di Emilio Drudi
Ci sono oltre 1.200
rifugiati e migranti che rischiano la deportazione dalla Libia verso i paesi
d’origine. Nella migliore delle ipotesi, una volta riconsegnati al governo dal
quale sono fuggiti, li aspetta un processo per emigrazione clandestina ma, in realtà,
lunghi anni di prigione o addirittura la morte. Specie in Eritrea, dove la fuga
dal paese è equiparata in pratica alla diserzione dall’esercito. E gli eritrei
sono tantissimi: 350 di quei 1.200. Gli altri vengono dall’Etiopia, dalla
Somalia, dalla Nigeria, dal Niger e dal Chad. Sono stati tutti concentrati in
due carceri del sud distanti tra loro circa 70 chilometri, Sebha e Barika, dove
vengono rinchiusi gli stranieri classificati come ammalati. E proprio la
malattia pare sia la giustificazione addotta da Tripoli per il decreto di
espulsione. Ne hanno parlato anche la televisione e la radio libiche. “Siamo
obbligati a prendere questo provvedimento – è stato detto – perché molti di
loro sono portatori di malattie ed altri problemi”. “Si tratta di una motivazione
assurda e chiaramente a sfondo razziale”, denuncia don Mussie Zerai, il
presidente dell’agenzia Habeshia, che sollecita per l’ennesima volta la
mobilitazione della comunità internazionale sulla tragedia infinita dei
rifugiati. In particolare per il “caso Libia”, dove le violenze contro i “neri”
registrano una forte recrudescenza: “Continuano in queste ore le aggressioni e
le rapine contro i profughi. Ad Abu Selim, un quartiere di Tripoli, centinaia
di migranti devono restare segregati in casa. Hanno paura di uscire, perché ci
sono bande di miliziani che rastrellano le strade a caccia di ‘neri’. Se
qualcuno esce anche solo per acquistare il pane, viene assalito, derubato e poi
deportato al sud, verso il carcere di Sheba. La polizia resta inerte: finge di
non vedere. Benché queste aggressioni nascano da evidenti pregiudizi razziali o
religiosi. E’ solo questo il vero movente”.
Razzismo e soprusi,
dunque. Non problemi sanitari. Del resto, se davvero qualcuno di quei profughi
fosse malato, in base alle convenzioni internazionali dovrebbe essere curato,
non respinto. Anzi, sarebbe una ragione in più per accoglierlo e dargli protezione. Ma la Libia non assicura alcuna
assistenza medica ai migranti: neanche a quelli che getta nelle sue carceri. Si
preoccupa solo di disfarsene. Matura in questo contesto il rimpatrio forzato di
quei 1.200 disperati. Nell’indifferenza di tutte le cancellerie occidentali,
pur sapendo a quali rischi quei giovani sono esposti. E nel silenzio assordante
di tutte le forze politiche. In Italia come in Europa. Colpisce in particolare,
per quanto riguarda l’Italia, la posizione del Pd, anche perché tra i temi
guida con cui ha inaugurato la campagna elettorale ha posto proprio quello dei
diritti. Ne ha parlato lo stesso candidato premier, Pierluigi Bersani,
insistendo sul diritto ad essere considerati italiani a tutti gli effetti per i
ragazzi figli di immigrati nati o cresciuti in Italia. La giusta affermazione,
finalmente, che la cittadinanza non si acquisisce in base al principio razzista
dello jus sanguinis ma dello jus soli. Come si fa da sempre in
Francia, ad esempio, dove è cittadino della repubblica chiunque vi nasca, a
prescindere dalla famiglia d’origine.
Non è un tema sul
quale, in seguito, lo stesso Bersani abbia insistito molto. E comunque non
infiamma il dibattito politico in questi pochi giorni che mancano al voto. Però
ha avuto un certo seguito, tanto che si è accodato, sia pure con argomentazioni
molto più sfumate, persino Berlusconi. Su posizioni di chiusura resta solo la
Lega. La stessa attenzione, però, il Pd non sembra mostrarla per quei 1.200
migranti che stanno per essere consegnati a un destino quanto meno oscuro e,
più in generale, per tutti i disperati bloccati in Libia. Migliaia di giovani,
uomini e donne, che hanno raggiunto il paese con la speranza di trovare un
imbarco qualsiasi verso l’Europa. In particolare quelli che, sempre a migliaia,
sono stati intercettati dalla polizia libica e vivono ora rinchiusi in luoghi
che l’ipocrisia del governo italiano chiama centri di accoglienza ma che sono
invece autentici lager. Dove non esistono diritti: solo maltrattamenti,
violenze, lavoro forzato, ricatti, stupri, torture. La morte stessa. Quei
giovani in gran parte sono lì grazie anche alla nostra politica
sull’immigrazione. Sono lì per i respingimenti indiscriminati in mare adottati
negli ultimi anni e per l’ostinazione a non voler ascoltare il loro grido
d’aiuto. Sono lì perché l’Italia ha affidato alla Libia il compito di gendarme
del Mediterraneo, per eliminare o quanto meno contenere i flussi di emigrazione
dal Nord Africa verso le nostre coste. Sono lì, in definitiva, grazie al
famigerato accordo bilaterale siglato da Berlusconi e Gheddafi, sponsor in
particolare l’allora ministro dell’interno Roberto Maroni.
