di Emilio Drudi
Uno sportello per
l’assistenza e l’integrazione dei migranti indiani, con l’obiettivo di aiutare i
braccianti sfruttati a denunciare i caporali e le aziende che sfruttano la loro
fatica. Poi, la promessa di varare una legge regionale contro il caporalato e
di assicurare controlli più capillari e frequenti degli ispettori del lavoro.
E’ il progetto “Bella Farnia”, proposto dall’associazione In Migrazione e dalla
Cgil e aperto dalla Regione sulla scia dell’inchiesta, condotta sempre da In
Migrazione e dalla Cgil, che ha portato alla luce condizioni di vera e propria
schiavitù per molti lavoratori, per la maggior parte sikh emigrati dal Punjab.
Se ne è parlato in un convegno all’Istituto per l’agricoltura di Latina. Un
convegno “folto”: c’erano rappresentanze e ospiti ai massimi livelli delle
istituzioni e del mondo del lavoro: Regione, Provincia, vari comuni,
Prefettura, forze di polizia, sindacato, associazioni imprenditoriali, Curia vescovile.
Nei vari interventi si sono sottolineati spesso concetti come legalità,
diritti, integrazione, dignità della persona e del lavoro, inclusione sociale.
A questo, infatti, punta il “progetto anti schiavitù” che ha preso il via a
Bella Farnia, nel cuore dell’Agro Pontino, e promette di diventare un modello
anche per altre realtà.
Si tratta, senza
dubbio, di un grande risultato. Eppure… Eppure si ha la sensazione che nel
convegno, nel confronto cioè tra le massime istituzioni regionali e locali, si
sia discussa solo “l’ultima mezz’ora” del problema. Il punto è che mentre si
vara finalmente un progetto credibile contro lo sfruttamento e il lavoro nero, giorno
dopo giorno, in questo Paese, in Italia, si continua a costruire un serbatoio
enorme proprio di sfruttamento e lavoro nero. E a costruirlo è lo Stato stesso
con le sue leggi. A cominciare dal sistema di accoglienza per profughi e
migranti.
Secondo l’ultimo
rapporto del Commissariato Onu (Unhcr) ci sono oggi 53 milioni di profughi nel
mondo: non “migranti economici” ma uomini e donne costretti a fuggire dal
proprio paese per salvarsi da guerre, dittature, uccisioni mirate,
persecuzioni, galera. Una fuga per la vita. C’è chi parla, ormai, di
“catastrofe umanitaria” e il fenomeno è appena all’inizio: continua a crescere.
Basta seguire la progressione dei numeri per rendersene conto: i profughi
censiti dall’Unhr erano 50 milioni a fine 2013, sono saliti a 51 all’inizio di
marzo, ora sono 53. E una larga percentuale gravita sul quadrante del
Mediterraneo, una moltitudine di persone costrette a scappare dal Medio Oriente
e dall’Africa. Solo dalla Siria ne sono fuggite più di tre milioni, senza
contare i 4 milioni di sfollati all’interno del paese, molti dei quali saranno
spinti prima o poi a varcare la frontiera dalla guerra di tutti contro tutti
che si trascina irrisolta da anni. E dalla dittatura eritrea si calcola che
fuggano non meno di 4/5 mila persone al mese.
Oltre il 90 per
cento di questi disperati si ferma nei paesi limitrofi al proprio. Ma per chi
punta verso l’Europa, la nostra penisola è uno dei principali terminali, magari
con l’intento poi di proseguire verso un’altra nazione Ue. Dall’inizio
dell’anno a oggi, ne sono arrivati quasi 150 mila. Per l’esattezza, secondo i
dati della direzione della polizia di frontiera, 149.698. L’Italia ha aperto
loro le porte: li accoglie e spesso va a soccorrerli in mezzo al Mediterraneo,
portandoli al sicuro nei porti siciliani, con le navi dell’operazione Mare Nostrum.
