“Salvare i vivi se davvero si vuol onorare la memoria
dei morti”
di Emilio Drudi
Un anno fa la
tragedia di Lampedusa: quella che è diventata la “madre” di tutte le stragi di
migranti nel Mediterraneo. Era il 3 ottobre: 366 vite spezzate in una sciagura
che ha fatto inorridire i cuori ed ha richiamato l’Italia e l’Europa alle
proprie responsabilità nei confronti dei disperati che gridano aiuto dai paesi
del Sud del mondo sconvolti da guerre, dittature, persecuzioni, carestia, fame.
I quelle stesse ore
in cui nel 2013 stava per cominciare il conto dei morti, sono arrivati a
Lampedusa, in visita ufficiale, autorevoli rappresentanti dell’Unione Europea,
del Governo e delle istituzioni italiane. In particolare, il presidente del
Parlamento Europeo, Martin Shulz; Federica Mogherini, titolare della politica
estera sia della Ue che in Italia; la presidente della Camera dei Deputati,
Laura Boldrini. E’ sbarcato sull’isola, insieme a una cinquantina di superstiti
e di familiari delle vittime, anche don Mussie Zerai, il presidente
dell’agenzia Habeshia, che da anni contesta le contraddizioni, gli errori, le
gravi colpe dell’Italia e della Fortezza Europa, per la scelta di trincerarsi
dietro mura invalicabili, dimenticando i doveri di accoglienza e asilo nei
confronti degli esuli, dei rifugiati, dei profughi. Mattanze come quella di
Lampedusa nascono anche da queste decisioni. Proprio per questo la presenza del
sacerdote eritreo non appare casuale: al di là del dovere di “ricordare” tutti
quei morti, don Zerai vuole chiamare in causa direttamente l’Europa e i governi
degli stati membri dell’Unione, affinché da Lampedusa muova finalmente i primi
passi una politica diversa. Come? Partendo da un confronto serrato, in un luogo
simbolo come quella piccola isola italiana, “porta d’Europa” in mezzo al
Mediterraneo, con le “autorità” presenti in un giorno particolare come il 3
ottobre.
Ci sarà un fiume di proposte e di domande da porre ai
rappresentanti dell’Europa e del governo. Ma intanto non è di per sé
significativo che abbiano voluto andare a Lampedusa, nell’anniversario della
strage, rappresentanti così importanti dell’Europa e del Governo e del
Parlamento italiano?
Don Zerai: “Certo,
può essere un fatto significativo. Ma una ‘visita ufficiale’ di per sé non basta.
I 365 giorni trascorsi da quel 3 ottobre 2013 sono stati un anno terribile. Lo
dimostrano le 3.072 vittime denunciate nell’ultimo rapporto dell’Oim solo nei
primi nove mesi del 2014. Senza contare le centinaia, migliaia, che non entrano
nemmeno nelle statistiche: i morti nel deserto e nei paesi di transito, fino
alle coste del Nord Africa; gli uccisi nelle carceri e nei centri di
detenzione. A Martin Shulz, a Federica Mogherini, a Laura Boldrini e agli altri
rappresentanti della politica e delle istituzioni europee e italiane, vogliamo
chiedere, allora, che cosa significano la loro presenza a Lampedusa e le tante
parole che si stanno spendendo ovunque in questo triste anniversario. Siamo
stanchi di parole e promesse. E’ tempo di avere risposte precise e concrete per
cambiare tutto l’attuale sistema che trasforma i viaggi della speranza in
viaggi di morte”.
L’Europa e il governo italiano, però, affermano di
fare già molto: i soccorsi ai barconi, Mare Nostrum, la nuova operazione
Frontex, l’accoglienza assicurata a migliaia di migranti… Non è sufficiente
tutto questo? Cos’altro si può fare? Dai politici arriva spesso l’accusa alle
associazioni umanitarie di protestare molto ma di proporre poco.
“Siamo di fronte a
un problema epocale. Basti dire che, secondo le stime dell’Onu, in questo
momento ci sono nel mondo ben 51 milioni di profughi e sfollati. Un’altissima
percentuale proprio nel quadrante del Mediterraneo: migliaia, milioni di uomini
e donne in fuga dall’Africa e dal Medio Oriente. La soluzione non può certamente essere la militarizzazione del
Mediterraneo, come è avvenuto in parte anche con Mare Nostrum (pur riconoscendo
a questo progetto il merito di aver salvato migliaia di vite umane), come
avverrà con Frontex Plus e come è stato chiesto di fare ancora di più,
affidando i compiti di pattugliamento alla Nato. Né può esserlo la prosecuzione
della politica attuata finora, rivolta a esternalizzare e a spostare sempre più
a sud i confini della Fortezza Europa, fino alla frontiera libica con l’Egitto,
il Sudan, il Chad, l’Algeria, con il risultato di abbandonare i profughi in
pieno Sahara. Per questo formuliamo alcune proposte volte a affrontare
l’enorme, crescente fenomeno dei profughi in maniera totalmente diversa: ‘lavorare’
a monte, per cercare di eliminarne le cause del problema, invertendo la scelta
adottata finora di intervenire a valle, guidati da criteri esclusivamente,
rigidamente emergenziali e securitari. Sono proposte concrete per le quali
chiediamo risposte precise ed altrettanto concrete”.
Proposte concrete… Quali in sintesi le più urgenti?
