di Emilio Drudi
“Processo di
Khartoum”: così il viceministro degli esteri Lapo Pistelli, tornando dal Sudan
il 16 ottobre, ha definito le intese e i programmi concordati con gli Stati del
Corno d’Africa. Al centro dei colloqui – ha specificato – sono state poste le
questioni migratorie, con riferimento particolare al traffico di esseri umani
nel Mediterraneo e il contrasto dell’emigrazione irregolare. In più, la
prosecuzione del dialogo e dei rapporti di collaborazione inaugurati con la
visita che lo stesso Pistelli ha fatto a tutti i paesi della regione nel mese
di luglio. Il progetto verrà specificato ulteriormente nell’incontro tra Unione
Europea e governi africani previsto a Roma per il 28 novembre prossimo.
Il ministero degli
esteri – ovvero il governo Renzi – continua a sostenere, dunque, la linea di
apertura inaugurata anche nei confronti di dittatori come Omar Hasan al Bashir
in Sudan e Isaias Afewerki in Eritrea. Due dei tre despoti (l’altro è Robert
Mugabe, presidente dello Zimbawe) che Barack Obama non ha assolutamente voluto
nella conferenza tra Stati Uniti e paesi africani, proprio per la persecuzione
e la violazione costante dei diritti umani di cui sono accusati contro la loro
stessa popolazione. A sostegno della “validità” di questa apertura di credito,
la Farnesina cita tra l’altro il caso di Meriam Ibrahim, la giovane condannata
a morte per apostasia in Sudan e liberata grazie alla mediazione italiana. Una
vicenda che ha avuto il merito enorme di salvare una vita, ma che è stata anche
accompagnata da una enorme eco mediatica, che Italia e Sudan non hanno esitato
a cavalcare. Non una parola, invece, da parte della Farnesina, su altre
difficili, spinose questioni. Come quella delle donne eritree alle quali la
nostra ambasciata a Khartoum nega il visto per emigrare in Italia, nonostante i
rispettivi mariti, residenti da anni nella penisola, abbiano ottenuto dal ministero
degli interni il nulla osta per il ricongiungimento familiare e, di
conseguenza, per farle arrivare tutte al più presto. E’ una situazione assurda,
ma la Farnesina non dice una sola parola da mesi: continua a tenere quelle
giovani sospese in un limbo senza fine. Forse per non “infastidire” Afewerki?
Perché le loro storie sono una prova palese, “vivente”, di come l’Eritrea sia
diventata una enorme prigione?
Ma l’elenco degli
strani silenzi su Eritrea e Sudan è lungo. In un carcere situato a una trentina
di chilometri da Khartoum, in pieno deserto, sono stati rinchiusi, circa un
anno fa, oltre 200 ragazzi eritrei, arrestati per essere entrati nel paese
senza né documenti né visto. Condannati a 8 mesi di prigione e ad una ammenda,
hanno scontato la pena, ma quando il periodo di detenzione è scaduto, non li
hanno rilasciati: il governo ha deciso di trattenerli in attesa di definire le
pratiche per il loro rimpatrio forzato in Eritrea. Rimpatriarli, però,
significa consegnarli proprio al regime dal quale sono fuggiti. Rischiano altra
galera e altre persecuzioni, perché Asmara considera un crimine pesante l’espatrio
clandestino, tanto più se si tratta di ragazzi in età di leva. Quelli che erano
già arruolati e hanno abbandonato l’esercito, anzi, sono in una situazione
ancora peggiore: sono considerati disertori in tempo di guerra (la guerra non
combattuta ma mai finita contro l’Etiopia) e soggetti, dunque, al codice
militare più duro. Pistelli e in generale la Farnesina sono informati di questa
tragedia: hanno ricevuto appelli su appelli a intervenire. Tuttavia non risulta
che né prima, né in occasione del recente incontro, ne abbiano fatto cenno e
meno che mai che abbiano sollevato la questione ufficialmente, per chiedere al
governo di Khartoum di liberarli e di annullarne il rimpatrio forzoso.
