Un giovane eritreo è stato trovato impiccato in una sala del centro di detenzione per stranieri di Aarau. Era in procinto di essere espulso verso l’Italia. Si trovava in Svizzera per la seconda volta. In possesso di un permesso di soggiorno italiano, era entrato una prima volta nel territorio della Repubblica Elvetica circa due anni fa e, dopo un controllo dei suoi documenti, nel marzo del 2013 aveva accettato di essere inviato a Roma. Nello scorso mese di agosto, nonostante il divieto di “entrata”, è tornato in Svizzera. Fermato, identificato e condotto al centro di Aarau, era in attesa che le autorità argoviesi formalizzassero la sua seconda espulsione. Questa volta non ce l’ha fatta a sopportare la prospettiva di un rinvio in un paese dove non voleva vivere e nel quale aveva trovato solo indifferenza, ostilità, negazione di fatto dei diritti che a parole gli erano stati riconosciuti con il rilascio del permesso di soggiorno. Non ce l’ha fatta al punto che ha preferito farla finita per sempre. Aveva solo 29 anni.
Questa tragedia rischia di essere soltanto all’inizio. Ci sono centinaia, migliaia di immigrati, in gran parte eritrei come quel giovane, che vivono nel terrore di essere scacciati dalla Svizzera verso l’Italia. Per 600 di loro è già stato firmato o è in corso di istruttoria il decreto di espulsione. Tutti verso l’Italia, nonostante manchino spesso prove certe che siano arrivati proprio dal confine italiano. Si profila così, al di là degli atti formali, una enorme ingiustizia sotto il profilo etico-morale: la consegna di migliaia di disperati a un sistema di accoglienza, quello italiano, che di fatto abbandona a se stessi i richiedenti asilo anche quando abbiano ottenuto dallo Stato una forma di protezione internazionale. Un sistema che sempre più spesso condanna questi esuli a vivere in una condizione da “invisibili” senza diritti, senza casa, senza lavoro: braccia consegnate al lavoro nero e allo sfruttamento.
Per tutto questo chiediamo di sospendere tutti i procedimenti e le pratiche di espulsione in atto dalla Svizzera.
Precedenti per giustificare anche legalmente questa scelta non ne mancano. Ne citiamo due in particolare che riteniamo particolarmente significativi: uno di questi giorni, l’altro del novembre 2011.
Il primo è la condanna decisa il 21 ottobre di quest’anno da parte della Corte Europea per i diritti umani, nei confronti dell’Italia e della Grecia, per la vicenda di 35 profughi bloccati e respinti dai porti di Ancona, Venezia e Bari, nel 2009, per essere consegnati alla Grecia. La Corte ha contestato all’Italia di aver proceduto ai respingimenti-espulsione, applicando rigidamente i criteri del trattato di Dublino, nonostante fosse perfettamente a conoscenza del duro trattamento riservato in Grecia a profughi e migranti e delle inumane condizioni di vita nei centri di raccolta per stranieri. Atene, a sua volta, è stata condannata appunto per la sua “politica” nei confronti degli immigrati, inclusa la prospettiva-minaccia di rimpatrio nei paesi dai quali i profughi sono stati costretti a scappare.
Non meno importante il secondo precedente, noto come “caso” dei dubliners: dei rifugiati, cioè, vittime del trattato di Dublino. Nel 2011 (in particolare nel mese di novembre), ben 41 Tribunali tedeschi hanno sospeso temporaneamente tutte le espulsioni verso l’Italia dei richiedenti asilo che avevano fatto ricorso alla magistratura. Si tratta di alcuni dei principali tribunali tedeschi, tra cui Weimar, Francoforte, Dresda, Friburgo, Colonia, Darmstadt, Hannover, Gelsekirchen. Alla base delle varie sentenze fu posto proprio il trattamento riservato dall’Italia ai richiedenti asilo. Trattamento documentato in un dossier costruito “sul campo” da parte di due avvocati difensori dei dubliners, dopo un viaggio fatto in varie città italiane proprio per rendersi conto di persona della situazione e raccogliere una lunga serie di testimonianze, tutte concordi nell’asserire che Roma si limita ad assicurare solo formalmente lo status di rifugiato o altre forme di tutela internazionale, perché nel sistema di accoglienza mancano quasi totalmente programmi in grado di condurre a un reale processo di inclusione sociale e di re insediamento.
Nell’uno e nell’altro caso si è ritenuto che andasse sospeso o comunque non applicato rigidamente il trattato di Dublino, che lega i rifugiati al primo paese Schengen al quale rivolgono la richiesta di asilo. Si è sospesa, cioè, l’applicazione della “legge formale” perché la sua applicazione si sarebbe risolta di fatto in una somma ingiustizia. Facciamo appello, allora, ad ispirarsi a questo stesso principio. In nome dell’equità, dell’etica, della vita stessa di migliaia di giovani.
don Mussie Zerai
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