di Emilio Drudi
Carne da cannone. E’
l’ultimo capitolo della tragedia dei profughi in Libia. Decine, centinaia di
giovani fuggiti dal Corno d’Africa o dall’Africa sub sahariana vengono
sequestrati da miliziani delle varie fazioni in lotta e costretti a trasportare
in battaglia armi, munizioni e rifornimenti, fin sulla linea del fuoco. Come
schiavi.
A darne notizia, nel
silenzio della politica e dei media, è stata ancora una volta l’agenzia
Habeshia, alla quale stanno pervenendo da giorni disperate richieste di aiuto.
Telefonate analoghe sono poi arrivate ad alcuni esponenti della diaspora
eritrea in Europa: la maggior parte delle vittime di questo nuovo orrore,
infatti, sono ragazzi che hanno scelto l’esilio per sottrarsi alla dittatura di
Asmara. E parecchi di loro sarebbero rimasti uccisi nei combattimenti ai quali
sono costretti a partecipare come “ausiliari forzati”, presi tra le armi
puntate alla schiena dai loro aguzzini e le raffiche sparate dalle altre bande.
“Secondo segnalazioni provenienti da varie parti del territorio libico –
racconta don Mussie Zerai, il presidente dell’agenzia – ci sono già numerosi
feriti e sicuramente anche dei morti, come si evince da varie testimonianze
dirette e dal fatto che di molti giovani sequestrati si è persa ogni traccia:
c’è da pensare che siano spariti nella fornace di una guerra che non hanno
scelto e che non li riguarda”.
Non è la prima volta
che in Libia i profughi subiscono questo martirio. Un precedente significativo
risale all’inizio del 2012, oltre due anni fa. E’successo a Cufra, la
città-oasi del Fezzan, duramente contesa tra le varie forze in campo fin
dall’inizio della rivoluzione a causa della sua importante posizione
strategica: è il primo grosso insediamento che si incontra venendo dal confine
sahariano, con una potente base militare e un grosso centro di detenzione per i
migranti intercettati nel deserto, allestito in una vecchia caserma e attivo
fin dai tempi di Gheddafi. Il rais era caduto da pochi mesi e le milizie
irregolari dei ribelli già combattevano tra di loro e contro l’esercito
regolare. Un gruppo armato fece irruzione nell’ex caserma e prelevò alcuni dei prigionieri
ammassati negli stanzoni-cella, costringendoli poi a seguirli in battaglia come
“portatori” di granate, nastri di mitragliatrice, cassette di proiettili. Altri
furono obbligati a scaricare camion di munizioni sotto i bombardamenti di
formazioni rivali.
Un caso forse ancora
più crudele si è registrato nell’aprile del 2013 a Sirte, la città di Gheddafi.
Numerosi profughi detenuti nel lager della zona sono stati utilizzati come
sminatori: costretti a bonificare la pianura costiera dai proiettili inesplosi,
dalle mine, dagli ordigni di ogni tipo lasciati dalla guerra civile, che qui ha
registrato alcune delle battaglie più furiose durante l’avanzata dei ribelli
verso Tripoli. Un’autentica tortura per ragazzi assolutamente inesperti e privi
di qualsiasi attrezzatura o assistenza. “Ogni risveglio era un incubo – ha
raccontato un testimone – Poteva capitare a chiunque di noi di essere mandato a
sminare il terreno sabbioso a mani nude… Più di qualcuno la sera non è
rientrato. Ci dicevano che i feriti venivano portati in ospedale. Ma in genere
non ne abbiamo più avuto notizia. Era una sfida quotidiana con la morte. Ma era
impossibile sottrarsi: chi si rifiutava veniva picchiato a sangue o rischiava
di essere passato per le armi”.
