Italia, hanno stipulato
trattati bilaterali con Tripoli, non possono chiamarsi fuori soltanto perché
tutto questo accade sull’altra sponda del Mediterraneo. Sono complici, se non
mandanti, di questa tragedia. E continueranno ad esserlo finché questa politica
sull’emigrazione non verrà revocata”.
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