di Emilio Drudi
“Sono andati laggiù
col pretesto di identificare i morti ma, in realtà, per identificare i vivi”:
gli eritrei della diaspora, le associazioni dei rifugiati e i movimenti di
opposizione al regime, non sembrano avere dubbi sulla visita a Lampedusa da
parte di Zemede Tekle, ambasciatore di Asmara a Roma. Il diplomatico si è
recato sull’isola a dieci giorni di distanza dalla tragedia. Come primo atto ha
cercato di avvicinare i superstiti, direttamente o attraverso i funzionari del
suo seguito.
C’è stata una tragedia
enorme, con centinaia di vite perdute: sembrerebbe normale che un ambasciatore
senta il dovere di accorrere ad ascoltare, a portare una parola e un gesto di
solidarietà ai connazionali che ne sono stati travolti. Solo che quei
disperati, i morti e i sopravvissuti, fuggivano e fuggono ancora proprio dal
regime che quel diplomatico rappresenta. E’ lui, in Italia, il volto del
governo che quella gente rifiuta. E infatti quasi tutti non hanno voluto
ascoltarlo, denunciando senza esitazioni che dalla loro ambasciata vogliono
tenersi lontani: non ne riconoscono la legittimità così come non riconoscono la
legittimità della dittatura di Iasaias Afewerki che li ha costretti a fuggire
per sottrarsi a persecuzioni e carcere, fame e guerra. Zemede Tekle, in una intervista
televisiva, ha negato di essere stato “rifiutato”. Ha sottolineato, anzi, di
essere stato accolto a Lampedusa con simpatia e riconoscenza dai rifugiati ed
ha assicurato che il suo governo si farà carico di riportare in Eritrea tutte
le salme, come gli hanno chiesto i familiari delle vittime. Ma la diaspora
insiste: “Quando si sono resi conto di chi avevano di fronte – riferiscono Miriam
e Tseghehans, due giovani esuli, esponenti del movimento Eritrean Youth
Solidarity for Change (Eysc), che dopo la sciagura si sono precipitati a Roma
da Francoforte e Milano – i nostri fratelli lo hanno allontanato. Lui e quelli
che erano con lui”.
In effetti, ci
sarebbe da stupirsi del contrario: se cioè avessero accolto l’ambasciatore con
fiducia e amicizia. Proprio perché si tratta di esuli e richiedenti asilo. Lo
sapeva bene anche lo stesso Zemede Tekle. Ma allora perché è andato? Non
subito, oltretutto, ma diversi giorni dopo. L’opinione più diffusa è che si
tratti di un tentativo di controllare e prevenire gli effetti della “bomba” che
rischia di diventare per Asmara la tragedia di Lampedusa. La notizia in
Eritreea è stata inizialmente sottaciuta o comunque almeno in parte travisata:
si è detto di un naufragio di migranti africani irregolari, tra i quali anche
alcuni eritrei. Ma altroché “alcuni eritrei”: a parte due sudanesi e sei
somali, i morti sembra siano eritrei quasi tutti, ben 357 su 365. Una
cinquantina sono stati già identificati dai familiari e quasi altrettanti dai
compagni che erano sul barcone affondato, ma anche quelli ancora senza nome
sono giovani scappati dall’Eritrea. Lo affermano i sopravvissuti: si
conoscevano e hanno percorso insieme l’ultimo tratto del cammino della speranza
verso l’Europa, dal concentramento nel porto di partenza, in Libia, all’imbarco
e poi alla traversata fino a mezzo miglio da Lampedusa.
Forse è la più grave
catastrofe degli ultimi anni per la popolazione eritrea. “E’ una strage nata
dalle condizioni invivibili in cui è precipitato il paese – dicono vari
esponenti della diaspora – Quei morti sono un autentico, pesante atto d’accusa
contro il regime. I funerali di stato in Italia si sono rivelati una promessa
vuota, nonostante l’impegno fosse stato preso ai livelli più alti: dal premier
Letta e dai ministri Alfano e Bonino. Tuttavia se prima o poi, come chiedono in
molti, si riuscirà a riportare in Eritrea, tutti insieme, questi poveri morti
per seppellirli, sempre tutti insieme, nella loro terra, quel cimitero
diventerà un sacrario: una specie di monumento alla sofferenza della
popolazione ed una denuncia permanente della dittatura che ha costretto a
fuggire quei disperati e ne ha fatto degli esuli, portandoli a trovare la morte
in fondo al mare di Lampedusa. I luoghi parlano. Questo ‘luogo’ racconterà per
sempre cosa accade oggi nel nostro paese. E potrebbe essere il primo passo per
il cambiamento: l’inizio del nostro risorgimento e, dunque, l’inizio della fine
del regime”.
Messa così si
spiegherebbe l’iniziativa dell’ambasciatore: potrebbe essere il tentativo di
dimostrare che quei giovani, uomini e donne, non sarebbero profughi scappati
dalla dittatura ma semplici migranti irregolari, incappati in una storia più
grande di loro e pronti ad accettare l’aiuto e la solidarietà del loro governo.