Poi basta, però. Una volta sbarcati, quella stessa Italia che è andata a
salvarli si dimentica totalmente di loro. Appena arrivati, vengono presi e rinchiusi
in un centro di accoglienza per richiedenti asilo (Cara), in attesa che le loro
domande di protezione internazionale siano esaminate. Un’attesa che dura a
volte più di un anno. Mesi e mesi di confino in strutture invivibili, isolate
come ghetti. Dove spesso persino l’assistenza sanitaria per i malati è
insufficiente e precaria, come denuncia con forza il gruppo Medici per i
diritti umani. E dove i suicidi per disperazione sono frequenti.
Ma il dopo, quando
finalmente si ottiene una forma di tutela (status di rifugiato, asilo politico,
protezione per motivi umanitari, ecc.), forse va anche peggio. Dai Cara i
rifugiati escono con in mano il permesso di soggiorno e magari un biglietto del
treno, ma tutto finisce lì: nessuno si prende più cura di loro. Arrivano a
Roma, Milano, Napoli, nelle grandi città, e usciti dalla stazione non sanno a
chi rivolgersi, dove andare, dove e come trovare lavoro, un tetto, un letto per
passare la notte. Nulla di nulla. Invisibili senza diritti, destinati ad
affollare ancora di più i palazzi occupati abusivamente o le baraccopoli dove
già vivono migliaia di “fantasmi” come loro. Non persone consegnate, regalate
al lavoro nero, allo sfruttamento, talvolta alla criminalità. Disperati
“scaricati” dallo Stato che li ha accolti ma della cui sorte non si preoccupa,
una volta esaurita la “pratica” del permesso. Con queste migliaia di uomini e
donne si trovano così a dover fare i conti – di fatto, senza un programma
coordinato, senza direttive chiare, senza risorse – le Regioni, le Prefetture,
le Province, i Comuni. I soliti Comuni che sono lo Stato “in prima linea”,
quello che è immerso tutti i giorni nella realtà dei problemi.
E’ strano. Da una
parte lo Stato, con le sue stesse leggi, “consegna” allo sfruttamento una marea
montante di uomini e donne disperati e dall’altra cerca di creare un argine
alla marea che ha lui stesso scatenato. Ma la marea è così grande che non c’è
argine che tenga, a valle, se non si risolve prima il problema a monte. Se non
si riforma radicalmente, cioè, il sistema di accoglienza che questo Paese si è
dato, giudicato il peggiore d’Europa, insieme a quello greco. Appare assurdo,
allora, che Regioni, Prefetture, Province, Comuni non si mobilitino per
chiedere allo Stato “centrale” di mettere fine alla fatica di Schiavo alla
quale sono condannati. Per chiedere, cioè, un nuovo programma di accoglienza
adeguato alla “catastrofe umanitaria” che preme alle porte dell’Europa. Meglio
ancora se un programma unico, condiviso tra tutti gli Stati membri dell’Unione
Europea, che garantisca ai rifugiati una permanenza dignitosa, libertà di
residenza e di circolazione. E, magari, con una ripartizione più equa
dell’ospitalità: secondo l’ultimo rapporto dell’Onu, in Italia c’è un solo
rifugiato (1,2 per l’esattezza) ogni mille abitanti contro i 9 della Svezia, i
7 dell’Olanda, i 6 della Germania, i 4/5 della Francia.
Il convegno di Latina
ha invocato diritti e legalità per i lavoratori migranti, perché possano
davvero sentirsi liberi e affrontare la vita con dignità. Il progetto “Bella
Farnia” va in questa direzione. E’ un passo importante ma, appunto, solo un
passo. La battaglia da combattere è più vasta e comincia dal sistema a monte.
La impone, prima ancora che le convenzioni internazionali che l’Italia ha
sottoscritto, la nostra stessa
Costituzione, che all’articolo 10, terzo comma, dice testualmente: “Lo
straniero, al quale sia impedito nel suo paese l’effettivo esercizio delle
libertà democratiche garantite dalla Costituzione Italiana, ha diritto d’asilo
nel territorio della Repubblica, secondo le condizioni stabilite dalla legge”. Non
c’è diritto d’asilo senza libertà, dignità, legalità, sicurezza. E non rispetta
certamente il diritto d’asilo un sistema che scarica migliaia di profughi in un
serbatoio enorme di sfruttamento e lavoro nero.
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