“Direi almeno
quattro: corridoi umanitari; sostegno ai paesi di transito e prima sosta;
interventi congiunti nei ‘punti di crisi’; un sistema di accoglienza europeo
unico. Cerco di entrare nei dettagli, capitolo per capitolo:
- Corridoi
umanitari. Istituire una serie di corridoi umanitari che, con la collaborazione
dell’Unhcr, consentano di aprire ai profughi le ambasciate europee nei paesi di
transito e di prima sosta, in modo da esaminare sul posto le richieste di asilo
e consentire così a tutti coloro che hanno diritto a una qualsiasi forma di
protezione internazionale di raggiungere in condizioni di sicurezza il paese
scelto e disposto ad accoglierli.
- Paesi di transito
e di prima sosta. Con la collaborazione e d’intesa con i governi locali, studiare
ed attuare interventi e programmi di aiuto per rendere più sicuri i paesi di
transito e prima sosta, creando così condizioni di vita accettabili, nei tempi
di attesa, per i profughi che presentano richiesta d’asilo all’Europa e, a
maggiore ragione, per quelli (in realtà la grande maggioranza) che intendono
restare invece proprio in quei paesi, non lontano dalla propria terra, nella
speranza che si creino le condizioni per poter tornare sicuri in patria in
tempi non troppo lontani. L’azione combinata di questo programma e dei corridoi
umanitari può risultare l’arma più efficace per sottrarre i profughi e i migranti
al ricatto dei mercanti di morte e alle loro organizzazioni criminali.
- Interventi nei
“punti di crisi”. Varare una politica comune e mirata dell’Unione Europea nei
cosiddetti “punti di crisi”, per eliminare o quanto meno ridurre le cause di
questo esodo enorme direttamente nei paesi d’origine dei profughi. Innanzi
tutto, in questo momento, nel Corno d’Africa che, insieme alla Siria, è la
regione dove il fenomeno è più grave ed evidente, come dimostrano le
statistiche sulla ripartizione nazionale dei rifugiati approdati negli ultimi
nove mesi sulle coste italiane ed europee.
- Sistema di
accoglienza unico. I profughi, dopo aver ottenuto il diritto d’asilo, lo status
di rifugiato o una qualsiasi forma di protezione internazionale, sono spesso
abbandonati a se stessi, privi in pratica di diritti e di prospettive. Accade
in diverse realtà, ma in particolare accade in Italia: non a caso tantissimi
rifugiati – quelli appena arrivati ma anche molti ospiti già da tempo del Paese
– vorrebbero andarsene verso nazioni più ospitali ed organizzate, ma ciò non è
possibile a causa delle norme comunitarie vigenti. Proprio in questi giorni, ad
esempio, l’Italia sta obbligando i profughi a farsi identificare e a rilasciare
le proprie impronte digitali, spesso prima ancora di entrare nei Centri di
accoglienza, intrappolandoli in uno Stato dove non desiderano restare. Da
questa situazione assurda e in contrasto con i diritti umani si può uscire solo
varando e adottando un nuovo sistema di accoglienza e di asilo politico, unico
e condiviso da tutta l’Unione Europea. Un sistema che preveda progetti uguali
in tutti i paesi Ue per una dignitosa “prima ospitalità” e per il successivo
inserimento sociale, civile, economico, culturale dei richiedenti asilo,
concedendo loro la libera circolazione e residenza. Ci sono, in questo
contesto, interventi che si possono realizzare in tempi rapidi e con relativa
facilità: il superamento dell’accordo Dublino 3; l’accelerazione e la
semplificazione dei processi di ricongiungimento familiare, oggi spesso
bloccati da cavilli burocratici e pretestuosi. Potrebbero essere i primi,
decisivi passi reali verso l’attuazione di un programma europeo di re
insediamento”.
Ma ci sono le risorse per questa che appare una autentica
“rivoluzione” del sistema?
“Non credo sia un problema di risorse, ma di mentalità.
Direi di ‘cultura’. Finora sono stati spesi centinaia di milioni di euro in
interventi di tipo ‘securitario’, per il controllo e la difesa delle frontiere.
Pattugliamenti e respingimenti in mare, ad esempio; famigerati patti bilaterali
con paesi della sponda sud del Mediterraneo di dubbia democrazia, come quello
tra Italia e Libia; perfino la costruzione di
barriere fisiche invalicabili, come lungo il confine tra Grecia e
Turchia o nell’enclave spagnola di Ceuta e Melilla in Marocco. Se si vanno a
vedere i bilanci degli ultimi anni, si scopre che il rapporto è di 3 a 1: tre
euro, forse anche di più, in progetti di ‘difesa’ e solo 1 per l’assistenza.
Basterebbe, intanto, invertire questo rapporto. Ecco perché sui punti che ho
elencato – voglio ripeterlo con forza – chiediamo risposte rapide e concrete.
E’ l’unico modo per onorare davvero la memoria dei 366 morti di Lampedusa e
delle altre 26 mila vittime che si sono registrate negli ultimi anni solo nel
Mediterraneo. Lo chiediamo innanzi tutto al presidente Martin Shuz, al ministro
Federica Mogherini e alla presidente Laura Boldrini, che hanno voluto essere a
Lampedusa a un anno esatto dalla strage. Ci aspettiamo da loro risposte in
grado di onorare le vittime, di asciugare le lacrime dei superstiti, di dare
aiuto e dignità alle migliaia di disperati che bussano alle porte dell’Europa”.
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