In modo da far passare l’idea, in caso di nuovi sbarchi, che gli eritrei non
vengono in Europa per sfuggire alla persecuzione e alla guerra, ma solo come
immigrati in cerca di lavoro e, dunque, da respingere e rimpatriare dopo il
primo soccorso. L’opposto di quanto è accaduto finora, visto che ad oltre il 75
per cento degli eritrei giunti in Occidente è stata riconosciuta una forma di
protezione internazionale. Potrebbe rientrare in questo contesto anche il
tentativo di identificare e fotografare i superstiti. “Conoscendone l’identità
– spiegano Miriam e Tseghehans – la polizia può risalire facilmente ai loro
familiari e usarli quasi come ostaggi per ricattare i fuoriusciti, con la
minaccia di ritorsioni, incriminazioni, imprigionamenti. I profughi lo sanno
bene: è un modo per imbavagliarli e soffocare l’opposizione interna ed esterna.
Per questo rifiutano qualsiasi contatto con l’ambasciata e, nella fattispecie,
contestano la visita di Zemede Tekle a Lampedusa”.
Una conferma di una possibile
strategia di questo genere da parte di Asmara tramite i suoi uffici diplomatici
di Roma, viene dal fatto che quasi in contemporanea col viaggio dell’ambasciatore
a Lampedusa, Derres Araia, delegato in Italia dei migranti eritrei fedeli al
regime, è riuscito a farsi ricevere dal ministro Cecile Kyenge proprio per
parlare del naufragio. In particolare, per risolvere il problema del rientro
delle salme. Parlando col ministro, come riferiscono le agenzie, “ha chiesto a
nome delle famiglie di poter riavere i corpi” delle vittime, assicurando che
Asmara “ha già dato disposizione per affrontare le spese di trasporto e
l’assistenza necessaria”. Ma quali salme? “Per quanto se ne sa – protestano vari
portavoce della diaspora – soltanto quelle delle persone identificate, in modo
da seppellirle singolarmente, dopo averle consegnate ai parenti. Le altre non
vengono prese in considerazione: si dice in sostanza che, senza identificazioni
certe e conferme ufficiali, non ci sono prove che si tratti di eritrei. Non
basta la testimonianza dei compagni sopravvissuti”.
Se è così,
l’obiettivo appare evidente: far decantare l’emozione suscitata dalla strage in
Italia e, soprattutto, evitare il rientro e la sepoltura collettiva in un unico
luogo simbolo. “Perché un sacrario così fa paura”, insistono gli oppositori del
regime, aggiungendo: “Derres Araia ha detto al ministro di parlare a nome delle
famiglie delle vittime. Ma i profughi e le loro famiglie fanno riferimento alla
comunità degli eritrei della diaspora contrari al regime, mentre il gruppo
rappresentato da Araia è tutt’altra cosa: non ha niente a che fare, in pratica,
con gli esuli di Lampedusa, ma c’è da dubitare che lo abbia fatto capire al
ministro”.
Don Mussie Zerai, il
portavoce dell’agenzia Habeshia, è particolarmente duro su questo aspetto: chiama
in causa Cecile Kyenge e chiede al governo italiano di seguire la situazione con
molta più cautela e cognizione: “Il ministro Kyenge sembra non sapere con chi
ha parlato. Quelli che si sono presentati come esponenti della Comunità Eritrea
sono in realtà i sostenitori di Isaias Afewerki. Ma come è possibile non fare
distinzioni tra i rifugiati e il regime o i suoi adepti? Derres Araia è uno dei
più accaniti fan dell’attuale governo di Asmara. Più volte, ad esempio, è
venuto a disturbare le conferenze nelle quali denunciavamo le malefatte e le
prepotenze del potere. E mentre lui veniva ricevuto al ministero, mi risulta
che funzionari dell’ambasciata eritrea, incluso lo stesso ambasciatore,
giravano indisturbati a Lampedusa, cercando di incontrare i richiedenti asilo,
chiedendo l’elenco dei loro nomi, fotografandoli. Non mi sembra una coincidenza
casuale. Alla luce di tutto questo mi riesce difficile capire come il ministro
Kyenge possa aver manifestato ‘un’ampia disponibilità a collaborare’. In
particolare per gli interventi a favore dei giovani. E’assurdo, difatti,
ignorare che in realtà la prospettiva di ogni giovane eritreo, uomo o donna non
fa differenza, è quella di essere costretto ad entrare nell’esercito a 16 anni
e a restarci sino a 40-50 anni di età. Una vita intera da militari a servizio
del regime. Anzi, dei ras del regime. Anche per questo sono così tanti a
scappare. Allora non ha senso piangere i morti di Lampedusa e magari le
centinaia di altri scomparsi nel Mediterraneo con meno clamore e poi aprire vie
di collaborazione con gli esponenti della dittatura che è alla radice di queste
tragedie: che i giovani come quelli annegati nel mare italiano li sequestra per
quasi tutta la vita e li getta in galera o peggio se cercano di ribellarsi. E
ha ancora meno senso che, fatti saltare i funerali di stato promessi, alla
frettolosa, raffazzonata cerimonia indetta ad Agrigento per ricordare le
vittime, il governo italiano abbia invitato anche l’ambasciatore Zemede Tekle,
uno dei rappresentanti di questa dittatura”.