La stessa “tecnica”
viene adottata ora: pestaggi feroci e minacce di morte per chi prova a
resistere. In più, adesso, il ricorso ai “portatori-schiavi” non riguarda casi
isolati ma, a quanto pare, è diventato sistematico. Accade ormai da più di due
settimane. Da quando, in pratica, si sono intensificati gli scontri nella
guerra di tutti contro tutti che, iniziata all’indomani della rivolta anti
Gheddafi, rischia di cancellare il Paese stesso. La prima segnalazione è stata
fatta verso la fine di luglio a Tripoli, durante i combattimenti per il
controllo della zona aeroportuale. Diversi testimoni hanno telefonato
all’agenzia Habeshia raccontando che decine di giovani erano stati prelevati
nelle loro case o bloccati per strada, mentre cercavano di fuggire dalle zone a
rischio, da uomini armati che li hanno obbligati a seguirli in battaglia come
“ausiliari forzati”. Don Zerai ha immediatamente sollecitato a intervenire la
comunità internazionale. Si è rivolto al Commissariato Onu per i rifugiati,
all’Unione Europea, agli Stati Uniti, a varie cancellerie occidentali. “Così come
si sta organizzando l’evacuazione dei cittadini europei e americani presenti in
Libia per sottrarli ai rischi della guerra – ha scritto – occorre nello stesso
tempo portare in salvo i profughi, a cominciare da quelli più esposti alle
angherie dei miliziani, che possono disporre della loro stessa vita, che spesso
non nascondono un disprezzo razzista nei confronti di tutti gli africani ‘neri’
e che non esitano a uccidere al minimo cenno di resistenza”.
Non ci sono state
risposte. Silenzio assoluto. Nel frattempo la situazione è peggiorata rapidamente,
allargandosi a buona parte dei fronti di combattimento. Il caso più grave è
segnalato a Misurata, sulla costa. Nella zona periferica di Bilkaria, nella ex
scuola di Kalelarim, è stato allestito un centro di detenzione provvisorio dove
sono rinchiusi centinaia tra uomini, donne e bambini, quasi tutti eritrei,
sorpresi in varie fasi nel deserto mentre cercavano di raggiungere Tripoli,
circa 200 chilometri più a ovest. Sono stati catturati spesso in circostanze
drammatiche: per bloccarli la polizia o i miliziani non hanno esitato a
sparare, tanto che ci sono stati due morti e diversi feriti. I primi
prigionieri sono arrivati circa due mesi e mezzo fa e il flusso non si è mai
interrotto. Si è così formato un grosso nucleo iniziale di 405 uomini, 103 donne
e 18 bambini, via via cresciuti con nuovi arrivi nell’ultimo mese. Oggi i
prigionieri sono circa 700, costretti a vivere in condizioni estreme:
maltrattamenti, soprusi, degrado, poco cibo e di pessima qualità, scarsissima
persino l’acqua da bere. E nessun tipo di assistenza, neanche per i malati e
per i feriti, affidati unicamente alle cure di un paramedico che si fa vedere
una sola volta alla settimana. Un lager che continua a riempirsi di disperati.
E ora i miliziani ne hanno fatto una riserva inesauribile di portatori-schiavi
di armi e munizioni in tutti gli scontri che sconvolgono la regione. La
“tratta” è cominciata con un gruppo di ben 225 giovani, tutti uomini. Li hanno
prelevato asserendo che sarebbero stati portati a lavorare: sono finiti,
invece, in mezzo alla guerra. Per settimane non se ne è saputo più nulla, fino
a che, qualche giorno fa, sono tornati al campo sette ragazzi feriti, i quali
hanno raccontato l’orrore vissuto, riferendo anche che diversi loro compagni
sono rimasti uccisi. Ma non è finita: i miliziani hanno sostituito i sette
feriti con altri 61 prigionieri. Di loro non si ha più notizia da quando hanno
lasciato il carcere.
“E’ l’ennesimo
crimine che si sta commettendo sulla pelle di profughi e richiedenti asilo
abbandonati da tutti – protesta don Zerai – Nessuno si preoccupa di tutelare i
loro diritti, a partire da quelli alla vita stessa e alla libertà. Ne devono
certamente rispondere i miliziani che li stanno schiavizzando, ma pesanti
responsabilità, per queste atrocità subite dai profughi del Corno d’Africa e
dell’Africa sub sahariana, gravano anche su quei paesi che hanno intrappolato
migliaia e migliaia di giovani in una realtà come quella libica, con la loro
politica volta a ‘esteriorizzare’ e a spostare i confini europei sulla sponda
meridionale del Mediterraneo e, ultimamente, anche più a sud. Quei governi che
hanno fatto di vari Stati africani, a cominciare dalla Libia, i gendarmi per il
controllo dell’emigrazione, lasciandoli decidere della vita e della morte di
chi è costretto a scappare dal proprio paese per salvarsi da guerre e
dittature, persecuzioni politiche, religiose, razziali”.