Sempre da Khartoum,
negli stessi giorni in cui Pistelli presiedeva l’incontro con gli Stati
africani, è arrivato l’ennesimo grido d’aiuto da parte di questi 200 profughi.
Ora sono detenuti in due carceri gestiti da militari dell’Esercito, sempre nel
deserto. Sono tutti richiedenti asilo: 168, di cui 33 ragazzini minorenni, nel
lager di Alhuda e 95, incluse molte donne, in quello di Arebi. All’agenzia
Habeshia, che sono riusciti a contattare con un cellulare, hanno raccontato di
condizioni di vita degradanti: poco cibo, una situazione igienica disastrosa,
scarsissima persino l’acqua da bere, spesso fangosa e salmastra. Senza contare
i maltrattamenti continui da parte delle guardie, le minacce, gli insulti.
Parecchi si sono ammalati, ma nessuno se ne prende cura. “Alcuni, i più gravi,
sono stati portati via, ma non si sa dove – denuncia don Mussie Zerai, il
presidente di Habeshia – Si sta verificando una evidente, totale violazione dei
diritti fondamentali di queste persone. Persino del diritto alla vita, perché è
in continuo pericolo la loro stessa sopravvivenza”.
L’ufficio di
Khartoum del Commissariato Onu per i rifugiati è stato informato. Finora non si
ha notizia che sia intervenuto in modo efficace. Dimenticati da tutti, intanto,
molti di quei 200 profughi hanno iniziato lo sciopero della fame, in un estremo
tentativo di far sentire la loro voce. Se nessuno li ascolterà, faranno anche
lo sciopero della sete. E’ un rischio grave in quelle condizioni e con le
temperature del deserto sudanese. “Mi hanno detto che la loro disperazione è
tale, ormai, da essere disposti a tutto: anche a rischiare la vita”, racconta
don Zerai.
Silenzio totale
della Farnesina. Quasi si avesse timore di “guastare i colloqui” con Omar al
Bashir per il Sudan e con Isaias Afewerki per l’Eritrea, in vista dell’incontro
di Roma. Eppure questi colloqui potrebbero avere un senso soltanto se si riesce
a imporre in via preliminare, prima ancora di cominciare a “discutere”, il
rispetto dei diritti umani. Del resto, cosa intenda Afewerki per confronto e
come sia abile a sfruttare l’insperata linea di credito che gli ha aperto
l’Italia, emerge chiaramente dal comunicato diffuso da Asmara all’indomani del
confronto di Khartoum. Il ministro degli esteri Osman Saleh, dopo aver
dichiarato la totale disponibilità a contrastare i mercanti di uomini, ha
specificato che occorre combattere non solo i clan criminali dei trafficanti,
ma tutti i loro complici a vario titolo. E tra i “complici” ha incluso anche
“l’attivismo per i diritti umani”. Come dire: le organizzazioni che cercano di
aiutare i rifugiati e denunciano gli abusi e le persecuzioni che li costringono
a scappare. Di più, ha parlato di accuse ingiuste nei confronti del suo governo,
di “vittimizzazione” dei profughi e, in definitiva, di una “ingiustificata
politicizzazione del problema”. Ci sarebbe, insomma, una sorta di complotto
internazionale contro l’Eritrea, tendente a destabilizzare il paese e del quale
il sostegno all’emigrazione illegale risulterebbe uno degli strumenti più
insidiosi, insieme all’imposizione di “ingiuste sanzioni”. Quasi un’eco delle
“inique sanzioni” lamentate da Mussolini quando ha aggredito, massacrato e
schiavizzato l’Etiopia.
C’è da chiedersi, di
fronte ad affermazioni del genere, come sia possibile aprire un dialogo. La
Farnesina, con il viceministro Lapo Pistelli, insiste sulla via intrapresa. “Il
dialogo è necessario: la pace si fa con i nemici”, ha specificato lo stesso
Pistelli. Giustissimo: “La pace si fa con i nemici”. Ma non passando sulla
testa delle vittime. Sulla vita dei perseguitati che, nella diaspora come in
patria, sognano un’Eritrea diversa, libera e democratica.
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