Ma di tutto questo
il Pd non sembra ricordarsi. Forse perché ha molto da farsi perdonare in questa
vicenda, a cominciare dal voto favorevole, in Parlamento, a quell’accordo a due
Italia-Libia. L’ufficio esteri del partito pare avesse espresso forti
perplessità e lo stesso gruppo alla Camera era in buona parte orientato per il
no, ma sarebbero intervenute forti pressioni di vertice ad allinearsi alla
volontà del Governo. E, alla fine, tutti si sono piegati. Sulla pelle di
migliaia di giovani in fuga da fame, persecuzioni e guerre. Si sarebbe potuto
correggere il tiro con Monti, il nuovo premier. Tanto più che giusto un anno
fa, proprio per i respingimenti verso la Libia, l’Italia è stata condannata
dalla Corte europea per i diritti umani. Invece no. Monti ha rinnovato il patto
generale di amicizia con il nuovo governo libico e all’inizio dello scorso
aprile, ben dopo la sentenza di condanna da parte dell’Europa, il ministro
degli interni Anna Maria Cancellieri ha firmato con il suo omologo di Tripoli
una intesa sull’emigrazione che ricalca quasi passo per passo quella voluta da
Maroni. Un’intesa semisegreta. In Parlamento non se ne è discusso. A svelarne
il contenuto è stata Amnesty International, con una vasta campagna che si è
conclusa con la presentazione al ministro Cancellieri di una petizione europea,
densa di decine di migliaia di firme, per chiedere la revoca degli accordi
bilaterali. Il Pd è rimasto in silenzio. Anzi, da notizie riservate filtrate
dal suo stesso ufficio esteri, è emerso che sarebbe stata stoppata una
interrogazione al ministro Cancellieri per chiedere conto del suo operato. Anche
in relazione alle ripetute denunce presentate da varie organizzazioni
internazionali sulle violenze e i soprusi nei confronti dei migranti da parte
della polizia libica e sulle condizioni inumane di vita nei 22 campi di
detenzione che Tripoli ha riservato agli stranieri sorpresi nel suo territorio.
Non basta. Un’ottima
occasione per discutere finalmente di questi temi si è avuta quando in
dicembre, all’indomani delle primarie, Pierluigi Bersani si è recato in visita
ufficiale in Libia, quasi in veste di futuro premier. E, invece, non se ne ha
fatto cenno. Tante parole sull’importanza dei rapporti politici ed economici
tra l’Italia e il governo del dopo Gheddafi, ma non un fiato sul rispetto dei
diritti umani dei profughi e dei migranti come condizione preliminare per ogni
tipo di collaborazione. Facendo finta di dimenticare che Tripoli non ha mai
firmato la convenzione di Ginevra del 1951 sulla protezione dei rifugiati.
Eppure l’Unione Europea, attraverso le commissioni per i diritti umani e per
gli affari interni, appena due mesi prima aveva acquisito un dossier sulla
situazione spaventosa a cui in Libia sono condannati gli immigrati e i
richiedenti asilo: una denuncia inequivocabile sulle condizioni delle carceri presentata
da don Mussie Zerai, convocato in audizione ufficiale a Bruxelles.
Ora si presenta
un’altra emergenza. Proprio in questi giorni don Zerai ha raccolto nuove
notizie per aggiornare il rapporto sulle carceri, trovando ampia conferma che
la situazione continua a peggiorare. E, soprattutto è esploso il caso dei 1.200
rifugiati e migranti che rischiano la deportazione forzata. Anche quest’ultima
emergenza è stata segnalata alla segreteria nazionale del Pd, attraverso alcuni
candidati al Senato e alla Camera. Ma non ci sono state reazioni. Secondo voci
confidenziali uscite dall’ufficio esteri, la giustificazione sarebbe che
“questa fase di transizione e di elezioni non consente di fare molto”. “Le
Camere sono chiuse e si riuniranno il 15 marzo – è la risposta ufficiosa – La situazione
che si prospetta fa ragionevolmente pensare a lunghe consultazioni per la
formazione del Governo, il quale sarà attivo non prima di metà aprile. E’ il
Governo che può fare effettivamente qualcosa”.
Insomma, tutti zitti
“per colpa” delle elezioni. In realtà proprio le elezioni potrebbero essere
l’occasione per portare in primo piano questa emergenza, facendone uno dei temi
del dibattito politico. Con l’impegno di porla tra le priorità della prossima
legislatura e, nell’immediato, di fare pressione sul ministero degli esteri
perché chieda conto a Tripoli della situazione nelle carceri e del rimpatrio
forzato di quei 1.200 e più migranti. Senza contare un’azione a livello
europeo, con i parlamentari di Strasburgo e il consiglio di Bruxelles. E invece
no. Si continua a tacere. Eppure, battersi per i diritti di quei profughi
schiavi in Libia e pretendere il diritto di cittadinanza per i ragazzi nati in
Italia da coppie straniere sono due capitoli della stessa battaglia. Così come
combattere per i diritti del lavoro e della salute, degli operai Fiom
discriminati dalla Fiat e dei malati lasciati senza assistenza. Dei gay e dei
disabili, delle donne emarginate e dei giovani ai quali è stato rubato il
futuro, della scuola e dei servizi sociali. Se si lascia fuori anche uno solo
di questi punti si mette in discussione tutto. E ne nasce il sospetto che si
parli di diritti solo strumentalmente. Con gli occhi offuscati dalla
prospettiva di guadagnare o perdere qualche manciata di voti.
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