Sulla base del
dossier di informazioni ricevute, alla vigilia di Ferragosto Habeshia ha
lanciato un altro, disperato Sos alla comunità internazionale. “Per l’ennesima
volta e con ancora più forza – insiste
don Zerai – chiediamo all’Onu, all’Unione Europea e agli Stati Uniti di
intervenire quanto prima possibile per organizzare una o più vie di fuga per i
migranti bloccati in Libia. Roma vanta da sempre rapporti ‘diretti’ con
Tripoli. Allora, ci rivolgiamo in particolare all’Italia, sia perché è l’unico
Stato europeo ad aver mantenuto aperta la propria ambasciata a Tripoli, sia per
gli accordi bilaterali firmati ripetutamente con i leader libici, dai tempi di
Gheddafi sino ad oggi. Al Governo, al ministero degli Esteri e all’ambasciatore
chiediamo, come primo intervento immediato, di tentare di bloccare con tutti i
mezzi possibili i sequestri e l’uso dei profughi come ‘ausiliari-schiavi’ nei
combattimenti: è l’unico modo per fermare il massacro. In questo semestre,
oltre tutto, l’Italia è alla guida dell’Unione Europea: è l’occasione migliore
per coinvolgere l’intera Europa nell’organizzazione di corridoi umanitari per i
gruppi di rifugiati più vulnerabili e bisognosi di protezione. Se davvero, come
dice, Roma vuole ‘dare una svolta’ alla politica africana, non può sottrarsi a questa
scelta”.
Appelli dello stesso
tono stanno preparando diverse associazioni della diaspora eritrea. E’
probabile anzi che, insieme all’inattesa “apertura di credito” decisa dal
governo italiano nei confronti della dittatura di Isaias Afewerki con il
recente viaggio ad Asmara del vice ministro agli esteri Lapo Pistelli, questa
tragedia abbia vasta risonanza nella manifestazione degli esuli residenti in
tutta Europa, prevista per la fine di agosto a Bologna. “Intervenire subito per
salvare quante più vite possibile è la cosa più urgente – dicono alcuni giovani
eritrei rifugiati a Roma – La Libia non ha mai firmato la convenzione di
Ginevra del 1951 sulla tutela dei diritti dei migranti e non ha mai rispettato
quella analoga sottoscritta con l’Unione Africana. E’ tempo che la comunità
internazionale si muova. Tuttavia – denunciano senza mezzi termini – va
ricordato che quelle migliaia di nostri fratelli non sono finiti per caso nel
tritacarne libico: ce li ha cacciati la dittatura di Asmara. Quella dittatura
dalla quale noi stessi siamo stati costretti a scappare e alla quale ora
l’Italia sta ridando fiato. Proprio ora che il regime sta attraversando forse
il suo momento di maggiore difficoltà, isolato com’è da tutta la comunità
internazionale, accusato di sostenere il terrorismo dagli altri Stati della
regione, probabilmente in procinto di essere imputato dalla Svezia di crimini
contro l’umanità, sotto inchiesta all’Onu per la violazione sistematica dei
diritti umani, oggetto di pesanti critiche anche da parte di tutti i vescovi
del paese e del Consiglio mondiale delle Chiese. Non a caso, del resto, quello
dell’Eritrea è l’unico governo ad essere stato escluso (insieme alle dittature
del Sudan e dello Zimbawe), per volontà esplicita del presidente Obama,
dall’incontro tra Africa e Stati Uniti che si è tenuto a Washington nei giorni
scorsi. E non a caso è eritreo un profugo su tre delle decine di migliaia che
continuano ad arrivare in Italia e in Europa”.